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Messaggi del 18/01/2015

Rime di Celio Magno (241-250)

Post n°1087 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

241

Deh non cessar, Amor, deh torna al canto,
né mi lasciar cader da tanta gioia;
e saetta in me pur, che non m'annoia,
da l'atto dolce del bel viso santo.

Movi la voce pur, soave tanto,
ch'altro non bramo, anzi ho tutt'altro a noia;
consenti, ohimè, ch'in tale stato i' moia,
mentre il cor si distilla in dolce pianto.

Benché seguendo il suon da me diviso,
lo spirto, e giunto in ciel, torna e mi dice
che questo avanza il ben del paradiso

e ch'un solo sospir di quei ch'elice
dal mio cor l'armonia che m'ha conquiso,
ogni uom potria qua giù render felice.

242

Finser le favolose antiche carte
Giove, dal cielo in bianco tauro sceso,
su per l'onde portar l'amato peso;
né ciò ben so con che misterio od arte.

Così, s'a falsi dèi lice agguagliarte,
verace Giove, e tu già fosti acceso
de la nostr'alma e al su' acquisto inteso
in puro agnello il ciel vide cangiarte;

e fatto a lei di te guida e sostegno,
varcando questo mal crudele infido,
fuor la traesti, qual più caro pegno;

ma quei la preda sua misera in lido
terren condusse, e tu 'l beato regno
del ciel festi a la tua perpetuo nido.

243

Falso piacer, che con sì lento passo
movi, e fuggi com'ombra a pena vista;
o di troppo aspro fel dolcezza mista,
che rende l'uom del proprio gusto casso!

O più ch'altro selvaggio, orrido sasso,
ancor che piano e dilettoso in vista,
di cui quanto più 'l fral montando acquista,
l'alma più scende in precipizio al basso!

Quante per te fatiche al vento ho sparte,
che digiun lungo ha la ragion sofferto,
dal senso esclusa in perigliosa parte!

Or, che tu' inganno io pur conosco aperto,
torno, e spero saldar tuoi danni in parte
al poggio di virtù, sublime ed erto.

244

Questa di vari fior mensa dipinta,
ove lieta la copia ha sparso il corno
sacro a te, Bacco; e questa lira intorno
de l'amata tua fronde avolta e cinta;

che dal mio voto e dal tuo pregio spinta
tornando a noi questo gradito giorno,
suonerà sempre il tuo bel nome adorno,
né in me fia mai la tua memoria estinta.

Tu venir degna: e mentre il tuo licore
meco a la mensa la mia Cinzia mesce,
scalda con tua virtute il freddo core:

sì che, come a dolc'esca incauto pesce,
ebra sia vinta; e me ne scusi Amore,
ch'ogni fren romper suol quando in noi cresce.

245

Primo

Quell'alato fanciul, quel picciol dio,
cui per nome Cupido il mondo chiama,
a me non noto pria, se non per fama;
con quest'occhi, signor, pur ier vid'io.

Mentre di bella donna, umano e pio
volto io stava a mirar con nova brama,
qual chi mostrar sua pompa e gloria brama
fuor de' bei lumi ne la fronte uscìo;

quindi volto ver me lieto sorrise,
e lusingando in atto dolce, amico,
alto diletto al mio desir promise.

Or, perché 'l grida ognun crudo e nemico
e tal che rado altrui gran tempo arrise,
di cader temo al suo fallace intrico.

246

Secondo

Splende de la mia dea nel vago viso
di cortese pietate un vivo raggio,
che sicuro mi fa d'onta e d'oltraggio,
anzi mi scopre il ben del paradiso.

Ma troppo alte impromesse e dolce riso
fan che d'occulto inganno ha tema uom saggio:
che qual pesce torcendo il suo viaggio
ingordo a l'esca trae, resta deriso.

Dunque voi, cui d'amor l'arte e gli inganni
per prova aperti son, fatemi accorto,
sì ch'io gli ami suoi fugga e i suoi gran danni.

Ma se, com'odo, ogni rimedio è corto
e pur convien che 'l suo piacer ne 'nganni,
mi date almeno ond'io non resti morto.

247

Ahi perché de' begli occhi, ond'io sol vivo
e senza i quali a morte omai son corso,
e d'ogni usato mio dolce soccorso
per voi son, donna, a sì gran torto privo?

Ben crederò che possa e fiume e rivo
volger indietro il natural suo corso,
poich'a preso empio stil di tigre e d'orso
quel cor che non fu mai sdegnoso e schivo.

Se mai dal vostro il mio voler disgiunto
non ebbi, lasso, è pur tropp'aspra sorte
ch'io pianga, a tale indegno strazio giunto.

Felici quei ch'in nodo lieto e forte
stringe Amor sempre, a sperar dolce aggiunto
che né sciorlo ancor possa invida morte.

248

Pastorale

— Perché, lassa, non m'è concesso tale
pianto trovar, che la mia pena adegui?
Onde questo meschin cor si dilegui,
ch'a tanto duol più contrastar non vale?

Ma per qual aspra mia colpa mortale
inimico destin sì mi presegui?
E tu, Clori, a che tardi? A che non segui
lui, ch'al ciel se ne va con spedit'ale?

Aspetta, gloriosa anima e bella,
me, ch'esser voglio in vita e 'n morte, quanto
esser si può, fida compagna e ancella. —

Ciò detto cadde al suo Damone a canto
Clori: e, congiunte, a la par loro stella
ambe l'alme n'andar tra gioia e canto.

249

Con lento passo e con la faccia tinta
de la doglia onde 'l cor sentia ferirsi,
là 've da Filli sua dovea partirsi
pervenne al fin l'innamorato Aminta.

E perché l'alma, dal desio sospinta,
ne l'amata beltà sentia rapirsi,
mosse la bocca per, baciando, unirsi
con l'alma sua, non meno afflitta e vinta.

Ma rimaner la fe' soverchio affanno,
qual leve augel da grave rete colto,
in questo ancor provando avara sorte.

Sol gli occhi lagrimosi in quel bel volto
tenea dicendo: — Ahi, che men duolo e danno
mi fora il gir lontan da te per morte. —

250

Vive nel tuo bel sen l'anima mia,
o di lei pietoso unico oggetto;
vive la tua non men dentro al mio petto,
né qua già questa e quella altro desia.

Ambe han tra lor sì dolce compagnia
che vinto cade ogni altro uman diletto;
ambe d'un sol voler, d'un solo affetto:
l'una per l'altra se medesma oblia.

Tu di bellezza e cortesia fenice,
io di fede e d'amor; tu fortunata
per me ti chiami, ed io per te felice.

Così non porti mai fortuna ingrata
ai nostri lieti giorni ora infelice;
ma sia Filli con Tirsi a pien beata.

 
 
 

Il Dittamondo (5-06)

Post n°1086 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO VI

"Poi ch’io ho sodisfatto al tuo disio, 
disse la guida mia, è buon tornare, 
dov’io lassai, al proposito mio. 
Questo monte, che sopra l’aire pare, 
si spicca da la rena e si distende 5 
in fine a l’oceano e al nostro mare. 
Di chiaro fuoco la notte risplende 
e piú ancor che dolcissimi canti 
d’ogni nuovo stormento vi s’intende. 
Scimie, struzzi, draghi e leofanti 10 
assai vi sono e alberi che fanno 
lana, onde si veston gli abitanti. 
Odorifere molto le foglie hanno: 
simili quasi sono a l’arcipresso 
e cosí alti e dritti suso vanno. 15 
L’erba euforbia ci si truova adesso; 
colui la nominò, che pria la trova, 
sí come io dico, del suo nome stesso. 
Quasi sopra ogni altra erba, il sugo giova 
a la vista de l’uomo e, piú ancora, 20 
ad ogni morso c’ha velen fa prova. 
Tra ’l monte e l’ocean gente dimora; 
fontane assai vi sono e folti boschi 
e dolci frutti vi si truova ognora. 
E perché bene il paese conoschi, 25 
Anatin fiume da quel lato corre 
dove sono animai non sanza toschi. 
E, s’io ti deggio i nomi lor comporre, 
Austo, Bamboto, Asana ippopotano 
e coccodrilli han piú, che ’l dir trascorre. 30 
Di verso noi guarda Gaditano 
e Belona, lá onde siam passati, 
questa gente che sopra ’l mare stano. 
Sette monti ci son che, se gli guati, 
sí forte l’uno a l’altro si somiglia, 35 
che Sefleti son detti o vuo’ tu ‘frati’. 
Dentro da questi, per tutto ci figlia 
uno e altro animal, diversi e tanti, 
che pare a chi li vede maraviglia". 
E qui mi ragionò de’ leofanti 40 
con quanta castitá usan lor vita 
e la pietá ch’egli han de’ viandanti; 
e sí come il figliuolo il padre aita 
a’ suoi bisogni e de’ padri la cura, 
c’hanno di lor cacciati in altre lita. 45 
"Questi risprendon presso a la natura 
umana, sopragiunse, e de le stelle 
la disciplina servan senza ingiura. 
E quando l’uno s’affatica in quelle 
cose ch’a lor bisogna, l’altro guarda 50 
che non li sopragiunga altre novelle. 
D’entrare in nave quanto può piú tarda 
e, se tu non li giuri del tornare, 
non piú che se dormisse la riguarda. 
Cauti in battaglia e ben si san guardare; 55 
se v’è ferito o stanco, il tengon sempre 
chiuso nel mezzo e lassanlo posare. 
E scriver puoi, se lor natura assempre, 
che con la coda l’uccide il dragone 
ed esso par che lui col carco stempre. 
Ciò che vive, figliuol, chi mente pone 
a lo stimolo suo, non è sí forte 
o vuoi signore o aquila o leone". 
Cosí, per quelle vie diritte e torte, 
fra me notando gia ogni parola, 65 
secondo ch’io l’udia belle e accorte. 
Giá eravamo usciti de la gola 
de la marina e lasciato a le spalli 
Sacara, Messa, Saffi e Gozola, 
e veduto ne’ monti e per le valli 70 
Sigani, dico, i Sigabri e i Sorsi, 
e Sessa e Valena correr per que’ calli. 
Dal mezzodí udio che senza forsi 
istanno i Gaulei e questa gente 
fino a l’Esperio oceano son corsi. 75 
Noi eravamo dritti a l’oriente, 
quando giungemmo di sopra a la Malva, 
un fiume grande, ruvido e corrente. 
Qui mi disse Solino: "Colui mal va 
che se ’l mette a guadar, ma chi ci trova 80 
nave o ponte la sua vita salva. 
E sappi ancor che per molti si prova 
che in fine a questa riva, ove noi semo, 
la terra di Tingi si stende e cova". 
Menommi, poi, dove passammo a remo 85 
ed entrammo tra’ neri, Mauri ditti: 
e mauro, in greco, nero a dire spremo. 
Sí presso a l’equinozio stanno fitti 
questi ed i Tingitan, de’ quai ragiono, 
che dal calor del sol sono arsi e fritti. 90 
Qui due cittadi anticamente sono, 
che fanno in Mauritana due province: 
Sitin, Cesara i nomi lor compono. 
A mezzogiorno Astrix vi è, che vince 
ogni altro monte (è chi ’l noma Carena) 95 
fuor d’Atalante, che di tutti è prince. 
Questo discerne la giacente rena 
da la feconda terra e qui passai 
col mio consiglio, che mi guida e mena. 
Similemente con lui mi trovai, 100 
di vèr settentrione, in su la proda 
del mare, ove son genti e terre assai. 
Vidi Bugea, che v’è di grande loda: 
questa nel mare Maiolica guata; 
e fui in Bona, che quivi s’annoda. 105 
Lettor, com’io t’ho detto altra fiata, 
quasi cambiato ha nome ogni contrada 
e qual piú e qual men cresce e dilata. 
Cosí tra questa gente par che vada, 
ch’egli han mutato nomi e si confina 110 
con altri fiumi e con altre strada: 
dico Morocco e Bellamarina 
ora comprendon questi due paesi 
ch’a dietro lasso, e dove ’l sol dichina,
secondo che tra lor contare intesi. 115
 
 
 

Rime di Celio Magno (232-240)

Post n°1085 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

232

A nome di donna

Ben mi fu, Chiara, il ciel largo e cortese
e di sue grazie ogni alto sogno vinse,
allor che, 'l cor legando, a voi mi strinse,
tal ch'a più nobil laccio unqua non prese.

Rare bellezze, e più non viste o intese
in voi natura con virtù ristrinse;
così Febo di lauro il crin vi cinse
e d'ogni bel desio l'alma v'accese.

Sol ebbi stella in ciò scarsa ed avara:
ch'or da me lunge in altra parte io miro
risplender vostra vita amata e cara.

Il cui lume goder spero e sospiro
un dì con sorte a pien felice e rara,
e 'n sì dolce pensier lieta respiro.

233

Poiché fortuna al mio amor nemica
da voi lontano in questo mar mi tiene,
lasso, sempre son visso in doglia e 'n pene
né saldar si può ancor la piaga antica.

Spesso m'ancide il duol; poi spesso amica
più tiemmi in vita del tornar la speme,
come vivo per pioggia si mantiene
fior dal sol quasi estinto in piaggia aprica.

Ben sallo Amor, che con la mente volto
sempre mi vide ov'ogni ben lasciai,
e di lagrime sempre umido il volto.

Né spero tregua a le mie pene mai
finch'io non sia tra quelle braccia accolto,
lasso, che troppo intensamente amai.

234
O del mio reo destin, ch'or mi constringe
lontano errar dal caro idolo mio,
e del pianto e del duol soave oblio,
pensier, quanto il tuo merto a te mi stringe!

Per te spesso felice il cor si finge,
mentre il bel viso e 'l dolce sguardo pio
e 'l riso e 'l gioco e quanto invan desio,
sì vivo agli occhi miei da te si pinge.

Ahi macchia indegna del mio puro ardore!
poich'in tanta miseria, ov'or mi veggio,
può dar alcun piacer tregua al dolore.

Parti dunque, pensier, trova altro seggio;
perch'io senza 'l mio ben, senza 'l mio core,
né conforto curar, né viver deggio.

235

Pur volgo i passi, e n'è ben tempo omai,
al mio bel nido, al mio dolce soggiorno;
e 'l cor insieme a ricovrar ritorno,
ch'ivi piangendo in sul partir lasciai.

Tre volte cinta d'argentati rai,
la figlia di Latona ha mostro il corno,
ch'indi lontan non ho veduto un giorno
senza affanno provar, senza trar guai.

Or, qual nocchier tra dubbi casi scorto
per alto mar da ciel nemico irato,
pien di letizia al fin m'indrizzo al porto:

dove risplende il mio bel sole amato,
dov'è con quei, ch'ognor negli occhi porto,
ogni cagion del mio tranquillo stato.

236

Non sdegna amarmi, e n'ho sicuro pegno,
colei ch'adoro; e di mia età matura
con occhi di pietà guarda e misura
quanto men piace, e 'l fa di grazia degno.

Scorge in me di valor forse alcun segno
ch'adorna la mia fede ardente e pura.
Ma che pareggiar può tanta ventura?
Qual virtù rara? O qual sublime ingegno?

Anzi, se di me nasce alcun bel frutto
non è mio, no; ma da quel chiaro sole
co' suoi raggi fecondi in me produtto.

Dunque a ragion da me s'onora e cole
dea sì cortese: a lei sacrando in tutto
l'alma, l'opre, i pensieri e le parole.

237

O d'ogni suo pensiero unico oggetto,
che giorno e notte ne la mente io porto;
o d'ogni pena mia dolce conforto
qualor mi rendi il tuo bramato aspetto:

deh perché del vederti il gran diletto
mi vien si tardo, ed è si breve e corto?
perché 'l sol mi s'asconde a pena scorto,
e dopo tanto ben tenebre aspetto?

Ma fortunata chiamo ogni mia doglia,
poiché per giusto premio al mio desio
risponde ancor la tua amorosa voglia.

Benedetto sia dunque il martir ch'io
sento se di tua vista il ciel mi spoglia
e viva eterno amor nel petto mio.

238

Mentre la bella e gentil donna mia,
qual in Cinto talor Delia si vede,
al dolce suono accompagnando, il piede
movea con onestate e leggiadria.

Febo, che tal beltà qua giù scopria,
dicea: — Qual luce a farmi oltraggio riede? —
E Amor, ch'altero in que' begli occhi siede,
visibilmente i cori altrui feria.

Quando, volgendo il guardo suo cortese,
degnò mirarmi: e presto al mio tormento
l'ascoso arcier gli strali e l'arco prese.

Deh, perché 'l tenne in me sì poco intento?
ch'al suo bel lume, a le soavi offese
del mio signor potea morir contento.

239

Spenta è l'indegna fiamma onde cotanto
per te, donna, arsi, e quel vil nodo sciolto
ch'Amor m'avea d'intorno al cor avolto:
più non mi stan pensier dogliosi a canto.

Ma qual di Circe e di Sirene al canto
Ulisse già, tal a tu' insidie tolto
ver la mia cara libertà son volto
che lungamente ho sospirato e pianto.

Non era lunge a rimaner disperso
se non mi socorrea divin consiglio,
già quasi in fera irrazional converso.

Dunque campato da sì gran periglio,
rendo al ciel grazie in alta gioia immerso,
poiché m'aperse al maggior uopo il ciglio.

240

De l'aspro tuo rigor giusto in me sdegno
spente avea le mie fiamme a poco a poco
mentre, o stile inuman, prendesti in gioco
la doglia e 'l pianto del mio strazio indegno.

Or ch'in te pur d'amor scorgo alcun segno,
torna e s'avviva in me l'estinto foco,
e del cor ti ripongo al primo loco
qual signor che ricovri il proprio regno.

Tu gradisci mia pura ardente fede,
ch'in nobil alma troppo si disdice
render a ben servir pena in mercede.

E faccia Amor sì ferma in te radice
a quella egual che nel mio petto siede:
che l'un per l'altro viva ognor felice.

 
 
 

Il Dittamondo (5-05)

Post n°1084 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO V

Un’isoletta per quel mar si trova, 
dove Anteo la sua sedia giá tenne, 
col quale Ercules fece la gran prova. 
Liso la nominâr gli antichi, che nne 
parlaron prima e que’ poeti, poi, 5 
che, poetando, giá ne fregar penne. 
Qui arrivati e dismontati noi, 
dissi a Solin: "Di veder sarei vago 
se alcuna novitá ci pare ancoi". 
"Vienne, diss’ello, e vedrai dove il drago 10 
vegliava a guardia de’ pomi de l’oro 
sí fiero, ch’a vedere era uno smago". 
Con lui n’andai, che piú non fe’ dimoro, 
dove mi disegnò, come lo scrive, 
l’albore, i frutti e le frondi qual fôro. 15 
Cosí cercando noi per quelle rive, 
arrivammo a Tingi, per cui si noma 
Tingitana la contrada ch’è quive. 
Poco la gente v’è accorta e doma; 
con l’Ocean da ponente confina: 20 
la fine è qui, ché piú lá non si toma. 
Io lasciai Plinio in barca a la marina, 
dove il trovai, e seguitai Solino 
per via solinga, acerba e pellegrina. 
A pie’ d’un monte era il nostro cammino: 25 
sí alto, a l’occhio mio, che per sembiante 
toccar parea la luna col suo crino. 
"Questo è, disse Solin, quello Atalante, 
che Ovidio scrive che Perseo converse 
’n monte regnando tra genti cotante. 30 
E giusto fu se ’l mostro li scoperse, 
ché, sendo stanco e arrivato a lui, 
di darli albergo e cena non sofferse". 
Sí vago di saper allora fui 
chi Perseo fu, che piú non aspettai: 35 
ruppi il suo dire e dimanda ’ne a lui. 
"Figliuol, diss’el, non t’avvegna piú mai 
che, quand’uom parla, rompa la parola, 
se cagion degna al dimandar non hai. 
La voglia serba e stringi labbra e gola 40 
sempre ascoltando, in fine che ben vedi 
ch’al dir non manca una sillaba sola". 
Poi seguitò: "Costui, di cui mi chiedi 
saper lo ver chi fu, dico che nacque 
forse per altro modo che non credi: 45 
ché con Danae a ingegno Giove giacque, 
la qual guardava cautamente il padre; 
poi parturí costui, che tanto piacque. 
Cacciato Acrisio lui e la sua madre, 
crebbe con Polidetto in tanto ardire, 50 
che il re temé de l’opere leggiadre. 
Piú pensier fatti, un dí li prese a dire, 
come Pelias fece in vèr Giansone 
quando il mandò a Colcos per morire: 
- Sotto Atalante, in quella regione,55 
un mostro vi si trova tanto fiero, 
che, lui mirando, uccide le persone. 
Ond’io, che a te lassar lo regno spero, 
vorrei che prima acquistassi alcun lodo: 
e prendi quanto a ciò ti fa mestiero. 60 
Ché, s’io udissi dir che in alcun modo, 
per tuo valore, il conducessi a morte, 
di niun’altra cosa avrei piú godo -. 
Preso commiato e partito da corte, 
prima a trovare il suo fratel si mise, 65 
lo qual s’allegra, quando il vide, forte. 
L’arpe li diede, con la quale uccise 
Argus, e dielli l’ali per volare: 
e cosí poi da lui si divise. 
Apresso mosse per voler trovare 70 
la sua cara soror, ché, s’io non fallo, 
senza ’l consiglio suo non volea andare. 
Trovata lei, non vi mise intervallo: 
la ’mpresa sua li disse, ond’ella, allora, 
li diede un ricco scudo di cristallo. 75 
Da lei partito, non fe’ piú dimora; 
passò in Ispagna, ove il mostro Medusa 
con le sorore sue regnava ancora. 
Non valse perché stesse, allor, racchiusa; 
non valse perché fosse aspra e rubesta; 80 
non valson guardie o gente star confusa, 
che non passasse la mortal tempesta 
con l’arpe in mano e con lo scudo al volto 
e che non li tagliasse al fin la testa. 
Del sangue in terra madefatto e accolto 85 
nacque il cavallo, che fece in Parnaso 
la fonte, che vedesti non è molto. 
Presa la testa e ’l corpo rimaso, 
come nuvol per l’aire se ne gio 
ora a levante e quando ad occaso. 90 
De le gocce del sangue, che ne uscio, 
nacquono i serpi, che noma Lucano, 
dove pone che Cato a Giuba gio. 
Qui Atalante, perché li fu villano, 
converse in monte e non li valse un ago 95 
il drago a l’orto, Temis, né guardiano. 
Di qui, volando, giunse al volto vago 
d’Andromade e videla in catena 
data a la belva, piena d’ogni smago. 
Qui, con lunga battaglia e grave pena, 100 
la belva uccise e la donzella sposa, 
malgrado di Fineo, e via la mena. 
Ad Acrisio n’andò, ché non riposa; 
e trovò che Proteo l’avea cacciato 
e tolto il regno con ogni sua cosa. 
Fattol di pietra, ritornò in istato 
l’avolo suo, ben che mal fosse degno; 
poi passò a Serfo, ove fu nutricato. 
Qui Polidetto, ch’era re del regno, 
che mandato l’avea perché morisse, 110 
de l’onor suo prese tema e isdegno; 
e, dispregiando lui, piú volte disse
che ver non era avesse morto il mostro:
per che sí presso a gli occhi suoi gliel fisse,
che ’n pietra il trasformò dentro al suo chiostro" 115.

 
 
 

I Trovatori (6)

Post n°1083 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

LXXXVII. Vien creduto comunemente che la lingua italiana si sia formata pel mescolamento e la fusione del latino col linguaggio dei barbari. Ma il latino, non ha mai cessato di esistere, a parte, più o meno correttamente, anche quando il volgare italico, allora detto romano, si cominciò a diffondere in tutte le province meridionali d' Europa. Onde ne venne la costante formola «Dotto in romano e in latino». In quel gran mutamento di cose, in quel gran mescolamento di razze, i tre linguaggi dei latini, degV italici e dei barbari non si potevano mai per la diversissima loro natura fondere assieme, e di tre diventar uno; ma si tolsero e si dettero a vicenda molte voci, che alla giornata mancavano a ciascuno di essi; le quali dipoi si trovano comuni a tutti e tre, Il latino, per la grande ienoranza dei cherici e dei notari, si venne tanto abbassando, che tolse dal romano volgare, e dal linguaggio dei barbari non poche voci, dando loro la forma latina, dei generi numeri e casi; e son quelle voci che comunemente si dicono del latino dei bassi tempi, o della barbara latinità.

LXXXVIII. Il volgar italico riprese dal latino le voci, che in antico già gli avea prestate, e che in volgare erano andate in disuso, e tolse dai barbari le voci di quel novo ordine, o, per dir meglio, disordine di cose, le voci dei novi costumi, e delle nove armi de' barbari, feudo, usbenjo, brando; i nomi dei nostri danni, come dice il Perticari -, e, in generale, tutti quei nomi di cose nove che non esistevano presso i nostri maggiori prima della venuta dei barbari, o non si conoscevano da quelli, e in conseguenza non avevano alcun nome, sia nel volgar italico antico, sia nel latino illustre; il che è ben lungi da poter costituire una lingua. Oltre a questo, gl' italiani avevano un tesoro di vocaboli, termini e modi, propri del loro antichissimo volgare, che i latini mai poterono usurpare, ne mettere in uso nella loro favella; i quali vocaboli, termini e modi, tutti raccolti, basterebbero, senza le voci derivate dal lalino, a costituir una ricca e compiuta fiivella.

LXXXIX. E le voci e le maniere più belle e più appropriate e più espressive, e più geniali, e più energiche e più poetiche della nostra lingua sono le voci e le maniere assolutamente proprie di questo antichissimo linguaggio nazìonale. E se la Divina Commedia di Dante Allighieri si spogliasse di tutte quelle voci e maniere originali, che ì latini non adottarono mai in proprio, ne mai ebbero comuni cogli italici, ma furono mai sempre voci e maniere esclusivamente proprie del volgar italico, si toglierebbe quanto vi ha di più bello, e di più poetico, e di più sublime in quel divino poema. Molte bellissime voci hanno i latini che, tradotte in italiano, perdono tutta la loro energica bellezza. E se durava ancora per poco il vezzo dei quattrocentisti, di derivare per forza, quando la lingua era già formata, tante voci e maniere dai latini, invece di arricchire, avrebbero infallibilmente guasta la propria favella, facendogli perdere quella sua propria fìsonomia che la rende da tutte le altre lingue diverse.

XC. Il barbaro anch' egli prese dal romano e dal latino le voci delle nostre usanze, delle nostre arti, delle nostre leggi, delle nostre armi, e delle nostre scienze; voci che si ravvisano benissimo ancora in tutte le bngue nordiche viventi; e in tanto numero, che il Bardotti si credette scoprire ne' volgari germanici le prime origini della lingua latina.

XCI. Le voci dei barbari introdotte nel romano, o nel latino de' bassi tempi, e le voci del volgare italico e del latino introdotte nei linguaggi dei barbari si possono facilissimamente conoscere, e contare. Non così le voci latine introdotte nel volgare italico, e le italiche introdotte nel latino, il più delle quali rimarranno per sempre indivisa proprietà degli antichi popoli italiani.

XCII. «Non fu dunque ne perduto ne rinnovato, osserva giudiziosamente il Perticari, in quel devastamento italico, tutto il vecchio parlare, perchò la scarsa merce recata da quelli ospiti non poteva bastare a tanto; perche alcune voci, mutate od aggiunte, non cangiano subito la natura di una favella».

XCIII. Ma benché spogliata dell' impero, l' Italia era sempre il cuore e la mente del mondo, il centro dell' incivilimento, ove eran rivolti gli sguardi e i pensieri di tutti i mortali. I popoli più lontani andavano a gara di seguire in tutto i costumi romani, imitandone le fogge, lo usanze, e la lingua. E però quando, cangiati i costumi romani, venne meno l' eleganza latina, il pessimo esempio si propagò rapidamente per tutte le province e i regni che costituivano l' impero romano.

XCIV. E quando in Roma venne in costume di parlar e scrivere il basso volgare del popolo italico, anche le più lontane province, in Francia, in Germania, in Inghilterra, e in Oriente, imitando la capitale del mondo, incominciarono a parlare e scrivere questo volgare italico degli oschi, detto dagli scrittori di tutte le nazioni romano, o romanzo, o romano rustico, perchè incominciato a fiorir in Roma, e di la diffuso per tutto il mondo, o perchè tutto ciò che si faceva in Italia, e tutto ciò che d' Italia usciva, era detto romano. Per la gran facilita che avevano i popoli più rozzi e più lontani di apprenderlo senza fatica e senza maestri, solo che avessero qualche principio di latino, e per la facilità e la liberta di parlarlo e di scriverlo, in breve giro di anni questo volgare italico, detto romano, divenne la lingua universale delle relazioni commerciali tra i popoli italici, e tutte le nazioni che già facevan parte del romano impero. Onde avvenne di questa lingua, verso il sesto e l' ottavo secolo, quel che Plutarco, com' è detto, scrisse della latina a' tempi di Traiano : «che quasi tutti i mortali parlavano romanamente». «Conciossiachè, dice il dottissimo Erasmo, presso gli spagnoli, gli affricani, i galli e le altre romane province, la romana favella era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, solo che l' oratore si fosse un po' accostato alla guisa del volgo».

XCV. Per la necessita di farsi intendere dal volgo, uomini altronde sapientissimi, tra li oratori sacri, lasciato da parte il latino, con deliberato consiglio usarono il volgare romano. Il concilio di Torsi dell' 8J2 raccomanda di «affaticarsi nel dichiarare le omelie in lingua romana rustica».
Così il volgar italico divenne la lingua della chiesa, e la lingua della diplomazia e della corte, come apparisce nel giuramento, sopra citato, tra Lodovico re di Germania e Carlo re di Francia. seguilo nell' 842, nella città di Strasborgo, concepito in lingua romana.
«Che se quell' antico dire romano, osserva opportunamente il Perticari nella difesa di Dante, era così vicino al nostro in Francia, e in mezzo al secolo nono, molto più sarà stato simile all' italiano in Italia, in tre centinaia d' anni che da quell' età corsero fino alle prime nostre scritture».

XCVI. La lingua romana, secondo Renoardo, fu la lingua volgare di tutti i popoli che obbedirono a Carlo Magno neir Europa meridionale. E in fatti, nel suo capitolare dell' anno 815 Carlo Magno stanziava «Che si predicasse Cristo a tutti i suoi popoli nel volgare romano».

XCVII. Impropriamente questo volgare fu chiamato romano. Il Menagio se n' avvide, e opinò che si dovesse chiamar romanesco; ma andò errato anch' egli. Il Perticari lo chiamò romano rustico, facendolo derivare dalla corruzione  del latino^ e in questo solo non mi posso accordare con quell' esimio scrittore. Il profondo Leibnizio più di tutti si accostò al vero, dicendo questo volgare «essere più prossimo alla lingua italica che ad alcun' altra». Il vero si è che il volgare ora detto romano, ora romano rustico, ora latino rustico, ora romanesco, ora romanzo, nono altro che l'antichissimo volgare italico degli oschi, la lingua dei po[Ktlo ilaliano, quale esisteva allora, certamente di ben diversa fìsonoraia dalla moderna, quanto è diversa la fisonomia della moderna dalla lingua dei nostri primi trovatori del mille cento e dugento.

XCVIII. Le stesse vicende e le stesse trasformazioni s'incontrano a un di presso nelle origini della lingua francese. Anche gli antichi golosi, o galli, avevano, secondo il celebre Paschiero, un'antica lingua da loro detta ivallon, che era la lingua nazionale delle Gallio. Vinti da Cesare, e sottomessi all' impero romano, i golosi appresero le arti i costumi, le lettere, il sapere e la lingua dei vincitori, e venne in uso nelle citta, e nei centri di commercio e di civilizzazione, di parlar il latino; come affermano Ducange Roccaforte, Renoardo, e lo stesso Paschiero. Ma il vecchio popolo delle campagne conservò sempre il suo antico linguaggio nazionale. Quando venne meno in Roma e in Italia l' eloquenza latina, si cominciò a parlare e scrivere il volgare, detto romano, anche nelle Gallio; e per esser più facile a intendere, anche dagli uomini sforniti di lettere e di coltura, si diffuse più largamente e più profondamente del latino.

XCIX. Dalla fusione dell'antico linguaggio dei golosi e del romano italico venne a formarsi la moderna lingua francese. «Così si cangiò la nostra vecchia lingua gallica in un volgare romano, dice il Paschiero, talmente che, mentre i vecchi galli avevano un proprio loro linguaggio che chiamavano wallon^ quelli che loro succederono appellarono la lingua più moderna romana».

C. Il romano volgare italico fu parlato alla corte francese durante l'impero de'carlovingi, e non fu se non sotto i primi re della casa di Ugo Capoto che si operò questa fusione, e venne a fondarsi quella terza lingua, «la quale, dice Cazeneuve, ritenne il nome di romana, ma si fece altra da quell' antica, e fu veramente francese». E questo avvenne, perchè il romano italico era più diffuso nelle province meridionali del regno, e l' antico loallon nazionale nelle province settentrionali. Ora, prevalendo nelle diete e ne' consigli della nazione l'influenza delle province settentrionali, ove era la sede del regno, si vide l'antico linguaggio del popolo golose, sviluppandosi, introdursi nelle diete, nei parlamenti e nelle corti, e determinare col suo intervento un gran cangiamento nel romano comune, e con questo cangiamento dar principio, alla lingua francese.

CI. La quale, benché cangiata di sua natura, per gran tempo ancora, come attesta il dotto Paschiero, fu chiamala lingua romana. Vero è che tutto ciò che in quel tempo si scriveva in volgare, in qualunque volgare, romano, francese, spagnolo, in versi o in prosa, era chiamato romano, roman, ronmnche, o romanzo, secondo la pronunzia del paese : fosse un trattato di lìlosofìa e di amore, come il romanzo della rosa; fossero vite di santi, come si ha in Ramondo Ferrando; fosse un trattato di cacciar cogli sparvieri, come in Dodo di Praga. E perchè quasi tutte le scritture di quel tempo non erano altro che racconti di avventure cavalleresche, il nome di romanzo rimase di poi a quel solo genere di letteratura che tratta specialmente di amore e di cavalleria.

CII. Allora il nostro romano italico, procedendo d'Italia verso Francia, incontrò primieramente sulla Garonna questa nova lingua francese, e tra le due favelle seguì una lotta d' influenza e di dominio. Vinse il francese, guadagnò terreno, e si spinse oltre vittoriosamente. Il romano si trincerò sul Rodano, e di la oppose al francese una lunga e ostinata resistenza. La Provenza, imbevuta tutta sino alle radici dell' italico antico, come quella che sotto i re goti era ancora provincia del regno italico, e che avea più vicine e più immediate e più frc(jucnti relazioni con gl' italiani di ogni regione, ritenne fermamente per più secoli il dire romano, e come cosa sua propria ostinatamente lo difese, e gelosamente lo conservò.

 
 
 

Rime di Celio Magno (216-231)

Post n°1082 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

216

All'illustrissimo signor Alberto Badoaro, cavaliere

Signor, se misurando il proprio danno
del grand'avolo vostro il fin piangete,
ah ch'in voi, non in lui pietoso sete:
e dal senso ragion riceve inganno.

O se per fonte pur le lagrim'hanno
il mal ch'indi a la patria uscir vedete,
deh nova piaga al cor non le giungete
con quel che nascer può dal vostro affanno.

Chi può morte fuggir? Chi dar col pianto
e co' lamenti al corpo essangue vita?
Perché al voler di Dio lagnarsi tanto?

Carca d'anni e di gloria al ciel salita
l'alma or si gode al suo fattor a canto
fuor di queste miserie eterna vita.

217

In morte dell'illustrissimo signor Francesco Contarini, cavalier, procurator

Ahi mio dolce signore, ahi mio secondo
padre, imagin del primo a morte spinto,
qual destin vuol ch'ancor te pianga estinto,
con eguale aspra piaga, al cor profondo?

Parto di tua pietà, rinacqui al mondo,
l'empio furor di mia fortuna vinto;
or, di te privo, in novo mar respinto
d'affanni io son, che non ha porto o fondo.

Né di tua patria men sostegno e lume
tu fosti: ond'ella meco, orbata e mesta,
versa dagli occhi un lagrimoso fiume.

Alma or beata in ciel, già in mortal vesta,
sii pia ver noi; deh serba il tuo costume:
ambo consola, e 'l tuo favor ne presta.

218

In sacro tempio, ove divota, umìle
turba pace e perdono al ciel chiedea,
sotto velo mortal celeste dea
m'apparve in vista a Citerèa simìle.

Questa, in atto e parlar dolce e gentile,
volto a me 'l lume, onde negli occhi ardea,
degnò chiedermi in scorta, ove fremea
l'onda del vulgo impetuoso e vile.

Io, com'uom ch'alto dono a sé concesso
di sognar crede, quindi fuor la scorgo,
ben più d'ogni altro aventuroso duce;

ond'ella sparse in me sì dolce luce
che vinto io ne rimasi, ed or m'accorgo
che per altrui guidar perdei me stesso.

219

Cor d'Aletto crudel, nemica mia,
a torto accesa in me d'ira e di sdegno,
ch'io, qual misero Orfeo, render m'ingegno
col canto a' miei desir benigna e pia;

quando avrò da te pace? Oh quando fia
ch'almen t'incresca del mio strazio indegno,
posto il velen, per cui pianger convegno
mia speme uccisa allor che più fioria?

Deh, se ver te mai non commessi offesa,
mercé si desti omai dentro il tuo petto,
onde mi sia la morte speme resa;

e volto in gioia il mio doglioso affetto,
con questa cetra, a miglior fine intesa,
canti la tua pietate e 'l mio diletto.

220

Sentì non men che proprie in sé 'l mio core
le due vostre profonde aspre ferite,
da cruda, avara man di morte uscite,
con tai voci sfogando il suo dolore.

Dunque ben nata coppia, altero onore
già del mondo, or del cielo alme gradite,
sete, ohimè, così tosto a noi sparite
amari a noi lasciando i giorni e l'ore?

Dunque né tal valor né tal beltate
con tal senno e parlar sì dolce accorto
poteo trovar qua giù per voi pietate?

Ma poiché 'l vostro merto a Dio v'ha scorto,
porgete almen dal cielo amiche e grate
a tanto nostro duol qualche conforto.

221

Ahi, ch'a debil soffiar di picciol vento
non cade torre ben fondata e salda,
né leve offesa d'ira il petto scalda,
sì ch'un verace amor ne resti spento.

Fu 'l mio cor sempre a sol piacervi intento
né vive brama in lui più ardente e calda;
ma, se v'offesi, pur s'emenda e salda
l'error col vivo affetto, ond'io me n' pento.

Dunque giusta pietà di prego umìle
da voi m'impetri omai pace e perdono,
onde non fu mai scarsa alma gentile;

che senza sì pregiato e caro dono,
qual occhio senza luce orbato e vile
od uman tronco senza spirto, io sono.

222

Ahi, ch'empia sorte il mio signor pur serra
in ria prigion, sol per mio grave affanno;
che s'era vaga del suo strazio e danno
far anzi a me dovea sì acerba guerra.

Io son l'anima sua, che 'l regge in terra;
da lui gli spirti miei vita sol hanno;
a me sue piaghe, a lui tormento danno
i colpi, che fortuna in me disserra.

O prigion lunga, o fato iniquo e duro!
O cor mio, fossi almen dentro anch'io teco,
e si doppiasse allor la porta e 'l muro.

Ch'ivi è mia dolce libertà, non meco;
ivi è il mio sol; qui piango il giorno oscuro
in carcer senza te più mesto e cieco.

223

Se tela variar di seta e d'oro
sapea, qual voi, con dotta, industre mano,
l'antica Aracne, avria Pallade invano
palma sperato al suo più bel lavoro.

E quando nude, esposte in Ida foro,
per aver di beltà vanto sovrano,
le tre dee, voi scegliea giudicio sano,
se foste giunta a paragon tra loro.

E se Diana ancor per santo zelo
di verace onestà lassù riluce,
quanto di splender voi più degna in cielo?

Poich'in voi tanto de l'eterna luce,
novella dea, dal bel corporeo velo
fuor per ben mille raggi a noi traluce.

224

Notturno amante a la sua diva in seno
di soverchio gioir, languendo, isvenne;
ella, ch'in tutto, ahi lassa, estinto il tenne,
i sensi dal partir perdeo non meno.

Ma il ciel, d'aver turbato il lor sereno
pentito, un sì gran mal più non sostenne:
che l'un e l'altro in sé tosto rivenne,
di spavento, di duol, di gioia pieno.

Così provar l'inferno e 'l paradiso
ambo ad un tempo; ambo, confusi il core,
cangiaro il riso in pianto, e 'l pianto in riso.

Chiaro specchio ad ogni un, ch'invido Amore
è da compito ben sempre diviso:
e mesce col piacer sempre il dolore.

225

Per Laura arse il gran Tosco: ardo non meno
anch'io per Laura; ei con soave canto
fe' la sua ricca di sì nobil vanto
che l'immortalità la serba in seno.

Io l'istesso farei se 'l bel sereno
sguardo fosse ver me pietoso alquanto;
che quei celesti lumi han valor tanto
che scioglier pon di muta lingua il freno.

Deh non tolga, cor mio, pensier crudele
a voi tal gloria, a me giusta mercede,
né s'odan sempre invan le mie querele;

che se vostra beltà punto non cede
a l'altra, abbiate e voi servo fedele
ch'al mondo apra i tesor che 'l ciel vi diede.

226

Oh quanto esser mi dei diletto e caro
tu, che col raggio e 'l suon l'ore mi mostri,
che, fermando il tuo corso, i piacer nostri
festi incauti al fuggir del tempo avaro.

Per te mie gioie allor si raddoppiaro,
tal ch'invidia non ebbi a gaudî vostri,
alme beate ne' superni chiostri,
finché mi colse il dì nascente e chiaro.

Ed a quel che provai, breve spavento,
salvo or pensando, alto piacer ne piglio,
e dolce al cor, quel poco amaro i' sento.

Ma s'altro fin sortia sì gran periglio,
io ben chiuder potea lieto e contento,
dopo tanto diletto, in morte il ciglio.

227

Spiega ne l'aria pur l'umide penne,
movi, Noto, con fronte oscura e bruna,
e folte nebbie d'ogn'intorno aduna
quante usar per Giunon mai ti convenne.

Indi, se d'aspro duol ch'altri sostenne
ti punse il cor giamai pietate alcuna,
versa con tal furor pioggia importuna
ch'al mondo il ciel novo diluvio accenne.

Perché non sol partirsi indarno tenti
Cinzia, ma del camin ch'oggi prepara
per così tristo augurio ognor paventi.

Che senza la sua vista amata e cara
ben vinceria le tue stille cadenti
de le lagrime mie la pioggia amara.

228

[1]

Del labirinto in cui chiuso e smarrito
per voi mi tenne sì gran tempo Amore,
senza aver mai dal ciel penne o valore
da levarmene fuor pronto e spedito,

questa è la porta pur; qui pur, seguito
lungo fil di speranza e di dolore
al fin son giunto, o mio soave ardore,
da la vostra pietà pur fatto ardito.

Dunque con voci a la mia lingua scorte
dal vivo ardor c'ha nel mio cor ricetto,
eterne grazie a voi per me son porte;

e poiché chiuso m'è l'avorio schietto
di quella man che mi legò sì forte,
quest'uscio bacio, pien di caldo affetto.

229

[2]

Tu dai rubini d'oriental colore
a bel candor di schiette perle unito,
onde il vago di lei volto arricchito
porge altrui nel mirar gioia e stupore,

porti sì grato odor, che di minore
stima è quel che dan gl'Indi al nostro lito;
e tra le note sue da me sentito,
rende agli spirti miei vita e vigore.

Io benedico il dì ch'Amor soggetto
a voi, donna, mi fece; e diè per scorte
le vaghe luci onde 'l mio stato è retto.

Sol in ciò meno avien ch'io mi conforte:
che mentre chiuso m'è l'amato aspetto,
farsi veggo mie gioie e tronche e corte.

230

[3]

Ma bench'io sia di fuor, dentro il mio core
se n' passa a voi, mia vita; e 'n voi rapito
gioisce or ne' begli occhi, onde ferito
provò lunga stagion tema e dolore.

Ma perché anch'io del dolce almo splendore
seco non godo, a pien di pene uscito?
Ma duro intoppo al già quasi fornito
camin ritrovo, e resto in cieco orrore?

Deh m'aprite il riparo onde intercetto
m'è, quasi un sol da nebbia densa e forte,
il vostro chiaro e desiato aspetto.

Giorno sereno il vostro aprir m'apporte,
e non lasci ch'in voi picciol diffetto
turbi la mia tranquilla e lieta sorte.

231

[4]

Ma che giova viar nobil convito
che renda intorno prezioso odore
e prometta al gustar divin sapore,
s'è tolto il pascer poi nostro appetito?

Quasi Tantalo i' son, cui dolce invito
fan le poma pendenti e 'l chiaro umore
che invan per sete e per digiun ne more;
e sempre il suo sperar piange fallito.

Ma non vogliate, ohimè, dolce mia morte,
ch'io sì presso languisca al mio diletto,
tal che vostra pietà biasmo ne porte.

Ché se m'apriste già del vostro petto
per man d'Amor l'adamantine porte,
perch'entrar questa, or m'è per voi disdetto?

 
 
 

Il Dittamondo (5-04)

Post n°1081 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO  IV

Cosí parlando e navicando sempre,
passammo quella notte, che Morfeo
non prese me con le sue dolci tempre. 

E, poi ch’io vidi ch’al tutto taceo, 
incominciai: "Assai ho ben compreso 
quanto m’hai detto e scritto nel cuor meo. 
Vero è ch’i’ son da piú pensier sospeso: 
i moti lor, come potrai udire, 
muovon da quel, ch’io ho da te inteso. 
L’un è che tu mi cominciasti a dire 
che Aries è diurno e masculino 
e ’l Tor notturno e feminin seguire; 
del Gemini e degli altri, poi, in fino 
al Pesce, mi tacesti l’esser loro: 
e cosí qui rimasi nel cammino. 
L’altro pensiero, sopra il qual dimoro, 
è che Aries di’ che mobile si vede 
e che fisso si truova apresso il Toro; 
e ’l Gemini, che dietro a lui procede, 
comuno il poni e ancor qui fai punto, 
lassando me com’uom che brama e chiede. 
E ’l terzo, dal qual sono ancor piú punto, 
è che tu di’ che de’ dodici segni 
la luna e ’l sol n’han due e non piú punto. 
Poi gli altri cinque, che mostran men degni 
ch’alcun di questi due agli occhi miei, 
di’ che ciascun n’ha due di questi regni. 
E però la cagion saper vorrei 
perché è data a costor piú signoria 
ch’a’ due, che mostran lassú maggior dei, 
a ciò che, se giá mai la penna mia 
di questa tema alcun verso dipinge, 
disegni la cagion per che ciò sia". 
"I’ penso ben, diss’ello, che s’attinge 
per te di questo il ver; ma come uom fai 35 
che sa e per udire altrui s’infinge. 
A quel che prima dimandato m’hai, 
dico come in due segni i dieci vanno: 
e questo fu che piú non ne parlai; 
a la seconda, sí come i tre stanno 40 
l’un mobil, l’altro fisso e poi comuno, 
così di terzo in terzo i nove fanno. 
Ma, perché tien la terza piú del bruno, 
far mi convien piú lungo il mio sermone, 
se cibar deggio il pensier c’hai digiuno. 45 
Tu dèi sapere, e qui non è quistione, 
che Dio, che fece i cieli e gli alimenti, 
diede a ciascun quanto fu sua ragione. 
Principalmente so che mi consenti 
che partir me’ non si potrebbe il cielo 50 
che in dodici parti, per piú argomenti. 
E se tra’ sette lumi, ch’io ti svelo, 
partir si denno, niun modo pare 
piú giusto, se ben cerchi a pelo a pelo, 
che diece segni, a due a due, dare 55 
a cinque de’ pianeti; agli altri apresso 
uno a ciascun, ché me’ non si può fare. 
Ma qui è da veder qual sará desso 
l’uno dei due, che men porti gli affanni 
per aver solo un segno, e ire ad esso. 60 
Sará Saturno, che presso a trent’anni 
pena a fare il suo corso? No, ché troppo 
andrebbe pellegrin per gli altrui scanni. 
O sará Giove, che li segue doppo, 
che dodici ne vuole? O Marti ancora, 65 
che ne sta tre a sciogliere il suo groppo? 
O Venus, o Mercurio, che dimora 
ciascuno un anno? Non è quel la luna, 
che ’n dí ventotto o men suo corso fora? 
Questa passerá meglio ogni fortuna 70 
ch’alcun degli altri, ché a sua gloria vene 
piú spesso e fuor di casa men digiuna. 
Ancor men grave ogni affanno sostene, 
perché da’ buon pianeti spesso prende 
gloria, fortezza, virtú, onore e bene. 
Per le dette ragioni, e perché scende 
a sua esaltazione in segno fermo, 
ristora, onde piú leve si difende. 
E voglio ancora che noti il mio sermo: 
la luna, che è feminina e mobile, 80 
e sotto ogni pianeto a noi fa schermo, 
convien che ’l segno, ov’ha ricchezza e mobile, 
somigli a lei: adonqua il Cancro fia, 
ch’ è feminino e ’n fra gli altri men nobile. 
Mostrato per ragion che questo sia 85 
quello che solo un segno debba avere, 
de l’altro è buon trovar la dritta via. 
Dico che ’l sole, c’ha vertú e podere, 
piú d’alcun’altra stella, e che dá luce 
a tutte e qui, come tu puoi vedere, 90 
e che male e bene in lor produce, 
mal per congiunzion, ben per aspetto, 
e va per mezzo i sei sí come duce, 
può me’ soffrire e portare il difetto 
d’avere un segno e con minor periclo 95 
che gli altri cinque, de’ quali io t’ho detto. 
Ancor, ciascun pianeto ha epiciclo 
per lo qual molte volte retrograda, 
onde ha men libertá a ogni articlo, 
salvo che ’l sole, lo qual per la strada, 100 
senza epiciclo alcun, diritto sempre 
per lo suo deferente par che vada. 
E cosí puoi veder, se ben contempre, 
che me’ de’ cinque d’un segno si passa, 
perch’ è piú forte e ha men chi lo stempre. 105 
Ancora, Leo, che nel ciel si compassa, 
che è fermo, diurno e masculino
sí com’è il sol, del tutto a lui si lassa".
E qui fe’ punto al suo caro latino.
 
 
 

I Trovatori (5)

Post n°1080 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

LXVII. Ora passando a un altro ordine di fatti, nel 1250 (e dietro le scoperte da noi fatte, può dirsi quasi lo stesso nel 1178), noi troviamo una numerosa schiera di trovatori siciliani, pugliesi, romani, marchigiani, bolognesi, romagnoli, umbri, senesi, perugini, fiorentini, pisani, lucchesi, genovesi, lombardi e veneziani, i quali volendo con bella gara trovare per illustrare i loro volgari nativi, benché diversi d' idee e di stile, senza avvedersene, scrivono finalmente tutti la medesima lingua italiana. La lingua del capuano Pier delle Vigne è perfettamente simile a quella del padovano Bandino, del siciliano Lanciotto, del genovese Boria, del faentino Ugolino, del pavese Saladino, del messinese Mazzeo, del fiorentino ser Baldo, del trivisano Albertino, e del pievano veneto da casa Quirino. La lingua della Compiuta donzella fiorentina è perfettamente simile a quella della siciliana Nina di Dante.

LXVIII. Ora io domando, come avvenne che appena all'uscir della barbarie, e ai primi vagiti della lingua e della poesia, e senza libri, senza dizionari e senza grammatiche, si trova tanta concordia e tanta uniformità nel linguaggio dei trovatori in tutte le città, e da un capo all' altro d' Italia, in un tempo in cui le province, le citta, e le più piccole terre, per situazione geografica, per ragion politica, e per ispirito di partito, eran tutte isolate le une dall' altre, e divise -, e non solo isolate e divise ma rivali, ma nemiche tra loro? In un tempo in cui il commercio tra le province italiane era nullo, le comunicazioni erano interrotte e dillìcili, le strade guaste e mal sicure: in un tempo in cui lo spirito municipale era portato al più alto entusiasmo, e ciascuna citta non sapeva trovar altro di buono di bello al mondo, tranne le sue mura, i suoi edifizi, i suoi ordini, le sue leggi, i suoi costumi, il suo proprio volgare?

LXIX. Dov'è nata questa lingua? Come e quando, e per mezzo di chi si è diffusa e tanto profondamente radicata per tutta Italia, e nelle isole del mare mediterraneo, in tanta diversità di caratteri, di fortune, di costumi e di reggimenti? Questo accordo e questa armonia non è effetto del caso, non è opera di una generazione ne di un secolo; ma è opera della forza e del senno di molte generazioni e di molti secoli.

LXX. Però è d'uopo trovare, o una provincia che abbia avuto da Dio il dono di questo linguaggio, e, facendosene
maestra, abbia insegnate, e colla sola influenza morale propagale e diff'use lo regole e le norme della favella a tutta la nazione, o un popolo che per la sua gran potenza abbia imposto a tutta la nazione il suo linguaggio, colla forza dell' armi, e colle leggi, e mediante una lunga e gloriosa dominazione.

LXXI. Ma questo centro della lingua, questa provincia maestra e insegnatrice dell'italica favella, non si trova nella storia del medio evo, e il gran filosofo e poeta Dante Allighieri nel suo libro della volgar eloquenza dimostra chiaramente, che nessuna citta e nessuna provincia si può dar vanto di aver insegnato la favella alle altre, e che tutte le citta italiane hanno concorso del pari a formare questa lingua, questo volgare illustre. «Ora si può discernere, dic' egli, il volgare che di sopra cercavamo, essere quello che in ciascuna citta appare e che in ninna riposa. Può ben più in una che in un' altra apparerò, come fa la semplicissima delle sostanze, che è Dio, il quale più appare neir uomo che nelle bestie, e che nelle piante, e più in queste che nelle miniere, ed in esse più che negli elementi, e più nel fuoco che nella terra. E la semplicissima quantità che è uno, più appare nel numero dispari che nel pari: ed il semplicissimo colore che è il bianco, più appare nel citrino che nel verde. Adunque ritrovato quello che cercavamo, dicemo, che il volgare illusi re, cardinale, aidico e cortigiano in Italia, è quello il quale ò di tutte le cittìi italiane, e non pare che sia di niuna; col quale i volgari di tulle le città d' Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare.

LXXII. Furono già molti scrittori, d' altronde presi ani issùni, nel cinquecento, ed anche prima, i quali si credettero fermamente aver trovata in Firenze e nella Toscana (jucsla (.itlà, e questa provincia maestra e insegnaIrice dell' italiana favella. Ma questa loro opinione è contraddetta dalla storia dei fatti, e dalla grande autorità di Dante Alligliieri. Perchè all' epoca della prima formazione della lingua italiana Firenze era una terra piccola e di ninna importanza; e i fiorentini, ancor rozzi e incolti, eran detti i montanari dei pisani. E la Toscana, divisa in cento reggimenti, gli uni agli altri diametralmente opposti; democratica in Siena e in Pisa, feudale in Valdisieve e in Casentino; teocratica in Cortona, e in Volterra; aristocratica in Perugia, e in Firenze, prima della battaglia di Montaperti; aveva ben poca influenza nella politica italiana.

LXXIII. E prima di quell' era memorabile, i volgari delle citta toscane erano inferiori al volgar siciliano, e allo stesso volgar bolognese, come dimostra chiaramente il sommo filosofo e poeta Dante Allighieri nel libro primo, capitolo decimoterzo, del tante volte citato aureo trattato della volgar eloquenza; dove scrisse <(... Vegnamo ai toscani, i quali per la loro pazzia insensati, pare che arrogantemente si attribuiscano il titolo del volgar illustre; ed in questo non solo l'opinione de' plebei impazzisce, ma ritrovo molti uomini famosi averla avuta, come fu Guitton d' Arezzo, il quale non si diede mai al volgare cortigiano, Bonaggiunta da Lucca, Gallo pisano, Mino Mocato senese, e Brunetto fiorentino; i detti dei quali, se si avrà tempo di esaminarli, non cortigiani ma propri delle loro cittadi si ritroveranno. Ma conciossiachè i toscani sieno più degli altri in questa ebbrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a ciascuno dei volgari delle citta di Toscana. I fiorentini parlano e dicono: «Manuchiamo introcque». I pisani: «Bene andonno i fanti di Fiorenza per Pisa». I lucchesi: «Io voto a Dio, che ingassaria lo comune de Lucca». I senesi: «Onche rinegata avesse io Siena». Gli aretini: «' Votu venire ovelle». Di Perugia, Orvieto, Viterbo, e Città Castellana, per la vicinità che hanno con romani e spoletani, non intendo dir nulla. Ma come che quasi tutti i toscani sieno nel loro brutto parlare ottusi, nondimeno ho veduto alcuni aver conosciuto la eccellenzia del volgare, cioè Guido (Cavalcanti), Lapo (Gianni), e un altro, (intende parlar di se stesso) fiorentini, e Cino pistoiese.... Adunque se esamineremo le loquele toscane, e considereremo, come gli uomini onorati si sieno da esse loro proprio parliti, non resta in dubbio che il volgare (illustre), che noi cerchiamo, sia altro che quello che hanno i popoli di Toscana».

LXXIV. Vero è che i popoli di Toscana, che fino a Dante erano quasi tutti nel loro brutto parlare ottusi, al suo tempo, e dopo di lui tanto polirono e tanto ingentilirono i loro volgari, che in progresso acquistarono veramente quella preminenza incontrastabile sopra tutti i volgari italiani, ond' ebbero a buon dritto per tre secoli il vanto di maestri della buona favella a tutta la nazione. Ma qui ne basti aver dimostrato coli' autorità di Dante, colla storia, e colla ragione, che la Toscana non ebbe, in origine, quella raffinata coltura di linguaggio, che venne acquistando nel trecento, quattrocento e cinquecento, e che non fu, né potev' essere, in principio, come da molti si crede, maestra della buona lingua alle altre città italiane.

LXXV. Se non vi ha città che si possa dar vanto dì aver pacificamente diffuso in tutte le province italiane questo volgare illustre; se il sommo pregio della lingua non è di nessuna, e si trova in tutte le città italiane; necessariamente è d' uopo conchiudere che il volgare italico ò antichissimo patrimonio indiviso di tutti i popoli italici, e del pari altissimamente radicato ab antico in tutte le province e le città italiane. Or è da ricercare qual popolo antico ebbe tanta possanza, da imporre colla forza e colle leggi la sua lingua a tutti gli abitatori di questa contrada.

LXXVI. Non furono i romani, i quali avversi alla lingua italica, ebbero sempre per massima di profonda politica di combattere, distruggere e annientare la lingua italica, e imporre a tutti, massime agli italici, il costume e il dire latino. Dopo la caduta dell' impero romano, l' Italia non fu mai più unita, se non sotto il regno di Teodorico: ma questo re magnanimo non fece che restituire gli ordini, le leggi e i costumi della repubblica e dell' impero -, e la lingua officiale del governo degli ostrogoti era la latina, come si prova colle lettere di Cassiodoro. D' altronde nel breve periodo di cento, di dugent' anni non si cangia la lingua di un popolo. Dopo il glorioso regno di Teodorico mai più l' Italia e stata unita, mai più sottoposta a un solo governo. Degli stati diversi che si formarono di poi, non ve ne fu mai alcuno di tanta potenza, di tanta superiorità, da poter imporre, o coli' influenza morale, o per forza d' armi la sua lingua agli altri.

LXXVII. Quel che si è detto del volgare illustre cittadinesco si può in certo modo applicare eziandio ai dialetti di contado. Si odono ancor al dì d' oggi, nelle più riposte valli delle alpi marittime, cozzie, retiche, appennine ne' monti toscani, lombardi, umbri, sabini, latini, campani, siciliani, illirici e corsi, mille voci e termini, e nomi di arnesi, di vesti, di usanze, di piante, di animali, modi, dettati e proverbi, che mai furono scritti, e che solo per tradizione dalla viva voce dei maggiori si apprendono; i quali son comuni a tutti i dialetti contadineschi di un capo all' altro d'Italia, e manifestano chiaramente la loro prima origine comune. E 'l più delle voci antiche, ora disusate, dei trovatori itahani, hanno radice nei dialetti ond' ebbe origine il volgar illustre nazionale dei trovatori e dei poeti, del foro e della corte, degli storici e degli oratori.

LXXYIII. Così per mezzo dei dialetti e della lingua noi siamo inevitabilmente condotti alla scoperta di un' anlica nazionalità italiana, anteriore alla romana-, di un' era antichissima, in cui l' Italia tutta fu dominata per lungo giro di anni da un gran popolo, il quale mediante le armi le arti, il commercio, il sapere e la religione, fece di tutte le italiche membra un sol corpo compatto, di tanti volghi una gran nazione, unita sotto il medesimo impero, governata dalle medesime leggi, retta dalla medesima religione, e parlante la medesima lingua; lingua, religione, legge e impero della gran nazione osca, la gente ausonia dei greci, stipite e ceppo dal quale derivarono, dopo la caduta dell' impero degli oschi, tutti i popoli italici antichi siculi, umbri, sabini, piceni, latini, rutuli, ornici, equi aurunci, peligni, marsi, campani, sanniti, lucani, bruzzi, danni, calabri, o sallentini, tutti affini tra loro, benché politicamente divisi, di sangue, di costumi, e di linguaggi: nello stesso modo che al disfacimento dell' impero romano sorsero tanti popoli indipendenti, quante erano le province e le citta italiane, veneti, lombardi, genovesi fiorentini, bolognesi, romani, pugliesi e siciliani, che dettero il nome allo stato di cui cran principi, conservando tuttavia in tanta diversità di fortuna, li stessi costumi, la stessa religione e la stessa favella.

LXXIX. L' idioma umbro, secondo Plinio, era in tutto conforme all' etrusco, ed uniforme n' era pure la pronunzia e la scrittura. «Dalla Sabina insino all'estremità della Calabria, scrive il Micali, si favellava osco, volgare antichissimo, ed in alcuni particolari alllne coll' etrusco.... Voci comuni, dice Varrone, usavano etruschi e sabini, laddove il dialetto dei Marsi, totalmente osco, tenea maggior identità con quello dei sabini e degli crnici stessi, per naturai medesimezza di sangue e di parlari. Similmente i sanniti e altri sabelli, i campani, sidicini, appuli, lucani e bruzzi, erano a un pari di lingua osca, come apparisce con tutta certezza per l' autorila dei grammatici, per le storie e i monumenti. Grande alterazione in queste lingue, come che derivale da una stessa madre, veniva dalla pronunzia aspra e forte dell' aspirazione, la quale di sua natura per deviazioni frequenti vien creando a poco a poco insieme particolari dialetti.
L' elemento principale della lingua osca si rinviene assai chiaramente nel prisco latino. Voci e locuzioni drittamente osche porgono i frammenti di Ennio. Così nel vecchio latino, come nel dialetto osco, usavasi uguale troncamento ruvido nelle parole. Suoni barbarici eran questi agli orecchi dei greci, e nondimeno suoni o pronunzie sì tanto usuali alle genti latine, che in Roma stessa s' intendevano da tutti le popolari commedie osche. Adducono inoltre i grammatici non pochi vocaboli sabini ed etruschi, i quali sono senza alterazione nella lingua latina, o facilmente si riducono a quella».

LXXX. Varrone, il più dotto dei romani, deriva una gran parte del latino dalle voci osche. Quintiliano va ancora più oltre. Egli teneva per romane tutte le voci d'Italia.

LXXXI. Se non che, per arricchir se stessa, la lingua consolare dei latini non impoveriva già il volgare italico del popolo; che anzi prendeva anch' egli delle voci nove dal latino, da quel novo ordine di cose, da quella nova civiltà romana, secondo che afferma Quintiliano nelle isliluzioni oratorie; che «il latino a tutti diede vocaboli, e da tutti li ricevette».

LXXXII. La profonda politica de' romani non solo tendeva a imporre ai popoli sottoposti, e soprattutto agli italici, le leggi, ma ancora il costume e il dir latino. A questo fine mai vollero trattare co' popoli vinti o alleati, se non colla sola lingua latina. Con quella si dettavan le leggi, si pubblicavan le paci, si tenea giudizio, si rendeva ragione. Con queste norme, con questo fermo volere la lingua latina si diffuse per mezzo delle armi e dei commerci, in tutte le province del mondo dove si estesero le armi, l' autorità o l' influenze romane; cioè sino agli estremi confini del mondo conosciuto: di modo che al tempo di Traiano imperatore, scrive Plutarco nelle quistioni platoniche, «quasi tutti i mortali parlavano romanamente».

LXXXIII. Ma questo parlar romanamente di tutti i mortali si deve intendere per gli uomini colti delle citta civilizzate, e per quelli che occupavano gli uffici pubblici in tutte le province dell' impero, o seguivano in qualunque regione le bandiere romane; e per quelli che trattavano commerci, o che mantenevano corrispondenze e relazioni coir Italia, colle province più centrali dell' impero; perchè il popolo di contado non cangia mai affatto lingua -, e dura impresa, e da non mai poterne venir a capo, sarebbe stata quella di voler far apprendere a gente di nessuna coltura di lettere, e di corto intendimento, la dotta, la nobilissima lingua latina; la quale fu solo creata per un gran popolo, per un popolo di alto intendimento, per un popolo sovrano. E quando questo popolo, di intelligente e sovrano, divenne ignorante e schiavo dovette egli stesso deporre un linguaggio che non poteva più intendere, perchè non era più da lui, né si addiceva più a condizioni servili.

LXXXIV. Perchè gli uomini colti parlassero latino, il volgo delle citta italiche non dimenticò giammai l'antico volgare, (ho era continuamente parlato e nelle citta italiche e nella stessa Roma, Avvi nella storia un fatto significantissimo. Vi fu un tempo in cui l' Italia, sdegnata del giogo romano, si pose in core di voler frangere la superba tirannia dei latini. Otto popoli italici convennero a segreta congiura, e per solenne giuramento confederatisi tra loro, presero le armi -, risoluti di voler abbattere una citta nemica della pace di tutti i popoli. Al nome dell' indipendenza e della liberta italiana, ruppero guerra ai romani ad un tempo nel paese dei marsi e dei sanniti, con un esercito di centomila combattenti. Istituirono nova repubblica, crearono novi consoli, ordinarono novi magistrati, e batterono moneta propria, e in quelle monete scrissero subito la lingua italica, ossia l' antico volgare degli oschi.
Prevalse la disciplina e la fortuna dell' aquile latine, e i popoli italici furono vinti e oppressi; e con loro la fortuna, la lingua e lo spirito nazionale.

LXXXV. Ma quando Costantino trasferì la sede dell' impero sulle sponde del Bosforo, e, mutati i costumi romani, vennero meno le tradizioni della politica romana, e la severità delle antiche istituzioni, e il rispetto alla maestà dell' impero, il bando, che la politica dei latini aveva dato alla vinta favella italica, cessò di aver forza e vigore.
Il popolo italiano, rimasto libero dalla presenza dei Cesari, che in ogni lato oppressiva incombeva su tutti gli animi vedendosi quasi abbandonato a se stesso, cominciò a risorgere alquanto, e riprendere in parte lo spirito e il linguaggio nazionale. Sopravvenner le invasioni dei barbari, e le loro guerre sterminatrici. Disperse le accademie, chiuse le scuole, venne sempre più mancando l' istruzione e la coltura, e l' amor del sapere, e lo studio della dotta lingua latina.

LXXXVI. Le crudeli violenze che i barbari esercitarono su un popolo vinto e prostrato, ma non mai dimentico del suo antico valore, destarono il coraggio abbattuto, nel core degl'italiani. Allora, all'aspetto de' novi e continui pericoli, e al rammento dei danni e degli oltraggi sofferti dai Barbari, gli animi degl'italiani si accesero di un magnanimo sdegno; l' amor di patria, il sentimento del proprio diritto e del proprio onore si ridestarono, le Virtù guerriere e cittadine rinacquero; gli italiani presero le armi, avvisarono alla propria difesa, e valorosamente combatterono pei loro focolari. Da questa gran confusione di principi d' interessi e di razze, dal fumo degli incendi, e dal sangue su tante battaglie sparso, ne uscì fuori un popolo forte, una nazione guerriera, che alla memoria della passata grandezza, alle tradizioni del senno antico, univa il coraggio dei barlìari, e il valore degli antichi romani. Il torrente devastatore de' barbari percosse tutte le altezze: le più ricche e le più potenti famiglie, o abbandonarono le città, e si fortificarono con torri e castella in contado, o caddero nel conflitto: i principali tutti i cittadini per nobiltà per ricchezze grandi nella nazione, disparvero; e, cessata la guerra, il popolo rimase signore del campo, e raccolse i frutti del suo coraggio e del suo valore. Allora si ordinarono noi municipi, all' ombra della lontana autorità imperiale, i reggimenti popolari. Poiché, dopo aver provveduto col suo valore alla difesa dello stato, pretese il popolo d' intervenire nei pubblici consigli e di aver parte uel reggimento. Questa è la prima origine delle repubbliche italiane: di qui ebbe principio il risorgimento del popolo. Col risorgimento del popolo risorse ancora la lingua popolare; e coli' incivilimento progressivo del popolo si operò il perfezionamento del linguaggio nazionale.

 
 
 

Rime di Celio Magno (201-215)

Post n°1079 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

201

Del tu' ardor sol m'appago, e ben l'intendo
quasi dagli altri lumi un sol distinto;
né scior mai potrò 'l laccio ond'ho 'l cor cinto
se per te mille vite ognora io spendo.

E d'esser tal ver te speranza prendo
quando anco io sia di questa spoglia scinto;
ma 'l tuo dir di rossor m'ha 'l viso tinto
vil oro in premio a tanta fé porgendo.

E che giova ogni don, s'ha forza tale
ch'in te rimansi, [e poco] io l'alma implico
sì ch'è congiunto il ben, congiunto il male.

Ma impoverir per me più sembra oblico
se più del tuo che del mio ben mi cale:
ed amando, ad amor ti fai nemico.

202

Alla compagnia che recitò la rappresentazione fatta al serenissimo principe il giorno di santo Stefano 1585

Schiera gentil, ch'i nudi incolti carmi
del mio finto Parnaso ornasti tanto
che del vero Parnaso il suono e 'l canto
men potea ricco e glorioso farmi.

Divino il tuo cantar, divino parmi
de la tua cortesia l'affetto e 'l vanto;
ma qual vinca di lor vo dubbio, e in tanto
di doppio nodo al cor sento legarmi.

So ben c'hanno ambeduo forza infinita,
versando in me piacer sì largo e novo
che fia cibo perpetuo a la mia vita.

Sol un amaro in tanto dolce io provo:
ch'ove d'animo grato ardor m'invita,
nulla al tuo merto il proprio sangue trovo.

203

Dopo la vittoria

Pur con tue forze il Trace in mar vincesti,
fatta di gloria a par del sol lucente,
Vinezia mia; pur in tua man possente
l'arbitrio quasi e 'l fren del mondo avesti.

Quinci al fero Ottoman si manifesti
che teco sol può rimaner perdente;
quinci tu 'l valor proprio e l'altrui mente
scorgi, e qual grazia il re del ciel ti presti.

Ma l'avanzo del ben da prima offerto
serbò, qual padre un don ch'a dolce figlia
mostri, e 'l prometta ad altro tempo e merto.

Tu segui ov'ei ti chiama, e speme piglia
che n'avrai poscia ogni alto premio e certo,
del mondo ancor reina e meraviglia.

204

Né quel Caton che 'l ferro in sé converse
de' cesarei trofei, da l'odio spinto,
né qualunque altro mal, cedendo vinto,
le crude man del proprio sangue asperse,

de la fortezza il vero lume scerse:
ch'anzi in lor fu da ciechi affetti estinto;
e 'l vizio in ciò sotto sembiante finto
de la virtute agli occhi lor sofferse.

Di fortuna sprezzar l'ira e 'l furore
por freno al senso, e quando fuor tempesta
n'assale, dentro aver tranquillo il core.

Sol in pro de la patria ed in onore
di Dio sacrarsi a vital morte onesta
è de' più forti eroi norma e splendore.

205

Musica del signor Giovanni Florio sopra la precedente canzone della vittoria.

Come in leggiadra larva adorna il viso
con ricca pompa suol ninfa mostrarsi,
che del men vago ascoso ode lodarsi
per l'eterna beltà ch'inganna il viso;

così la mia che 'l Trace in mar conquiso
musa cantò con nudi accenti e scarsi,
sente, da te vestita, in pregio alzarsi,
Florio, con armonia di paradiso.

Ché chi le sue parole ode al tuo canto
e la contempla a' tuoi bei fregi mista,
s'inganna, e l'orna del tuo proprio vanto.

Quinci il volo da te mia fama acquista,
e la tua verso il ciel s'innalza tanto
ch'altri ne perde, ad un col cor, la vista.

206

Qual frutto acerbo suol d'inculta pianta
ch'in povero terreno il ciel nodrisce,
che, s'in licor soave altri il condisce
rende sapor ch'ogni uman gusto il vanta;

tal il mio stil che 'l Trace oppresso canta,
nato d'ingegno in me che mal fiorisce,
d'aspro dolce diventa, or che s'unisce
da te con melodia celeste e santa.

Che chi le note tue divine ascolta
crida ch'Orfeo con quelle avria potuto
Euridice impetrar più d'una volta.

Ma poi fra 'l dolce grave e 'l dolce acuto
perdendo l'alma in quel concento involta,
riman per meraviglia un sasso muto.

207

Cortese albergo amico,
che larga entrata desti
a' piacer nostri, e noi stanchi accogliesti;
di che benigno cor creder debbiamo
il tuo signor gentile,
s'in te desio troviamo
d'acquistar lode in seguitar suo stile?
Dunque allor ch'egli a ritrovar se n' viene
de le sue cure in te dolce riposo,
gli dì che ben possiamo
bramargli, come al suo valor conviene,
altro assai più di te ricco e pomposo
e real tetto adorno,
ma nullo a par di te dolce soggiorno.

208

[A Giulia Recanati]

Quante, pria che da te faccia partita,
cose udirò, che lunga istoria e bella;
quante ancor tu da me, dolce sorella,
più cara a me de la medesma vita.

Ma quando al giunger mio dolce ferita
ti darà al cor la subita novella,
come festosa in atto ed in favella
ti vedrò presta al lieto nunzio uscita.

Dirai, porgendo a me la fida mano,
colma gli occhi di pianto e di diletto
- O lungamente desiato invano! -

E anch'io, teco a lagrimar costretto,
languirò di dolcezza: - O senso umano!
O mirabile in noi fraterno affetto! -

209

Al signor Orsatto Giustiniano

Piaga in ver troppo acerba, e cruda sorte
fu 'l perder lei, che vi produsse in vita:
donna d'alto valor, saggia e gradita,
or fatta dea ne la celeste corte.

Ma ciò più ch'altro il duol tempri e conforte:
che quinci in voi pietà rara infinita
scoprio ver sé, mentre per darle aita
pronto v'offriste a spaventosa morte.

Non potea 'l vostro cor più ardente segno
dar del su' affetto, e 'n più certo periglio
mostrarsi a noi d'ogni alto pregio degno.

Né d'ella ancor più gloriosa il ciglio
chiuder potea che con lasciar per pegno
di sé nel mondo un così nobil figlio.

210

In morte dell'illustrissimo signor Paolo Contarini

Mentre al celeste dal terren suo polo
sciolta e lieta se n' gia l'anima eletta,
s'udì l'altera sua patria diletta
con tai voci sfogar l'acerbo duolo:

non piango io già ch'a sì felice volo
te n' poggi dove il tuo Fattor t'aspetta;
vattene a vita pur vera e perfetta,
ch'ivi ogni nostro ben riposto è solo!

Ma sol piango il mio mal; ché teco è morto
de l'antica mia gloria un novo sole,
né trovo al mio dolor pace o conforto.

Se non ch'a queste luci orbate e sole
risplende il lume tuo, vivo e risorto
in più d'un sol de la tua chiara prole.

211

In morte di messer Francesco Colombo

Perché sì tosto, ohimè, Colombo amato
spiegasti il volo al tuo celeste nido?
E in duro pianto e doloroso strido
lasciasti a morte il nostro cor piagato?

Tu d'ogni santo e bel costume ornato,
d'ogni valor, d'ogni più caro grido,
facendo un paradiso il nostro lido
potevi ancor qua giù viver beato.

Ma perché, stolti, a quest'umana sorte
pareggiar la divina? E pianger tanto
ch'in ciel tu goda, agli angioli consorte?

Scusa l'error, felice spirto e santo,
poich'al senso non diè fortuna o morte
mai sì giusta cagion di doglia e pianto.

212

In morte dell'illustrissimo signor Andrea Badoaro

Piangea qual orba madre in nero manto
Vinezia estinto il suo diletto figlio,
ne 'l cor mai le trafisse e bagnò 'l ciglio
più grave duol con più dirotto pianto.

Era, qual padre, il ciel lieto altrettanto
veggendol fuor d'ogni mondan periglio,
né raccolse giamai da lungo essiglio
altr'alma in sé con più letizia e canto.

Quando d'alto s'udio lingua divina
gridar: - Dio tel prestò, Dio l'ha produtto,
or per sé 'l vuole, o d'Adria alma reina.

Però del largo a te concesso frutto
lodar più tosto il dei, divota e china,
che render quel ch'è suo con doglia e lutto. -

213

In morte di messer Bernardo Viviano

Mentre il Viviano, a vera gloria intento
tenendo il franco e generoso core,
fa del suo giovenetto, alto valore
noi lieti, e d'Adria il sen ricco e contento;

Morte, che del più bel caro ornamento
sempre ne spoglia, e del maggior splendore,
ha questo di virtù vivace fiore
con ogni nostro ben reciso e spento.

Ma Dio fu sol che sì gradito pegno
ritolse a questo vil secolo e tristo,
perch'era ben di possederlo indegno.

Piange or ciascuno, e dice, afflitto e tristo:
- Non perdé 'l mondo più lodato ingegno,
né 'l ciel fe' mai di più degn'alma acquisto. -

214

In morte di madonna Lucrezia Zorzi

Già sovra il sol de' begli occhi lucenti
cieca nube spiegava invida morte,
e dicea 'l mondo: - Ahi, che men dura sorte
fora a veder de l'altro i raggi spenti! -

Amor, com'uom che riparar pur tenti
con arte al suo destin malvagio e forte,
da le luci già quasi estinte e morte
tolse il bel foco in mille faci ardenti.

- Vivrà - dicendo, - almen perpetuo in queste;
e fia racceso ognor ne l'altrui petto
dal grido sol de la beltà celeste:

che potrà il suon del chiaro nome eletto
fiamme destar via più cocenti e preste
che 'l mirar vivo ogni più vago aspetto. -

215

In morte del signor Giovan Francesco Lavezuola

O d'umane speranze iniqua sorte!
Ch'ove di maggior ben frutto s'attende
ivi più tosto e d'improviso stende
sue man rapaci invidiosa morte.

Mentre d'ogni bel don che gloria apporte
te, Gianfrancesco, il ciel sì adorno rende
e Verona per te più chiara splende,
cadesti, ohimè, per destin empio e forte.

Tal vago e nobil fior ch'in ricco prato
sua pompa spiega, il capo a terra inchina,
da ria tempesta o cruda man troncato;

pianse questa di morte alta rapina
povero e mesto il mondo in ogni lato;
e lieta al ciel poggia l'alma divina.

 

 
 
 

Il Dittamondo (5-03)

Post n°1078 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO III

"Imagina, seguio, l’ottavo cielo 
composto d’una e d’altra figura, 
come de lo Zodiaco ti svelo. 
E pensa, s’hai veduto e posto cura 
quando il musaico con vetri dipinti 5 
adorna e compon la sua figura: 
che quei che son piú riccamente tinti 
ne le piú nobil parti li pon sempre; 
e converso, ne le men li piú stinti. 
Cosí quel Sommo, che lassú contempre, 10 
conoscer puoi che d’una e d’altra stella 
figurò il cielo con diverse tempre, 
e ch’Esso puose ciascuna piú bella 
propio in quel loco che vide piú degno, 
con l’ordine seguendo questa e quella. 15 
Similmente ti dico e ti disegno 
ch’ogni figura significa certo 
la simiglianza sua in questo regno. 
Ma drizza gli occhi ove piú vedi aperto 
in vèr settentrione e ’l mio dir nota, 20 
se vuoi d’alcuna d’esse essere esperto. 
Vedi il Carro, che intorno al polo rota; 
vedi Bootes, che guida il timone; 
di cui Boetes alluma la gota. 
Vedi due stelle, che l’una si pone 25 
in su l’omero destro e l’altra apresso, 
dico sopra ’l sinistro d’Orione. 
Vedi due altre al Carro piú presso, 
de le quai credo ch’assai se’ provisto: 
l’Orse son dette e ’nsieme stanno adesso". 
Allor pensai: l’una è quella Callisto, 
ch’Ovidio pone che Giuno converse 
in orsa, poi ch’ella ebbe il fatto visto; 
l’altra è ’l figliuol, cui Giove non sofferse 
che morisse per lei, ma tutto accorto 35 
fe’ due stelle di loro e ’l cielo aperse. 
Quel mi guardò e, poi che m’ebbe scorto 
che io pensava altrove, disse: "Guarda 
e ’l pensier lassa come il dito porto. 
Vedi una stella, che par che tutta arda, 40 
tra il Gemini e il Cancro tanto viva, 
che Venus pare a chi ben la riguarda. 
In fra le fisse niuna v’è piú diva 
di luce presso a lei ed è nel Cane 
e ‘cuor del Cane’ voglio che la scriva. 45 
Dinanzi ai piedi del Gemini stane, 
che ha forma d’uomo; e quinci, penso, move 
che sempre a l’uomo il cane apresso vane. 
Vedi lá il Cigno, in che trasformò Giove, 
e ’l Delfin di Nettunno e quella spera 50 
del serpe Eritonio, che leggi altrove". 
Apresso m’additò d’una che v’era 
in atto d’assassin crudo e villano, 
orribile a veder quanto una fera. 
Questo tenea ne la destra mano, 55 
come ferir volesse, un gran coltello; 
l’altra, la testa di un corpo umano. 
"Vedi la nave d’Argus col castello; 
e vedi Pegaseo che, tratto a volo, 
tutto è caval, ma con ale d’uccello. 60 
Vedi Feton d’intorno al nostro polo, 
e, piú qua, il Corbo, che cambiò le penne 
perché Corona scoperse ad Apolo. 
E sappi, quando a far l’accusa venne, 
che la pernice del tutto l’avisa, 65 
quasi indivina a quello che li avenne". 
Alfine mi disegna e mi divisa 
che son diciotto figure con trenta 
nel cielo ottavo, di diversa guisa. 
E io: "O luce mia, sí mi contenta 70 
il tuo aperto e piacevole dire, 
che, ascoltando, di piú non mi rammenta. 
Or, se a te piace, ancora vorrei udire 
nomare alcuna stella principale 
del Zodiaco, e quel loco partire". 75 
"Ogni cosa, rispuose, per la quale 
io possa sodisfare a la tua sete, 
mi piace e piú di altro non mi cale. 
Sarthan ne le corna d’Ariete 
due stelle son lucenti e pari poste 80 
e ciascuna d’un modo in noi reflete. 
E con gran luce tre n’ha ne le coste: 
Albuthan prima le nomâr coloro, 
che puoson mente com’eran disposte. 
Albocach son tre altre e fan dimoro 85 
ne lo capo del Gemini e tra i piei 
Anchacas due, che lucono come oro. 
E vedrai, se ben miri ai detti miei, 
Anacotha nel muso del Leone 
lucenti sí, che conoscer le dèi. 90 
Cosí, nel petto, Albegen si pone 
e Alcarfa sopra alquanto dal rabbuffo 
de la sua coda, di sotto al groppone. 
Similemente apresso del ciuffo, 
dico negli occhi suoi, ne stanno due 95 
e queste truovo nominate Artuffo".
E qui si tacque, che non disse piue.
 
 
 

I Trovatori (4)

Post n°1077 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

XLV. La Sicilia, dopo essere stata, fin dall' 820, corsa e devastata dalle scorrerie degli arabi, fu altresì la prima delle province italiane a sentir l' influenza della civiltà orientale. Nel 920 gli arabi presero Palermo, e occupata tutta l' isola, vi si fermarono, vi ordinarono uno stabile governo, vi fecero fiorir l' agricoltura, il commercio, l' industria, le lettere e le arti. Allora, come già nell' antica civiltà greca, le muse siciliane si destarono le prime a cantar con novo linguaggio, col linguaggio del buon popolo italiano, le grazie e gli amori, su lo stile degli arabi dominatori: onde le muse italiane, come le antiche greche e latine, furon dette siciliane, Sicelides musae paulo malora canamus, come canta Virgilio; e Dante, nel libro della volgar eloquenza: «Con ciò sia che tutti i poemi, che fanno gl' italiani, si chiamino siciliani».

XLVI «Sin dalla più rimota antichità, dice il Ginguené, gli arabi ebbero sempre una particolare inclinazione alla poesia. La loro lingua pieghevole e copiosa, e per eccellenza imitaliva e poetica, era favorevole alla loro immaginazione feconda, al loro ingegno vivace, alla loro naturale eloquenza spoglia d' ogni artifizio». Tutti questi elementi, il genio per la poesia e la musica, il linguaggio poetico, e la vivacità degl' ingegni si trovano tanto negli arabi che nei siciliani. I modi, le sentenze, e i sentimenti degli arabi s' incontrano sovente nei primi saggi della poesia dei trovatori siciliani, onde apparisce manifesta l' imitazione dei primi maestri. I trovatori siciliani, come i poeti arabi, cantarono le loro poesie accompagnandole con istrumenti, e con melodie semplici ed espressive, non disgiungendo mai l' arte de' versi dal canto, la poesia dalla musica; onde ne vennero i nomi musicali alle poesie italiane, di suono, tono, nota, melodia, sonetto, canzone, ballata, come si trova negli antichi codici, e come dimostra chiaramente il sommo poeta Dante Allighieri nel suo libro della volgar eloquenza.

XLVII. Questo amore per la musica e per la poesia, destato dagli arabi in Sicilia, maggiormente si diffuse sotto il regno dei primi re normanni, quando riunite le due corone di Sicilia e di Puglia sul capo del gran Ruggiero, Palermo divenne capitale di un vasto, ricco, temuto e glorioso reame.
La corte di Guglielmo II, re di Sicilia, che salì sul trono nel 1166, era il convegno dei migliori trovatori italiani. Il Buti, nel commento alla Divina Commedia, confermato quasi colle stesse parole da altri scrittori, di questo generoso principe lasciò scritto: «Costui (Guglielmo II) era liberalissimo. Non era cavaliere, né d'altra condizione uomo, che fosse in sua corte - o che passasse per quella contrada, che da lui non fosse proveduto; ed era lo dono proporzionato a sua virtude. In essa corte si trovava d'ogni professione gente. Quivi erano li buoni dicitori in rima d' ogni condizione; quivi erano li eccellentissimi cantatori i quivi erano persone d' ogni sollazzo, che si può pensare, virtudioso ed onesto».

XLVIII. E qui subito corre alla mente una riflessione. Se nel 1166 erano in corte del buon Guglielmo re di Sicilia tanti buoni dicitori in rima d' ogni condizione, non si può, e non si deve credere che tutto ad un tratto sorgessero all' improvviso tanti trovatori; che nata appena la così detta gaia scienza, l' arte della poesia, tutto ad un tratto diventasse civile, e aulica, e cortigiana, come si vide a tempi di questo buon re Guglielmo, né che fosse con tanto ardore coltivata da grandi personaggi, come si vide dal cancellier del regno, Pier delle Vigne, e dai principi stessi, come dagli imperatori Federigo I Barbarossa, e da Federigo II lo svevo, e dai tre suoi figli, Arrigo re di Sicilia, Enzo re di Sardegna e 'l ben nato re Manfredi, se prima questa nobile scienza non avesse corso un lungo periodo di gloria e di applausi popolari.

XLIX. La Sicilia ebbe adunque, prima della venuta dei provenzali, un periodo letterario arabo, un periodo letterario normanno, e un periodo letterario svevo. Il primo periodo arabo è poco conosciuto, e ci mancano di altronde i documenti. Il poema in nona rima è pieno delle reminiscenze di quella scuola, ed è l' unico documento insino a noi pervenuto, che ce ne faccia avvertiti.

L. Sono trovatori del periodo letterario normanno Giulio d' Alcamo, il re di Gerusalemme, messer Rinaldo d' Aquino, messer Folco di Calabria, e Ruggeri Pugliese, Iacopo d' Aquino ed altri ancora, i quali fiorirono sotto la dinastia normanna, che si spense nel 1189. I trovatori del periodo svevo sono meglio conosciuti, e trovansi in tutte le raccolte di rime antiche.

LI. Se questo volgare intorno al 1150, come abbiam dimostrato, e non nel secolo XIV, come afferma Ginguenè era già determinato, e non solo determinato, ma colto a tal segno da poter vestire le forme di un nobile poema, a qual tempo si deve far risalire l' origine della lingua italiana? È questa una quistione molto antica, e molto difficile a risolvere. Né io intendo qui di voler fare la storia della lingua italiana, che né 'l tempo né la natura del lavoro nol mi permetterebbero: ma poiché vanno attorno fra gli applausi del volgo tante dottrine oltraggiose al nome italiano, contrarie alla storia, alle tradizioni, ai monumenti, e all' umana ragione; a maggior chiarezza di quanto per me è stato asserito, credo far cosa utile, e all' intendimento di quanto sarò per dire necessaria, di ricercare, e il più brevemente che mi sarà possibile dimostrare con tutta chiarezza ed evidenza la prima origine della lingua italiana, della lingua francese, e del dialetto provenzale.

LII. Se in molte cose io mi discosto dall' opinione dei più autorevoli, non è per istudio di novità, ne per ispirito di contradizione, ma sì per difender il vero, e l' onor della patria, a cui si vorrebbe strappar l' ultima corona che ancor le rimane, la più bella e la più invidiata corona, la corona della più ricca e della più sublime poesia.

LIII. Nulla curando se biasimo o lode mi vien dagli uomini volgari, liberamente e con tutta franchezza sottopongo all' esame e al giudizio degli uomini intelligenti, qualunque sieno, le osservazioni che han fatto sorgere la scoperta e l' esame di queste rime antiche.

LIV. Volendo io rintracciar la prima origine della lingua italiana, esaminai tre diversi ordini di fatti. 1. i monumenti latini. 2. lo stato della lingua volgare nel primo secolo, e le affinità dei dialetti viventi. 3. l' autorità degli storici e de' grammatici. Questi studi, fra loro tanto diversi, mi condussero al medesimo risultato, e mi confermarono nella medesima opinione. La qual opinione, affinchè possa acquistar qualche fede appresso gl' intendenti, e non sembri, al parer de' volgari, un' invenzione da romanzo, proverommi a esporre i sommi capi dei documenti, delle ragioni, e delle autorità degli, scrittori, su cui è fondata: onde il lettore discreto possa, con piena conoscenza di causa, giudicar da se stesso.

LV. Quasi tutte le scritture, e pubbliche e private, anteriori all' undecimo secolo, sono state distrutte dalle guerre, dagl'incendi, dalle inondazioni, tranne le scritture dei diritti delle chiese e dei monasteri, le quali scritte in pergamena, e per lo più in doppio originale, e inserite nel bollettone o caleffo, ossia registro generale degli atti del monastero, furono diligentemente e religiosamente conservate. Queste pergamene, questi caleffi, che contengono per lo più donazioni o censi a favor de' monasteri, enfiteusi livelli a' privati, privilegi di sovrani, dichiarazioni di protezione, confermazioni di giurisdizione, di possesso, e simili, sono invariabilmente scritte in latino: ma i nomi propri delle tenute, ville, terre e castella, e i nomi propri dei luoghi confinanti con quelle, sono scritti per lo più in italiano; soprattutto quando son nomi composti, che non si possono tradurre in latino.

LVI. Chi volesse darsi la briga di rovistare i papiri ravennati, gli annali benedettini, i diplomi sardeschi, il codice diplomatico toscano, le pergamene dell' archivio lucchese, dell' archivio sanese, e quelle dell' archivio della cava nel regno, e quelle dell' archivio diplomatico fiorentino che cominciano dal sesto e settimo secolo, e sono più di trentamila, io credo veramente che mediante quelle pergamene latine, una parola qua, e due là, si verrebbe a scoprire e ricostruire gran parte dell' antica lingua italiana, qual era fin dal sesto e settimo secolo, dacché si ha memorie officiali e legali, detta impropriamente rustico romano, del quale si trova ancora una traccia luminosa nelle monete, negli epitaffi, nelle iscrizioni, nei bronzi, ne' sigilli, nelle pietre incise, e in tutto ciò che di quei secoli barbari è sopravanzato all' ingiuria degli uomini e dei tempi.

LVII. E per citar alcuni esempi fra mille. Per istrumento del 1092, esistente in pergamena nell' archivio diplomatico fiorentino, Cunizza, badessa del monastero di Lugo ricusa «omnes albergherias ad omnes homines qui fuerint de filiis Gabizi de Rio freddo, et Casa nova».
In un diploma dell' anno 1052, estratto dall' archivio capitolare volterrano, Arrigo II imperatore conferma alla chiesa volterrana l' acquisto di alcune terre e castella, e fra le altre si nomina una porzione dell' antico castello di «Rocca dei Cori cum suis pertinentiis».

LVIII. Un istrumento in pergamena del 900, esistente nell' archivio diplomatico fiorentino, contiene la vendita di una tenuta posta «in podio dicto delle querce». Nel caleffo del monastero di s. Antimo, da me visto in Siena, si leggono più istrumenti del 700 e 800, ove, fra gli altri, osservai piìi di venti nomi italiani di tenute, ville, terre e castella (nomi annotati in margine per mano di Celso Cittadini, l' autore della preziosa operetta sull' origine della lingua italiana), e fra le altre cose ricordo un istrumento dell' 800, la donazione di un podere «dicium fonte buona» colla declinazione italiana.

LIX. Nel giuramento di pace e di alleanza tra Carlo re di Francia e Lodovico re di Germania nell' anno 842, fatto in volgare italico, detto rustico romano, riferito e illustrato nella Difesa di Dante dal chiarissimo Perticari, si trovano le radici, le inflessioni e le forme tutte caratteristiche della lingua italiana, e vi si legge in catauna cosa, altresì, siccom', om', per siccome, uomo; modi francamente usati anche dai nostri primi trovatori.

LX. Per un istrumento del secolo ottavo, registrato nel bolletlone arcivescovile fiorentino, il vescovo Rambaldo locava alcune terre «quasdam terras positas ubi Rio malore vocatur»: modo della lingua italiana di allora, ancora vivente tra la plebe toscana delle alpi.
E nell'archivio del capitolo de' canonici fiorentini si trova un istrumento in pergamena del 724, in cui Specioso cittadino e vescovo fiorentino, dona al capitolo de' canonici una tenuta detta «a Cintoia», la quale ancor a' nostri giorni, dopo undici secoli, con li stessi nomi e li stessi confini, è da loro posseduta; perchè i nomi dei luoghi, monti, laghi, fiumi, ville, tenute, terre, castella e città, non sono passeggieri come i nomi degli uomini, ma durano invece per secoli e secoli, a traverso tutte le umane vicende.

LXI. Se nel 1092 vi era un villaggio che si chiamava «Rio freddo», e una terra che si chiamava «Casanova»; se nei 1052 il castello del vescovo volterrano era chiamato «Rocca dei Cori»; se quella tenuta, citata dell' archivio diplomatico, nel 900 era chiamata «Delle querce», e l' altra del caleffo senese nell' 800 era detta «Fonte buona»; se quella tenuta del vescovo fiorentino era chiamata nell' 800 «Rio malore»; se la tenuta dei canonici fin dal 724 era detta «a Cintoia»; non si deve già credere che quelle tenute, quei villaggi, quei castelli nascessero o ricevessero il nome per l' appunto nell' anno e giorno citato nell' istrumento della pergamena; ma c' è tutta ragione probabile di credere, che avessero già più secoli di esistenza, e che da più secoli portassero quel nome.

LXII. Affermano gli storici più accreditati, che in Ercolano e in Pompei, al tempo della catastrofe, si scriveva latino; ma il popolo parlava l' antico volgare italico degli oschi. Non è gran tempo, è stato rinvenuto in Pompei una breve iscrizione di un' offerta di un soldato a Venere, in lingua mezzo latina e mezzo volgare.

LXIII. I classici comici latini, quel che in bocca a uomini di lettere, di corte, o del foro, scrivono ager, ignis, equus, pulcher, caput, domus, in bocca degli schiavi, e de' servi; sapendo che non possono conoscere le eleganze latine, imitando il linguaggio popolare del trivio e del mercato, scrivono campus, focus, caballus, bellus, testa, casa, che sono voci latinizzate dell' antico volgare italico degli oschi.

LXIV. Secondo Salmasio, citato dal Menagio, la vera lingua italiana cominciò a formarsi fin dai tempi dell' iraperator Giustiniano. Giusto Lipsio, citato dallo stesso, intende provare che la lingua italiana, al suo tempo, avea più di mille anni.

LXV. L' Alciato, il Filelfo, il Poggio, il Giambullari, il Castelvetro, il Tolomei, il Cittadini, il Maffei, ed altri dottissimi e profondissimi filologi e filosofi, opinarono che il volgar italico esistesse in gran parie presso il popolo romano, fin da quando era più in fiore la lingua latina.

LXVI. Di più, noi abbiamo dagli storici, che fin dai primi secoli di Roma si rappresentavano su' teatri romani delle commedie nell' antico volgare degli oschi, la gente ausonia dei greci, i più antichi popoli italiani aborigeni conosciuti da che si ha ricordanza di storie; i quali siccome furono stipite da cui derivarono tutti gli antichi popoli italici, così la lingua osca si trova esser la più antica lingua nazionale e la radice di tutto le lingue, di tutti i volgari, e di tutti i dialetti italiani.

 
 
 

Il Dittamondo (5-02)

Post n°1076 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO II

"Figliuol mio, disse, quanto cerner puoi 
del Zodiaco io t’ho mostrato in brieve, 
nominando le stelle e i segni suoi. 
Ma perché ciò ch’uom vede assai piú lieve 
prende, che quel che imaginar conviensi, 5 
so che ti fia il mio parlar piú grieve. 
Ma fa che dia riposo alquanto ai sensi 
e con l’udir le parole distilla 
dove le truovi, poi che fra te pensi; 
ché quando quel che ’ntender de’ vacilla 10 
e non sta fermo a quel che l’uom li conta, 
a l’esca sua mal s’accende favilla. 
Imagina che dietro a Virgo monta 
Libra con le bilance, le qua’ sono 
di Venus, come del Tauro si conta. 15 
Giustizia, dirittura e ciascun buono 
significa quaggiú, e marco e libra, 
con tutti i pesi che contar si pono. 
Or, poetando, alcun vuole e delibra 
che Giustizia, la figliuola d’Astreo, 20 
translatata fu quivi e detta Libra. 
E Demetra piace ad Ecateo, 
la dea Cereres, ch’essa fosse quella 
tratta lassú, poi che ’l mondo perdeo. 
Eracles pone un’altra novella: 25 
che è Mensura, per lo cui prego il Nile 
mensura prese, quanto ancor tien, bella: 
che, poi che per la morte cambiò stile, 
piacque a gli dii che ’n questo loco fosse 
sí come cosa divota e umile. 30 
Con l’aspra coda e con le prese grosse 
apresso Libra segue lo Scorpione, 
per cui Fetonte, giá, tremando, cosse. 
Questo, come Aristofano pone, 
con la saetta da Chiron fu morto 35 
per la vendetta del figliuolo Amone; 
poi, per li dii, in quel segno fu scorto. 
E sappi che significa quaggiuso 
velen, paura, crudeltá e torto, 
e ciascun animal, ch’abbia per uso 40 
di portar tosco e di pungere altrui 
e star sotterra ascoso o in pertuso. 
Sette e diece stelle sono in lui 
e, tra’ dodici segni, si può dire 
che, qual tra suoi fu Giuda, è qui costui. 45 
E dopo lui imagina venire 
Sagittario con la fronte sí viva, 
ch’assai par chiaro a chi ’l vede apparire. 
Da questo segno ogni animal deriva 
che mostruoso sia, ogni spavento 50 
che vegna di lontano o che si scriva, 
archi, balestre e saettamento 
e, brevemente, tutte quelle cose 
che posson da la lunga dar tormento. 
Alcuno fu che, poetando, compose 55 
come Chirone, d’Achilles maestro, 
in questo segno per li dii si pose 
con la saetta a l’arco aperto e destro, 
dietro a lo Scorpio, che ’l figliuolo uccise: 
e, qual centauro fu, par qui silvestro. 
Quindici belle stelle vo’ che avise 
per lo corpo bestiale e per lo viro, 
che dal sommo Fattor li funno mise. 
Or questo segno, quando cerco e miro, 
di Giove trovo ed èvi un loco adorno 65 
dove l’altar di lui ancora spiro. 
Apresso, dèi saper, vien Capricorno 
che significa il cervio e ’l cavriolo 
e ciascun animal c’ha simil corno. 
La Olenia capra col figliolo, 70 
Giove, allattato, dopo la lor morte 
meritar volse in questo luogo solo. 
Dieci e sedici stelle sono scorte, 
fra l’altre, da notar per le sue membra 
e qui Saturno tien talor sua corte. 75 
Dopo costui imagina e rimembra 
che ’n forma d’uomo Aquario si vede 
e versa l’acqua, che un diluvio sembra. 
E scrivesi ch’è preso Ganimede 
per Giove, che a li dii ne fe’ pincerna, 80 
in questo luogo, e Nason ne fa fede. 
Similemente ancora si governa 
e regge per Saturno questo regno 
e qui ogni sua possa par si cerna. 
Sette e dodici stelle ti disegno 85 
per lo suo corpo, piú lucenti e nove 
che l’altre, che sian poste per lo segno. 
Seguita il Pesce, il quale è dato a Giove, 
sí bel di stelle, che quarantadue 
son da notar, dove piú luce piove. 90 
Or, poetando, Glauco un pover fue 
pescatore che, presi pesci in mare, 
scosse in su l’erba le grembiate sue. 
Gustati d’essa, li vide saltare 
ne l’acqua tutti, onde allora il tapino 95 
volse per sé il miracol provare. 
Per che, provatol, venne iddio marino: 
onde i due pesci, che v’eran piú privi,
per testimoni di cotal destino
fun per li iddii translatati quivi". 100
 
 
 

Rime di Celio Magno (188-200)

Post n°1075 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

188

A messer Girolamo Molino

Quella donna gentil, ch'a nova luce
v'alletta il guardo; ad al suo dolce canto
l'avide orecchie, e 'n voi con doppio vanto
meraviglia e piacer tanto produce.

Dal parlar vostro, onde riflessa luce,
quasi da chiaro specchio in ogni canto,
tal in me splende, e m'addolcisce tanto
ch'alta brama di sé nel cor m'adduce.

Però me voi, signor, prego, scorgete
de' raggi suoi, di sua voce al diletto
per disfogarne, un dì, mia ardente sete.

Così lei prenda amor del vostro affetto,
e 'l lume e 'l canto, onde sì vago sete,
v'empiano ognor di lor dolcezza il petto.

189

Per la illustrissima signora donna Ieronima Colonna

Amore, a cui quel foco ardente meno
rende invida Giunon, quel che nell'onde
Del gran padre Oceàn s'accese, donde
Venere apparve pria nel suo bel seno;

per ristorar sue fiamme entro al sereno
raggio divino, e di virtù feconde
l'alme inalzar là, v'ogni ben s'asconde
da questo basso e vil carcer terreno;

sopra questa gentil Colonna or prende
suo seggio; e quinci ogni alma incende e falle
d'alto sentir le sue faville sante.

Di che noi bea splendor, ch'ella n'apprende;
e qual novo Israel, per miglior calle,
ne scorge a contemplar l'eterna amante.

190

Un Febo in cielo, un Febo in terra io scerno,
una Cinzia là su, l'altra fra noi:
van questi emuli a' quei co' raggi suoi,
stretti in nodo non men dolce fraterno.

Ministri questi e quei del re superno,
mondo, fan che felice or dirti puoi,
e i più lucenti specchi agli occhi tuoi
son questi, e quei del sommo sole eterno.

Così di tempo a' quei conformi ancora
durasser questi; e 'l tuo divoto zelo
del suo lume gioir potesse ognora.

Ma splenderan, deposto il terren velo,
lassuso anch'essi: e pari in tutto allora
avrà duo Febi e due Diane il cielo.

191

[In lode di Cinzia Braccioduro Garzadori]

Venere è certo e non donna mortale
questa, e dal vero il creder mio non erra:
ché sì rara beltà non nasce in terra
né può splender tal luce in corpo frale;

benché se 'l nome tien di Cinzia e tale
ardor di castità nel petto serra
che sol col guardo ogni vil voglia atterra,
ch'anzi Diana sia, dubbio m'assale.

Ma come è lei? Poiché le stelle a pena
quella avanza di lume, e questa nostra
fa l'aria più che 'l sol chiara e serena.

Sia qual si vuol, dea certo esser dimostra;
e se pur non è dea, donna terrena
vince, o dive del ciel, la gloria vostra.

192

Al signor Alessandro Magno suo fratello

Se pur d'alto saper lingua non mente
un predir quel che 'l ciel di me destina,
e in così verde età, lasso, vicina
morte spirar più qui non mi consente;

pria che siate, o mie luci, oscure e spente,
piangete innanzi a la pietà divina
ch'ognor sì pronta a prego uman s'inchina,
le colpe onde aggravar l'alma si sente.

E tu, ch'or da me lunge altrove spiri,
frate, da me più che quest'occhi amato,
rimanti, e 'l ciel più largo a te si giri:

sol che talor con petto amico e grato
in me 'l tuo danno e 'l mio destin sospiri,
e sia 'l mio nome del tuo pianto ornato.

193

Alla signora Giulia Recanati sua sorella

O per sangue e miserie a me congiunta,
e del medesmo ventre al mondo uscita,
quante fiate a lagrimar m'invita
quel rio destin che t'ha pur lassa aggiunta.

Tu rimanesti, a pena in luce giunta,
orba di quei che ti produsse in vita;
ed or da me, tua compagnia gradita,
tua sola speme, il ciel ti tien disgiunta.

Qual più strazio a provar ti resta omai?
Quai po 'l cielo a me far più ingiurie e scorni,
s'ogni mal m'è del tuo men grave assai?

Ma, s'è ver che sereno il ciel ritorni
dopo gran pioggia, e tu fin lieto avrai
de' tuoi più tristi e nubilosi giorni.

194

Questo ordito pur or soave nodo
ch'i nostri cor sì strettamente cinge,
forse altri a dir con meraviglia spinge
— Come novello amor lega in tal modo? —

Ma chi in voi scorge il ben che tanto io lodo
poiché 'l ciel solo voi n'orna e dipinge
e 'n me 'l desio, ch'ad amar voi mi stringe
tal che solo di lui gioisco e godo,

dirà ben: — Questi col suo ardente affetto
scaldar può ogni alma, e quei di ferro un core
a sua virtute altrui mover dal petto. —

Così, Camillo, in fede ognor maggiore,
crescendo il laccio sì concorde e stretto,
lieti ne guidi insin a l'ultim'ore.

195

O tra gli amici miei fidati e cari
ben più a me fido e più diletto amico,
o per cui sol felice ora mi dico
c'ho più la sorte e 'l mio destin contrari;

se render grazie a la tua fede pari
con questa penna indarno m'affatico,
conosci il buon voler, benché mendico
d'ogni poter, colpa de' cieli avari.

Colui cui son tutti i pensieri aperti,
chiaro scoprendo il mio desire interno,
voglia per me ne' suoi gran premî averti;

ch'io, poich'a ciò seguir via non discerno,
sì raro pegno almen de' tuoi gran merti
conserverò ne la memoria eterno.

196

All'illustrissimo signor Francesco Contarini, cavaliere e procuratore

Poiché de la mia cara e fida scorta
quasi a l'entrar di questa selva oscura
orbo fe' rimanermi aspra ventura,
perch'in me fosse ogni speranza morta;

io con la via ch'ogni alma poco accorta
ne' suoi diletti ritener procura,
fui per cangiar la faticosa e dura,
ch'a dolce fin la nostra vita porta.

Ma voi scorgendo il mio vicin periglio,
mentr'io dubbiava del camin verace,
mi serbaste in lui fermo il piede e 'l ciglio.

E se 'l mio cor turbò morte rapace,
serenollo di voi l'opra e 'l consiglio,
qual chiaro sol ch'oscura nebbia sface.

197

A messer Domenico Veniero

O novo Apollo, o sol, che ben di Dio
sotto velo mortal sembianza mostri;
tu, che rendi felici i giorni nostri
con tanto ben del ciel, ch'in te s'unio;

mentre infinita in atto umile e pio
gente a te vien dai più lontani chiostri,
perché quel c'ha nel cor scopra e dimostri,
di inchinarti e vederti alto desio;

a me, che sovr'ogni altro il tuo bel lume
divotamente adoro, apri la strada
che mi meni a vestir più salde piume.

Mostra, Signor, dove convien ch'io vada
per sottrarmi al volgar basso costume,
e perché, senza te, non pera e cada.

198

A messer Alberto Badoaro

S'udio nel tuo mortal corso periglio
quando più colmo avea di gioia il petto,
cangiando in grave duol l'alto diletto
dir così la tua patria umida il ciglio:

— Ahi, che sul più bel fior m'è tronca, o figlio,
tua vita e 'l mio sperar di te concetto;
e invan sì larghi frutti altronde aspetto
di fé, di lingua, d'opra e di consiglio.

Deh sanal tu, Signor, tu che m'hai porta
dianzi salute a tanta gloria unita,
sendo anch'io sì vicino al mio fin scorta. —

Or ch'a lei ti salvò celeste vita,
raddoppia il gaudio; e par d'afflitta e morta
che torni teco un'altra volta in vita.

199

Benedetto sia 'l dì ch'in nobil laccio
d'amor, Ottavia, a te quest'alma unio;
benedetto l'ardor del petto mio
a par di cui pò dirsi ogni altro un ghiaccio.

L'esca del foco in cui lieta mi sfaccio
è la tua gran bontà, sì cara a Dio,
i tuoi dolci costumi, e 'l grato e pio
cor ch'a me scopri, onde a me stessa io piaccio.

Ma chi spiegar poria l'immenso affetto
ch'in me rinchiudo? E quanta amando io senta
del tuo amor verso me gloria e diletto?

E se tua fiamma or de la mia più lenta
quella agguagliasse ch'arde entro 'l mio petto,
o me più ch'altra a pien ricca e contenta!

200

[A Domenico Venier]

Con presto piè verso 'l mio fin me n' gia
per grave morbo; e fuor d'ogni uso umano
di mirabil virtù nascosta mano
frenò 'l mio corso e 'l volse a miglior via.

Ma nacque il don de la salute mia,
Venier, da l'amor tuo raro e sovrano,
sì ardente del mio ben che render vano
pò l'odio in me d'aspra fortuna e ria.

E 'n favor de la tua più degna vita
cui stringe con la mia nodo sì forte,
a me concesse il ciel benigna aita.

Ma più felice ancor per te mia sorte:
me spento, fia con la tua gloria unita
e di man tolta a la seconda morte.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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