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Messaggi del 20/01/2015

Il Dittamondo (5-10)

Post n°1097 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO X

Cosí come si tacque, incominciai
e, secondo che piacque al mio Solino,
in questo modo verso lui parlai: 

"O caro frate mio, o pellegrino, 
da poi che Dio m’ha fatto tanta grazia 5 
ch’io mi truovi con voi in un cammino, 
l’anima mia, che per lunghe spazia 
bramosa è stata del vostro volume, 
piacciavi che per voi or ne sia sazia. 
Aprite a lei, col vostro chiaro lume, 10 
chi Macometto fu e dite ancora 
lá dove visse e d’ogni suo costume". 
Benignamente mi rispuose allora: 
"Apri gli orecchi al disioso core, 
a ciò che v’entri ben ciò ch’io dico ora. 15 
Negli anni de la grazia del Signore 
secento venti sei fu Macometto, 
al tempo di Eraclio imperatore. 
Di vil prosapia, povero e soletto, 
nacque costui ne l’arabico seno; 20 
Adimonepli al padre suo fu detto. 
Cauto, sagace e di malizia pieno, 
de l’altrui vago e di fiero sembiante, 
a’ vizi sciolto fu e senza freno. 
Ne la sua giovinezza andò per fante, 25 
e per Egitto e per piú luoghi strani, 
a guida de’ cammei d’un mercatante. 
Cosí, cercando a torno per quei piani, 
lo Vecchio e ’l Nuovo Testamento apprese, 
usando con Giudei e con Cristiani. 30 
Apresso, Gadighen, vedova, prese 
a sposa e per sua donna, ricca molto; 
e qui a tôrre e farsi grande intese. 
Sergio monaco, da la Fede sciolto, 
si trasse a lui e, col suo operare, 35 
fe’ che fu re di quel popolo stolto: 
ch’el seppe una colomba ammaestrare: 
se non beccava ne l’orecchia propia 
di Macometto, non sapea beccare. 
Richiese, apresso, la gente etiopia 40 
e li Arabi col suon de la sua tromba: 
onde a lui trasse di ciascun gran copia. 
Qui predicò che ’n forma di colomba 
lo Spirto Santo li dovea venire 
"come da Dio mi spira e mi rimbomba". 45 
Orando, tutti vidono apparire 
da lungi la colomba e non si stalla, 
perché del cibo suo avea desire, 
ch’essa ne venne e puose in su la spalla 
di Macometto e dentro da l’orecchia 50 
lo rostro dolcemente a beccar calla. 
La gente giovinetta con la vecchia 
gridaron tutti insieme: - Viva, viva, 
viva il profeta che Dio ci apparecchia -. 
La legge Alcoran, nascosa e priva, 55 
aperse apresso loro e in questa guisa 
fe’ manifesta per ogni sua riva. 
La Persia ancora non avea conquisa, 
quando, per acquistarla, combattendo 
li fu la bocca segnata e ricisa. 60 
Piú mogli tolse, che dir non intendo, 
e piú battaglie nel suo tempo fece, 
che ’n tal cacciò e in tale andò fuggendo. 
Tra gli altri suoi compagni, funno diece 
ch’ordinâr l’Alcoran, de’ quai t’incronico 65 
li tre cristiani con lor viste biece 
(Sergio fu l’un, del qual t’ho detto, monico; 
l’altro Nicola, cherico; e apresso 
lo disperato dal papa calonico) 
e i sette arabi e suoi amici adesso: 70 
di questi dicon che lo Spirto santo 
gli alluminava del suo lume stesso. 
Li primi tre, ai quali dan piú vanto, 
fun Naphe con Amer e Elresar; 
gli altri seguîr ciascun com’io ti canto: 75 
lo figliuol di Cethir, io dico Asar, 
nomâr lo quarto e, similemente, 
Eon lo quinto, Omra e poi Amar. 
In fra gli altri piú grandi di sua gente 
funno poi Abidalla e Baora, 80 
Adian, Salem con la magica mente. 
Per questo modo, il quale hai udito ora, 
nacque Maometto e signore venne 
e fece che la gente sua l’adora. 
Quei d’Asia quasi tutti vinse e tenne 85 
sotto sua signoria, in fin ch’el visse, 
ai quai quel che a lui piacque far convenne. 
Nei suoi errori quaranta anni scrisse; 
a la fine li fu dato il veleno
dai suoi medesmi, per quel che si disse; 90
e cosí, com’io dico, venne meno".
 
 
 

Rime di Celio Magno (276-283)

Post n°1096 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

276

Al clarissimo messer Ieronimo Molino

Qual cantar di sirena o serpe in erba
teme chi, da ragion scorto e guidato,
per quest'onde fallaci e mortal prato
chiuse l'orecchie e cauto il piede serba?
E qual percossa di fortuna acerba
può sovra quei ch'in suo valore armato,
se da suoi colpi e da contrario fato
schermendo ogni mal tempra e disacerba?
Tal voi; ch'intento sol d'Apollo al canto
e sordo a quel ch'al fin miseria fassi,
gite securo in questo mar di pianto;
e dispensando accortamente i passi
nel dubbioso sentier, non può mai tanto
sorte ch'alcun suo strale al cor vi passi.

277

Al serenissimo principe il signor Pasqual Cigogna.

Cedan degli orti esperî i frutti d'oro
a quei, signor, sì preziosi e rari
che benigno dispensi a' tuoi più cari,
chiudendo in picciol dono alto tesoro.
D'amor, di cortesia si gusta in loro
dolcezza tal, ch'a lei null'altra è pari;
tua bontà nostra fede in lor dichiari,
proprio a te, proprio a noi cibo e ristoro.
Così tributo antico a te de' tuoi
cangiato in nova grazia e favore
fa te più chiaro, e più felici noi.
Onde pien d'umiltade il nostro core
grazie ti rende, e porge i voti suoi
in tempio sacro a te d'eterno onore.

278

Al serenissimo doge di Venezia il signor Marin Grimani

O di questa da Dio construtta nave
nocchier sublime, a te diletta madre,
che in lei principe e re, via più di padre,
il nome cerchi, e 'l trovi al cor soave.
Primo fra i primi tuoi, tu porti il grave
pondo, sol volto ad opre alte e leggiadre,
qual forte duce suol, che tra le squadre
si fa milite al rischio, e nulla pave.
Tu, sovran di valor, d'ardor conforme
agli altri reggi; e ne' tuoi desti lumi
più sicura la patria ha posa, e dorme.
Cedano al tuo splendor gli antichi lumi,
e dopo lunga via per felici orme,
il ciel t'accoglia infra i beati numi.

279

Al serenissimo principe il signor Marino Grimani, sopra un mazzetto di gelsomini donato all'autore

Candido fior, che le vermiglie rose
di pregio eccedi, anzi le gemme e l'oro,
tanto d'onor e cortesia tesoro,
chi di te mi fe' dono, in te ripose.
Te l'eccelse di lui doti famose
arricchir di splendor col lume loro;
per te la grazia sua, ch'in terra adoro,
qual suol, dolce e benigna, a me s'espose.
Tu in lui paterno amor, real natura
dichiari; e insegni a chi scettro possede,
e del mondo e del ciel la gloria cura.
E 'l tuo candor dimostra in chi ti diede
d'alto signor bontà candida e pura,
e in me di servo umil candida fede.

280

Al medesimo serenissimo principe manda alcuni frutti, e gli introduce a parlare

Di povero giardin frutto gentile,
quasi primizie a suo terrestre nume
ch'esserti care, tua mercé, presume,
a te m'invia divoto servo umìle.
Ch'a l'arbor, ond'io nacqui, anch'ei simìle
di tua grazia nodrito al chiaro lume,
produr a te mai sempre ebbe in costume
frutto, quanto in lui fu, largo e non vile.
E qual nel petto suo scolpito ei serba,
tal nel mio tronco, il tuo gradito nome,
ch'intorno fa gioir le piante e l'erba;
dove ancor cresce un verde lauro, come
sacro ad ornar, con sua pompa superba,
di tue virtù le gloriose chiome.

281

Già non t'incolpo, anzi ringrazio, Amore,
se m'ardi in questa età ch'al verno inclina;
ch'ad alma accesa di beltà divina
è gloria il sospirar, gioia il dolore.
Ma piango sol ch'a sì gentile ardore
Morte invece di vita il ciel destina,
poiché, quando al mio ben più s'avicina
la speme, è più da lei tradito il core.
Così talor di sfortunato legno
aura in vista seconda empie le vele,
dove fra scogli occulti ha fine indegno.
O pietoso sembiante, o cor crudele!
gradirmi in voce, in opra avermi a sdegno,
troppo a me scarsa, e troppo altrui fedele.

282

Viva serberò vivo, e morto ancora,
Amor, la fiamma del mio nobil foco
che l'alma eterna in sé per tempo o loco
cangiar non pò 'l desio che l'innamora.
Riman sempre il mio ardor d'ogni uso fora,
di rea fortuna invitto al crudo gioco;
anzi, l'offese sue curando poco,
vince se stesso in maggior vampa ognora.
Al tuo solo poter se n' va soggetto,
lieto che di tua dolce esca gradita
il suo incendio nodrir prendi a diletto.
Ch'è tua gloria il mio foco; e chi l'infiamma,
ricco e solo tesor de la mia vita,
o preziosa, inestinguibil fiamma.

283
Quanto più inanzi passa
questa mia frale vita,
e vo cangiando il pelo insieme e gli anni,
l'anima afflitta e lassa,
d'amor punta e ferita
sopportar più non puote i gravi affanni.
Anzi, de' propri danni
ministra e del suo male,
tenta quel bello e rio
volto porre in oblio
e la piaga saldar del fiero strale
discacciando dal petto,
s'esser può mai, il suo caro diletto.
Ben fora tempo omai,
lasso, che 'l crudo e fiero
amor pietate avesse al mio cordoglio;
ma dopo ch'a miei lai
contra l'esser primiero
ver me si mostra ognor pieno d'orgoglio,
diverrà 'l core scoglio
contra 'l suo strale aurato.
E benché, se nol nega
il cielo, al fin si piega
ogni aspro petto disdegnoso e ingrato,
lontan da questa spene
con altro fin vivrò l'ore serene.
Vatene dunque in pace
a' tuoi cari parenti;
torna col legno pur là dove brami;
né incontra te sia audace
lo mar, né irati i venti.
Noto ognor le tue vele in alto chiami
e, se ben tu non m'ami,
quanta pioggia e tempesta
pò minacciar il cielo
spieghi Giove il suo telo
in altro clima, e a te non sia molesta;
ma cada in larga copia,
te salva, sopra i liti d'Etiopia.
Deh, ch'io credea dolente
col suon del dolce canto
potersi umiliar quell'aspro core;
e che 'l rigor algente
che t'induriva tanto
si disfacesse al mio vivace ardore.
Ma ben il proprio errore
troppo tardo i' conosco;
se 'l cantar che benigno
far potea un cor ferrigno
ha lei conspersa d'odioso tosco.
O del ciel rio volere
ch'e petti umani fai pari a le fiere!
Muse, voi che sì spesso
me per vostra clemenza
salir degnaste al sacro monte in cima;
ahi che per voi concesso
non m'è la sua presenza,
né gli amanti giovar può alcuna rima;
più 'l mio cor voi non stima.
Dunque, o figlie di Giove,
il vostro santo nume,
poiché voglia e costume
ha cangiato il mio ben, volgete altrove;
perch'altro fine io bramo,
perduto quel ch'invan lusingo e chiamo.
Sommo Padre immortale
che 'l mio cor leggi aperto,
come questo umil dir da la radice
del cor profondo sale,
così, se ben nol merto,
fammi, Signor, di tua grazia felice;
sì che fuor d'infelice
e faticoso stato
con più dritto sentiero
segua il ben certo e vero
che rende ogni uom in terra e 'n ciel beato.
Fa, Creator pietoso,
ch'in te ritrovi il mio dolce riposo.
Ogni opra, ogni desio
che d'uman petto nasce
lunge da te, per me non stimo un'ombra.
Di te sol, nostro Iddio,
quest'anima si pasce,
se talor lei fame importuna ingombra.
Per te si spegne e sgombra
ogni pensier confuso
come disparir suole
nebbia dinanzi al sole;
e natura empia converti in dolce uso.
Dunque ciascun t'adori
e ti celebri infra i celesti cori.
Canzon, prega il Signor umilemente
ch'in me per grazia voglia
stabile far sì onesta ardente voglia.

 
 
 

D'inverno

Post n°1095 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

D'inverno

Sapessi si me scoccia, quanno piove.
Pe' dittelo, davero 'n ciò pparole.
Magara risplennesse sempre 'r sole
che porta 'n po' dde luce in ogni ddove.

Ce penzi a 'n ber tepore, quann'è 'nverno?
Cammini e t'accarezzeno li raggi,
'na cosa che pô ffà diventà ssaggi,
la vita pija tutta 'n bôn sapore.

Mó, toji 'r sole e metti le perzone;
la cosa nun è ppoi tanto diversa,
si pe' rasserenatte hai l'occasione.

Ciài freddo, ma quarcuno te consola
e ttu respiri 'na bell'aria tersa:
questo quarcuno è 'na persona sola.

Valerio Sampieri
20 gennaio 2015

 
 
 

Er dubbio

Post n°1094 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Er dubbio

Camminavo pe' strada e mme dicevo
che cce só' 'n giro 'n po' troppi fetenti,
ggente che tu je spaccheresti i denti.
Ner mentre che penzavo, me chiedevo

si puro 'sto bber tomo che io só
nun faccio parte de 'sti disgrazziati
o 'n mezzo stò a li pôri ciurcinati.
Me só gguardato e mme só ddetto: no!

È ffatto l'omo come l'animali,
che ppuro ar più mmijore viè la rogna,
come l'ucelli che nun cianno l'ali

e vojono volà, ma nu' lo fanno.
Ho principiato a rosicchiamme 'n' ogna ...
embè … famo passà puro 'n art'anno ...

Valerio Sampieri
20 gennaio 2015

 
 
 

Il Dittamondo (5-09)

Post n°1093 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO IX

Tripolitana segue, la qual fue 
nominata cosí da tre cittade, 
come Bisanzo consuona da due. 
La fama è chiara, per queste contrade, 
che la terra v’è tanto buona e pingua, 5 
che, per un, cento vi fruttan le biade. 
Questo paese par che si distingua 
di vèr levante con le maggior Sirti: 
e Barberia è detta in nostra lingua. 
Cosí andando, dissi a Solin: "Se dirti 10 
deggio il vero, tal son tra questi neri 
qual fu Enea tra gli dannati spirti". 
"Qui non si vuole tema né pensieri, 
disse ello a me; fa pur che gli occhi aguzzi 
a quel che sai che ti fa piú mestieri". 15 
Come di qua si veggon torme e gruzzi 
di buoi, di lá camelli; e come ancora 
oche fra noi, vi trovavamo struzzi. 
"A ciò che men t’incresca, disse allora 
la guida mia, l’andar, odi e figura 20 
e per asempro il prendi, quando è ora. 
Lo struzzo è pigro e però la natura 
gli ha fatto sotto l’ala uno sperone 
col qual si punge a cercar sua pastura. 
Di giugno, l’uova copre col sabbione; 25 
lo sol le cova e, nati, li nutrica 
col fiso sguardo ch’addosso lor pone. 
Tanto è caldo, che non li è piú fatica 
smaltire il ferro (e di ciò vidi prova) 
che ’l granel del formento a la formica. 30 
Né per cercar pastura o fuggir piova, 
tanto è grave, come gli altri uccelli 
per l’aire a volo non par che si mova". 
Dopo questo, mi disse de’ cammelli: 
"Cosí come li vedi scontrafatti, 35 
simile credi la natura d’elli. 
Dico, nel tempo ch’ad amor son tratti, 
che l’un con l’altro si congiunge insieme 
non come altri animali né in quelli atti. 
L’osso del dattalo è lor biada e seme 40 
ed è chi scrive che, per chieder troppo, 
li fun l’orecchie de la testa sceme". 
Cosí parlando, io gli andava doppo, 
ascoltando e notando le parole, 
facendo ad ogni sua novella il groppo. 45 
Ed el, che in ciò che può piacer mi vole, 
seguio: "Un animal, ch’è detto iena, 
li corpi umani dai sepolcri tole. 
Fra tutte le altre bestie, ha questa pena: 
che ’l collo non può torcer né piegare: 50 
d’un osso par, se l’altro corpo mena. 
De l’uom la voce sa sí contraffare, 
che alcuna volta il pastore inganna: 
a l’uscio picchia e ’l suo vicin li pare. 
Col cane ha guerra e, quando può, lo scanna; 55 
e piú che, sendo di notte cacciato, 
abbaia, latra e fugge ch’uom nol danna. 
Nel dolce tempo che a Venere è dato, 
truova la leonessa e con lei giace, 
secondo che da piú m’è giá contato. 60 
La iena pietra molto a l’occhio piace, 
però ch’a lui somiglia, e sappi bene 
che di nuovi color si cambia e face. 
Ancora è fama che questo addivene: 
che dice assai di quel che de’ avenire 65 
colui che sotto la lingua la tene. 
E quale udisse apertamente dire 
come per sua vertú tien l’animale, 
magica cosa parrebbe a udire". 
Dissemi, poi, quanto è crudo e mortale 70 
il leotofano e la sua propia forma 
e come col leon si vuol gran male. 
E, secondo che ’n Roma si conforma, 
Scevola Publio fu, per cui in prima 
si vide quivi e misesi in norma. 75 
"Un mostro ancora tra costor si stima 
corcotto è detto e vo’ che ti sovegna 
di notar lui, se gli altri metti in rima. 
Questo come uomo di parlar s’ingegna: 
non ha gengie dentro a la sua bocca 80 
e solo un dente par che ’n essa tegna". 
E cosí ragionando, ancor mi tocca 
di un altro animal, che noma onagro, 
quanto la sua natura è fredda e sciocca. 
Per quel cammin, ch’era solingo e agro, 85 
ci apparve, ragionando com’io dico, 
in abito di frate un vecchio e magro. 
"Dio vi dia pace", disse quello antico. 
E Solin li rispuose: "E te conduca 
lá, dove chiama ogni suo buon amico". 90 
Ed ello a noi: "Se tanta grazia luca 
in voi, quant’è ’l disio, fatemi saggio 
del cammin vostro e onde move e bruca". 
E la mia guida: "Il nostro viaggio 
è di cercar lo mondo a passo a passo: 95 
costui, ch’è meco, il vuole e io nel traggio. 
Ma voi chi siete, che mostrate lasso 
e che avete loquela italiana, 
e che vi mosse a far di qua trapasso?" 
"Una cittá, rispuose, è in Toscana 100 
di sopra l’Arno, Fiorenza si dice; 
se dite ‘sí’ ben so che non v’è strana. 
Giovanetto era, quando a quel felice 
e beato Domenico mi diedi; 
l’abito presi, ch’è la sua radice. 
In vèr Ierusalem poi mossi i piedi; 
apresso questo, in Arabia discesi 
dove di Caterina il corpo credi. 
L’arabico linguaggio quivi appresi; 
la legge Alcoran di Macometto 110 
di punto in punto per latin distesi.
Poi di qua venni e Ricoldo m’è detto".
 
 
 

Rime di Celio Magno (264-275)

Post n°1092 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

264

A Isabella reina d'Inghilterra nella sua coronazione

Scende in te pur dal ciel nova Minerva,
Anglia felice, e 'l tuo bel scettro adorna.
Per lei l'età de l'oro in te ritorna,
e stil cangia tua sorte empia e proterva.

L'amata libertà, ch'afflitta e serva
piangesti un tempo, al fin cinta ed adorna
di sacra oliva in te lieta soggiorna,
per lei, ch'ad alta speme ancor ti serva.

Mira come nel seggio ov'ella splende
da la fronte serena un raggio move,
ch'a vera gloria ogni cor freddo accende.

Mira com'apre a le sorelle nove
suo real manto, e tal se stessa rende
che ben figlia pò dirsi al sommo Giove.

265

2

Ecco bramato sol ch'in Occidente
del brittannico mar sorge a noi fuore
e comparte al suo ciel grazia e favore
tal ch'invidia ne porge a l'Oriente.

O ricco lido, o fortunata gente,
soggetti a la virtù del suo splendore;
quando v'addusse mai più felici ore
altro sol più di lui chiaro e lucente?

Ecco tessono a lui, sorti de l'onde,
Arno, Tebro ed Ilisso ampia corona
de' più ben culti fior de le sue sponde.

Ecco, mentre di voci alte e gioconde
ogni monte, ogni valle, ogni antro suona
- Isabella! -, - Isabella! - Eco risponde.

266

Vera di Carlo, anzi, di Giove figlia,
ché novo Ercole invitto in gonna sembri,
poiché 'l vanto di Lerna a noi rimembri
con prova di valor che 'l suo simiglia.

Tu mentre d'infettar più speme piglia
d'eretico veleno i nostri membri,
l'Idra infernal, sue teste incidi e smembri
schernendo quanto invan tenta e consiglia.

Tronco uno, altri due capi uscian repente,
e scemando crescea l'orribil mostro,
fatto del perder suo ricco e possente.

Vinto al fin con tua gloria e scampo nostro
nel foco ei fu di tua virtute ardente;
e ne gioì la terra e 'l sommo chiostro.

267

[A Francesco Corner]

Nova gloria di fiumi, antico Sile,
tu, che di tanti e tanti
secoli corsi hai le memorie innanti:
sì s'al Cornaro mai pastor simìle
ne l'opre degne e ne' costumi santi
con più felice legge
resse questo di Cristo amato gregge;
dì come per tal vanto i fiori e l'onde
invidi il Tebro a le tue ricche sponde;
e dì se i giorni tuoi più lieti foro
in quella dolce prima età dell'oro.

268

Alla reverenda madre Maria Grazia Miani abadessa di San Serudo

Spirto eletto da Dio, nobil pastora
d'angelico suo gregge in sacro chiostro;
chiaro sol di virtute al secol nostro
che di [ ] ben l'alme innamora;

mentre tanto da voi s'alza ed onora
il basso mio, ma fortunato, inchiostro,
e porger degna il puro affetto vostro
al ciel suoi prieghi in mia salute ognora;

ardor sol di virtù, pietoso zelo
ver me mostrando, al nome vostro e mio
vera gloria acquistate in terra e 'n cielo.

Che voi per sì gentil santo desio
più divina splendete in mortal velo,
e me fate più caro al mondo e a Dio.

269

Degna ancella di Dio, spirito ardente
in servir lui con puro e santo zelo
ch'ad ogni altro desio fatta di gelo
sol drizzi al suo voler l'opre e la mente.

Chi 'l volto mira e le parole sente
tra lo splendor del tuo sacrato velo,
ti crede angiola a noi scesa dal cielo
per farci d'ogni ben ricche e contente.

Bontà, senno, valor, bellezza e quante
doti in donna più 'l mondo onori ed ami,
t'adornan sì che quasi un sol risplendi;

Felicita a ragion dunque ti chiami,
poiché di tai virtù, di grazie tante,
te stessa, e noi per te, felici rendi.

270

All'illustrissimo signor procurator e cavalier Foscari, signor Colendissimo

Chiesi al cielo il tuo scampo in così ardenti
prieghi dal grave morbo ond'eri oppresso,
ch'impetrai grazia; e del suo don concesso
nunzio a te furo i miei divoti accenti.

Premea già tutti i cor mesti e dolenti
nel tuo periglio il commun danno espresso;
e regnavan per te, lungi e da presso,
gran tema, alta pietà, giusti lamenti.

Or lieto ognun respira al suon giocondo
di tua salute; e grazie a Dio son porte
piene d'affetto umìl del cor profondo.

O felici miei voti, o rara sorte:
dar di cotanto ben presagio al mondo
e tor sì degna e nobil vita a morte.

271

Alli clarissimi signori il signor Giovanni Michiel cavalier procurator ed il signor Giovanni Griti, destinati procuratori alla Corte Cesarea

Quelle ch'intenerir posson col canto
i cor più duri e di pietà nemici,
sacre Muse, già dolci a voi nodrici
ch'or di vostre virtù si pregian tanto;

deh m'impetrin mercé sotto il lor manto
da voi nate a la gloria, alme felici!
Ché l'ira ha in cor gentil corte radici
e di clemenzia è più ch'umano il vanto.

Peccai dolente del peccar; ma dura
necessità la propria voglia spinse
a schifar quel che m'era alta ventura.

E ben contra ragion forza mi vinse:
ché me per voi servir formò natura,
e via più ch'a me stesso a voi mi strinse.

272

Al clarissimo messer Tomà Mocenigo

Poich'a quel fonte, ove 'l tuo dolce pegno
fatto mondo per grazia in Dio rinacque,
Signor, nol tenni; almen tra le sacr'acque
del bel Parnasso a celebrarlo io vegno.

Febo m'inspira: io canto. Or qual più degno
parto a bear l'alta sua patria nacque?
in qual ripor al ciel più speme piacque
di bontà, di saper, d'opra e d'ingegno?

Cresci a l'almo splendor de' tuoi grand'avi,
felice germe, e le lor glorie avanza
nato a frutti d'onor rari e soavi.

E mentre qui farai lunga tardanza,
perché 'l mondo ne goda, al ciel non gravi
ch'al fin poi seco avrai perpetua stanza.

273

All'illustrissimo signor Giacomo Foscarini, cavalier e procurator

Già gran tempo, signor, fosti dal chiaro
publico grido a l'alto grado eletto,
ch'in novo segno de l'antico affetto
da larga inan ti vien sì dolce e caro.

Amor ver la tua patria ardente e raro
prender in travagliar per lei diletto
espor più volte a morte il franco petto
sol per giovarle a tal gloria t'alzaro.

Quinci ogni cor gioisce, e mentre esprime
le tue lodi e 'l suo gaudio, ond'è ripieno,
fa che più 'l grado appar degno e sublime.

Ma questo, e seco ogni altro onor, tien meno
di tua virtute; e dritto è ben che stime
scarso a merto divin premio terreno.

274

All'illustrissimo signor Leonardo Donato, cavalier e procurator

Qual si gloria giardin di nobil pianta
ch'oltra ogni stil feconda i rami stende,
tal del tuo gran valor, ch'in lei risplende,
la tua patria, signor, si pregia e vanta.

Chi con mente fra noi più saggia e santa
più vigil Argo al ben commune intende?
Chi con più dolce dir l'anime prende,
sgombro ogni falso error che 'l vero ammanta?

Quinci Venezia te dal cielo appella,
Donato, dono e grazia altera e rara,
più che mai per te fatta adorna e bella.

Ch'ogni opra, ogni pensier ben ti dichiara
suo degno figlio e padre; e sol quant'ella
frutto ne coglie, a te la vita è cara.

275

Nettuno al clarissimo signor Giacomo Soranzo, cavalier e procurator

Scorsi del Trace il marzial ridutto
che sul mio lido a vostro mal construsse,
qual se, tocco da Giove irato, fusse
già dal tuo fulminar vinto e distrutto.

Scorsi produr di gloria eterno frutto
il chiaro alto valor ch'in te rilusse
quando a battaglia uscir primo t'indusse
con l'oste che copria di legni il flutto.

Queste a te mostrin dunque interne parti
del gregge [mio, ch'ei qual] tuoi pregi intenda
le sue viscere e 'l cor convien donarti.

E presagio ti sia ch'ove tu splenda
nel manto, a cui dal ciel sento chiamarti,
a te tributo il mio mar d'Adria renda.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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