Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Messaggi del 18/01/2015
Post n°1087 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno |
Post n°1086 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Il Dittamondo LIBRO QUINTO CAPITOLO VI "Poi ch’io ho sodisfatto al tuo disio, disse la guida mia, è buon tornare, dov’io lassai, al proposito mio. Questo monte, che sopra l’aire pare, si spicca da la rena e si distende 5 in fine a l’oceano e al nostro mare. Di chiaro fuoco la notte risplende e piú ancor che dolcissimi canti d’ogni nuovo stormento vi s’intende. Scimie, struzzi, draghi e leofanti 10 assai vi sono e alberi che fanno lana, onde si veston gli abitanti. Odorifere molto le foglie hanno: simili quasi sono a l’arcipresso e cosí alti e dritti suso vanno. 15 L’erba euforbia ci si truova adesso; colui la nominò, che pria la trova, sí come io dico, del suo nome stesso. Quasi sopra ogni altra erba, il sugo giova a la vista de l’uomo e, piú ancora, 20 ad ogni morso c’ha velen fa prova. Tra ’l monte e l’ocean gente dimora; fontane assai vi sono e folti boschi e dolci frutti vi si truova ognora. E perché bene il paese conoschi, 25 Anatin fiume da quel lato corre dove sono animai non sanza toschi. E, s’io ti deggio i nomi lor comporre, Austo, Bamboto, Asana ippopotano e coccodrilli han piú, che ’l dir trascorre. 30 Di verso noi guarda Gaditano e Belona, lá onde siam passati, questa gente che sopra ’l mare stano. Sette monti ci son che, se gli guati, sí forte l’uno a l’altro si somiglia, 35 che Sefleti son detti o vuo’ tu ‘frati’. Dentro da questi, per tutto ci figlia uno e altro animal, diversi e tanti, che pare a chi li vede maraviglia". E qui mi ragionò de’ leofanti 40 con quanta castitá usan lor vita e la pietá ch’egli han de’ viandanti; e sí come il figliuolo il padre aita a’ suoi bisogni e de’ padri la cura, c’hanno di lor cacciati in altre lita. 45 "Questi risprendon presso a la natura umana, sopragiunse, e de le stelle la disciplina servan senza ingiura. E quando l’uno s’affatica in quelle cose ch’a lor bisogna, l’altro guarda 50 che non li sopragiunga altre novelle. D’entrare in nave quanto può piú tarda e, se tu non li giuri del tornare, non piú che se dormisse la riguarda. Cauti in battaglia e ben si san guardare; 55 se v’è ferito o stanco, il tengon sempre chiuso nel mezzo e lassanlo posare. E scriver puoi, se lor natura assempre, che con la coda l’uccide il dragone ed esso par che lui col carco stempre. Ciò che vive, figliuol, chi mente pone a lo stimolo suo, non è sí forte o vuoi signore o aquila o leone". Cosí, per quelle vie diritte e torte, fra me notando gia ogni parola, 65 secondo ch’io l’udia belle e accorte. Giá eravamo usciti de la gola de la marina e lasciato a le spalli Sacara, Messa, Saffi e Gozola, e veduto ne’ monti e per le valli 70 Sigani, dico, i Sigabri e i Sorsi, e Sessa e Valena correr per que’ calli. Dal mezzodí udio che senza forsi istanno i Gaulei e questa gente fino a l’Esperio oceano son corsi. 75 Noi eravamo dritti a l’oriente, quando giungemmo di sopra a la Malva, un fiume grande, ruvido e corrente. Qui mi disse Solino: "Colui mal va che se ’l mette a guadar, ma chi ci trova 80 nave o ponte la sua vita salva. E sappi ancor che per molti si prova che in fine a questa riva, ove noi semo, la terra di Tingi si stende e cova". Menommi, poi, dove passammo a remo 85 ed entrammo tra’ neri, Mauri ditti: e mauro, in greco, nero a dire spremo. Sí presso a l’equinozio stanno fitti questi ed i Tingitan, de’ quai ragiono, che dal calor del sol sono arsi e fritti. 90 Qui due cittadi anticamente sono, che fanno in Mauritana due province: Sitin, Cesara i nomi lor compono. A mezzogiorno Astrix vi è, che vince ogni altro monte (è chi ’l noma Carena) 95 fuor d’Atalante, che di tutti è prince. Questo discerne la giacente rena da la feconda terra e qui passai col mio consiglio, che mi guida e mena. Similemente con lui mi trovai, 100 di vèr settentrione, in su la proda del mare, ove son genti e terre assai. Vidi Bugea, che v’è di grande loda: questa nel mare Maiolica guata; e fui in Bona, che quivi s’annoda. 105 Lettor, com’io t’ho detto altra fiata, quasi cambiato ha nome ogni contrada e qual piú e qual men cresce e dilata. Cosí tra questa gente par che vada, ch’egli han mutato nomi e si confina 110 con altri fiumi e con altre strada: dico Morocco e Bellamarina ora comprendon questi due paesi ch’a dietro lasso, e dove ’l sol dichina, secondo che tra lor contare intesi. 115 |
Post n°1085 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno |
Post n°1084 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO QUINTO CAPITOLO V Un’isoletta per quel mar si trova, dove Anteo la sua sedia giá tenne, col quale Ercules fece la gran prova. Liso la nominâr gli antichi, che nne parlaron prima e que’ poeti, poi, 5 che, poetando, giá ne fregar penne. Qui arrivati e dismontati noi, dissi a Solin: "Di veder sarei vago se alcuna novitá ci pare ancoi". "Vienne, diss’ello, e vedrai dove il drago 10 vegliava a guardia de’ pomi de l’oro sí fiero, ch’a vedere era uno smago". Con lui n’andai, che piú non fe’ dimoro, dove mi disegnò, come lo scrive, l’albore, i frutti e le frondi qual fôro. 15 Cosí cercando noi per quelle rive, arrivammo a Tingi, per cui si noma Tingitana la contrada ch’è quive. Poco la gente v’è accorta e doma; con l’Ocean da ponente confina: 20 la fine è qui, ché piú lá non si toma. Io lasciai Plinio in barca a la marina, dove il trovai, e seguitai Solino per via solinga, acerba e pellegrina. A pie’ d’un monte era il nostro cammino: 25 sí alto, a l’occhio mio, che per sembiante toccar parea la luna col suo crino. "Questo è, disse Solin, quello Atalante, che Ovidio scrive che Perseo converse ’n monte regnando tra genti cotante. 30 E giusto fu se ’l mostro li scoperse, ché, sendo stanco e arrivato a lui, di darli albergo e cena non sofferse". Sí vago di saper allora fui chi Perseo fu, che piú non aspettai: 35 ruppi il suo dire e dimanda ’ne a lui. "Figliuol, diss’el, non t’avvegna piú mai che, quand’uom parla, rompa la parola, se cagion degna al dimandar non hai. La voglia serba e stringi labbra e gola 40 sempre ascoltando, in fine che ben vedi ch’al dir non manca una sillaba sola". Poi seguitò: "Costui, di cui mi chiedi saper lo ver chi fu, dico che nacque forse per altro modo che non credi: 45 ché con Danae a ingegno Giove giacque, la qual guardava cautamente il padre; poi parturí costui, che tanto piacque. Cacciato Acrisio lui e la sua madre, crebbe con Polidetto in tanto ardire, 50 che il re temé de l’opere leggiadre. Piú pensier fatti, un dí li prese a dire, come Pelias fece in vèr Giansone quando il mandò a Colcos per morire: - Sotto Atalante, in quella regione,55 un mostro vi si trova tanto fiero, che, lui mirando, uccide le persone. Ond’io, che a te lassar lo regno spero, vorrei che prima acquistassi alcun lodo: e prendi quanto a ciò ti fa mestiero. 60 Ché, s’io udissi dir che in alcun modo, per tuo valore, il conducessi a morte, di niun’altra cosa avrei piú godo -. Preso commiato e partito da corte, prima a trovare il suo fratel si mise, 65 lo qual s’allegra, quando il vide, forte. L’arpe li diede, con la quale uccise Argus, e dielli l’ali per volare: e cosí poi da lui si divise. Apresso mosse per voler trovare 70 la sua cara soror, ché, s’io non fallo, senza ’l consiglio suo non volea andare. Trovata lei, non vi mise intervallo: la ’mpresa sua li disse, ond’ella, allora, li diede un ricco scudo di cristallo. 75 Da lei partito, non fe’ piú dimora; passò in Ispagna, ove il mostro Medusa con le sorore sue regnava ancora. Non valse perché stesse, allor, racchiusa; non valse perché fosse aspra e rubesta; 80 non valson guardie o gente star confusa, che non passasse la mortal tempesta con l’arpe in mano e con lo scudo al volto e che non li tagliasse al fin la testa. Del sangue in terra madefatto e accolto 85 nacque il cavallo, che fece in Parnaso la fonte, che vedesti non è molto. Presa la testa e ’l corpo rimaso, come nuvol per l’aire se ne gio ora a levante e quando ad occaso. 90 De le gocce del sangue, che ne uscio, nacquono i serpi, che noma Lucano, dove pone che Cato a Giuba gio. Qui Atalante, perché li fu villano, converse in monte e non li valse un ago 95 il drago a l’orto, Temis, né guardiano. Di qui, volando, giunse al volto vago d’Andromade e videla in catena data a la belva, piena d’ogni smago. Qui, con lunga battaglia e grave pena, 100 la belva uccise e la donzella sposa, malgrado di Fineo, e via la mena. Ad Acrisio n’andò, ché non riposa; e trovò che Proteo l’avea cacciato e tolto il regno con ogni sua cosa. Fattol di pietra, ritornò in istato l’avolo suo, ben che mal fosse degno; poi passò a Serfo, ove fu nutricato. Qui Polidetto, ch’era re del regno, che mandato l’avea perché morisse, 110 de l’onor suo prese tema e isdegno; e, dispregiando lui, piú volte disse che ver non era avesse morto il mostro: per che sí presso a gli occhi suoi gliel fisse, che ’n pietra il trasformò dentro al suo chiostro" 115. |
Post n°1083 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847 |
Post n°1082 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno |
Post n°1081 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Il Dittamondo E, poi ch’io vidi ch’al tutto taceo, incominciai: "Assai ho ben compreso quanto m’hai detto e scritto nel cuor meo. Vero è ch’i’ son da piú pensier sospeso: i moti lor, come potrai udire, muovon da quel, ch’io ho da te inteso. L’un è che tu mi cominciasti a dire che Aries è diurno e masculino e ’l Tor notturno e feminin seguire; del Gemini e degli altri, poi, in fino al Pesce, mi tacesti l’esser loro: e cosí qui rimasi nel cammino. L’altro pensiero, sopra il qual dimoro, è che Aries di’ che mobile si vede e che fisso si truova apresso il Toro; e ’l Gemini, che dietro a lui procede, comuno il poni e ancor qui fai punto, lassando me com’uom che brama e chiede. E ’l terzo, dal qual sono ancor piú punto, è che tu di’ che de’ dodici segni la luna e ’l sol n’han due e non piú punto. Poi gli altri cinque, che mostran men degni ch’alcun di questi due agli occhi miei, di’ che ciascun n’ha due di questi regni. E però la cagion saper vorrei perché è data a costor piú signoria ch’a’ due, che mostran lassú maggior dei, a ciò che, se giá mai la penna mia di questa tema alcun verso dipinge, disegni la cagion per che ciò sia". "I’ penso ben, diss’ello, che s’attinge per te di questo il ver; ma come uom fai 35 che sa e per udire altrui s’infinge. A quel che prima dimandato m’hai, dico come in due segni i dieci vanno: e questo fu che piú non ne parlai; a la seconda, sí come i tre stanno 40 l’un mobil, l’altro fisso e poi comuno, così di terzo in terzo i nove fanno. Ma, perché tien la terza piú del bruno, far mi convien piú lungo il mio sermone, se cibar deggio il pensier c’hai digiuno. 45 Tu dèi sapere, e qui non è quistione, che Dio, che fece i cieli e gli alimenti, diede a ciascun quanto fu sua ragione. Principalmente so che mi consenti che partir me’ non si potrebbe il cielo 50 che in dodici parti, per piú argomenti. E se tra’ sette lumi, ch’io ti svelo, partir si denno, niun modo pare piú giusto, se ben cerchi a pelo a pelo, che diece segni, a due a due, dare 55 a cinque de’ pianeti; agli altri apresso uno a ciascun, ché me’ non si può fare. Ma qui è da veder qual sará desso l’uno dei due, che men porti gli affanni per aver solo un segno, e ire ad esso. 60 Sará Saturno, che presso a trent’anni pena a fare il suo corso? No, ché troppo andrebbe pellegrin per gli altrui scanni. O sará Giove, che li segue doppo, che dodici ne vuole? O Marti ancora, 65 che ne sta tre a sciogliere il suo groppo? O Venus, o Mercurio, che dimora ciascuno un anno? Non è quel la luna, che ’n dí ventotto o men suo corso fora? Questa passerá meglio ogni fortuna 70 ch’alcun degli altri, ché a sua gloria vene piú spesso e fuor di casa men digiuna. Ancor men grave ogni affanno sostene, perché da’ buon pianeti spesso prende gloria, fortezza, virtú, onore e bene. Per le dette ragioni, e perché scende a sua esaltazione in segno fermo, ristora, onde piú leve si difende. E voglio ancora che noti il mio sermo: la luna, che è feminina e mobile, 80 e sotto ogni pianeto a noi fa schermo, convien che ’l segno, ov’ha ricchezza e mobile, somigli a lei: adonqua il Cancro fia, ch’ è feminino e ’n fra gli altri men nobile. Mostrato per ragion che questo sia 85 quello che solo un segno debba avere, de l’altro è buon trovar la dritta via. Dico che ’l sole, c’ha vertú e podere, piú d’alcun’altra stella, e che dá luce a tutte e qui, come tu puoi vedere, 90 e che male e bene in lor produce, mal per congiunzion, ben per aspetto, e va per mezzo i sei sí come duce, può me’ soffrire e portare il difetto d’avere un segno e con minor periclo 95 che gli altri cinque, de’ quali io t’ho detto. Ancor, ciascun pianeto ha epiciclo per lo qual molte volte retrograda, onde ha men libertá a ogni articlo, salvo che ’l sole, lo qual per la strada, 100 senza epiciclo alcun, diritto sempre per lo suo deferente par che vada. E cosí puoi veder, se ben contempre, che me’ de’ cinque d’un segno si passa, perch’ è piú forte e ha men chi lo stempre. 105 Ancora, Leo, che nel ciel si compassa, che è fermo, diurno e masculino sí com’è il sol, del tutto a lui si lassa". E qui fe’ punto al suo caro latino. |
Post n°1080 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847 |
Post n°1079 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno 201
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Post n°1078 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Il Dittamondo "Imagina, seguio, l’ottavo cielo composto d’una e d’altra figura, come de lo Zodiaco ti svelo. E pensa, s’hai veduto e posto cura quando il musaico con vetri dipinti 5 adorna e compon la sua figura: che quei che son piú riccamente tinti ne le piú nobil parti li pon sempre; e converso, ne le men li piú stinti. Cosí quel Sommo, che lassú contempre, 10 conoscer puoi che d’una e d’altra stella figurò il cielo con diverse tempre, e ch’Esso puose ciascuna piú bella propio in quel loco che vide piú degno, con l’ordine seguendo questa e quella. 15 Similmente ti dico e ti disegno ch’ogni figura significa certo la simiglianza sua in questo regno. Ma drizza gli occhi ove piú vedi aperto in vèr settentrione e ’l mio dir nota, 20 se vuoi d’alcuna d’esse essere esperto. Vedi il Carro, che intorno al polo rota; vedi Bootes, che guida il timone; di cui Boetes alluma la gota. Vedi due stelle, che l’una si pone 25 in su l’omero destro e l’altra apresso, dico sopra ’l sinistro d’Orione. Vedi due altre al Carro piú presso, de le quai credo ch’assai se’ provisto: l’Orse son dette e ’nsieme stanno adesso". Allor pensai: l’una è quella Callisto, ch’Ovidio pone che Giuno converse in orsa, poi ch’ella ebbe il fatto visto; l’altra è ’l figliuol, cui Giove non sofferse che morisse per lei, ma tutto accorto 35 fe’ due stelle di loro e ’l cielo aperse. Quel mi guardò e, poi che m’ebbe scorto che io pensava altrove, disse: "Guarda e ’l pensier lassa come il dito porto. Vedi una stella, che par che tutta arda, 40 tra il Gemini e il Cancro tanto viva, che Venus pare a chi ben la riguarda. In fra le fisse niuna v’è piú diva di luce presso a lei ed è nel Cane e ‘cuor del Cane’ voglio che la scriva. 45 Dinanzi ai piedi del Gemini stane, che ha forma d’uomo; e quinci, penso, move che sempre a l’uomo il cane apresso vane. Vedi lá il Cigno, in che trasformò Giove, e ’l Delfin di Nettunno e quella spera 50 del serpe Eritonio, che leggi altrove". Apresso m’additò d’una che v’era in atto d’assassin crudo e villano, orribile a veder quanto una fera. Questo tenea ne la destra mano, 55 come ferir volesse, un gran coltello; l’altra, la testa di un corpo umano. "Vedi la nave d’Argus col castello; e vedi Pegaseo che, tratto a volo, tutto è caval, ma con ale d’uccello. 60 Vedi Feton d’intorno al nostro polo, e, piú qua, il Corbo, che cambiò le penne perché Corona scoperse ad Apolo. E sappi, quando a far l’accusa venne, che la pernice del tutto l’avisa, 65 quasi indivina a quello che li avenne". Alfine mi disegna e mi divisa che son diciotto figure con trenta nel cielo ottavo, di diversa guisa. E io: "O luce mia, sí mi contenta 70 il tuo aperto e piacevole dire, che, ascoltando, di piú non mi rammenta. Or, se a te piace, ancora vorrei udire nomare alcuna stella principale del Zodiaco, e quel loco partire". 75 "Ogni cosa, rispuose, per la quale io possa sodisfare a la tua sete, mi piace e piú di altro non mi cale. Sarthan ne le corna d’Ariete due stelle son lucenti e pari poste 80 e ciascuna d’un modo in noi reflete. E con gran luce tre n’ha ne le coste: Albuthan prima le nomâr coloro, che puoson mente com’eran disposte. Albocach son tre altre e fan dimoro 85 ne lo capo del Gemini e tra i piei Anchacas due, che lucono come oro. E vedrai, se ben miri ai detti miei, Anacotha nel muso del Leone lucenti sí, che conoscer le dèi. 90 Cosí, nel petto, Albegen si pone e Alcarfa sopra alquanto dal rabbuffo de la sua coda, di sotto al groppone. Similemente apresso del ciuffo, dico negli occhi suoi, ne stanno due 95 e queste truovo nominate Artuffo". E qui si tacque, che non disse piue. |
Post n°1077 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847 |
Post n°1076 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Il Dittamondo "Figliuol mio, disse, quanto cerner puoi del Zodiaco io t’ho mostrato in brieve, nominando le stelle e i segni suoi. Ma perché ciò ch’uom vede assai piú lieve prende, che quel che imaginar conviensi, 5 so che ti fia il mio parlar piú grieve. Ma fa che dia riposo alquanto ai sensi e con l’udir le parole distilla dove le truovi, poi che fra te pensi; ché quando quel che ’ntender de’ vacilla 10 e non sta fermo a quel che l’uom li conta, a l’esca sua mal s’accende favilla. Imagina che dietro a Virgo monta Libra con le bilance, le qua’ sono di Venus, come del Tauro si conta. 15 Giustizia, dirittura e ciascun buono significa quaggiú, e marco e libra, con tutti i pesi che contar si pono. Or, poetando, alcun vuole e delibra che Giustizia, la figliuola d’Astreo, 20 translatata fu quivi e detta Libra. E Demetra piace ad Ecateo, la dea Cereres, ch’essa fosse quella tratta lassú, poi che ’l mondo perdeo. Eracles pone un’altra novella: 25 che è Mensura, per lo cui prego il Nile mensura prese, quanto ancor tien, bella: che, poi che per la morte cambiò stile, piacque a gli dii che ’n questo loco fosse sí come cosa divota e umile. 30 Con l’aspra coda e con le prese grosse apresso Libra segue lo Scorpione, per cui Fetonte, giá, tremando, cosse. Questo, come Aristofano pone, con la saetta da Chiron fu morto 35 per la vendetta del figliuolo Amone; poi, per li dii, in quel segno fu scorto. E sappi che significa quaggiuso velen, paura, crudeltá e torto, e ciascun animal, ch’abbia per uso 40 di portar tosco e di pungere altrui e star sotterra ascoso o in pertuso. Sette e diece stelle sono in lui e, tra’ dodici segni, si può dire che, qual tra suoi fu Giuda, è qui costui. 45 E dopo lui imagina venire Sagittario con la fronte sí viva, ch’assai par chiaro a chi ’l vede apparire. Da questo segno ogni animal deriva che mostruoso sia, ogni spavento 50 che vegna di lontano o che si scriva, archi, balestre e saettamento e, brevemente, tutte quelle cose che posson da la lunga dar tormento. Alcuno fu che, poetando, compose 55 come Chirone, d’Achilles maestro, in questo segno per li dii si pose con la saetta a l’arco aperto e destro, dietro a lo Scorpio, che ’l figliuolo uccise: e, qual centauro fu, par qui silvestro. Quindici belle stelle vo’ che avise per lo corpo bestiale e per lo viro, che dal sommo Fattor li funno mise. Or questo segno, quando cerco e miro, di Giove trovo ed èvi un loco adorno 65 dove l’altar di lui ancora spiro. Apresso, dèi saper, vien Capricorno che significa il cervio e ’l cavriolo e ciascun animal c’ha simil corno. La Olenia capra col figliolo, 70 Giove, allattato, dopo la lor morte meritar volse in questo luogo solo. Dieci e sedici stelle sono scorte, fra l’altre, da notar per le sue membra e qui Saturno tien talor sua corte. 75 Dopo costui imagina e rimembra che ’n forma d’uomo Aquario si vede e versa l’acqua, che un diluvio sembra. E scrivesi ch’è preso Ganimede per Giove, che a li dii ne fe’ pincerna, 80 in questo luogo, e Nason ne fa fede. Similemente ancora si governa e regge per Saturno questo regno e qui ogni sua possa par si cerna. Sette e dodici stelle ti disegno 85 per lo suo corpo, piú lucenti e nove che l’altre, che sian poste per lo segno. Seguita il Pesce, il quale è dato a Giove, sí bel di stelle, che quarantadue son da notar, dove piú luce piove. 90 Or, poetando, Glauco un pover fue pescatore che, presi pesci in mare, scosse in su l’erba le grembiate sue. Gustati d’essa, li vide saltare ne l’acqua tutti, onde allora il tapino 95 volse per sé il miracol provare. Per che, provatol, venne iddio marino: onde i due pesci, che v’eran piú privi, per testimoni di cotal destino fun per li iddii translatati quivi". 100 |
Post n°1075 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
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