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Messaggi del 07/03/2015

La Secchia Rapita 08-2

Post n°1329 pubblicato il 07 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        34
A questa Apollo già fe' privilegi
che rimanesse incontro al tempo intatta,
e che la fama sua con vari fregi
eterna fosse in mille carmi fatta:
onde i sepolcri de' superbi regi
vince di gloria un'insepolta gatta.
Ugon su l'armi e ne la sopraveste
un pardo d'oro e 'l campo avea celeste.

        35
La squadra di Vicenza ultima guida
Naimiero Gualdi, a la sembianza fuore
amico d'Ezzelin che se ne fida,
ma non risponde a la sembianza il core.
Quel campo non avea scorta piú fida,
d'ogni bellica frode era inventore;
ma facea 'l goffo, e si tenea col Papa,
e ne la finta insegna avea una rapa.

        36
Egli era un uom d'anni cinquantadui,
dotto e faceto e con le guance asciutte,
solito sempre a dar la baia altrui,
ché sapea tutti i motti di Margutte.
Gran turba di villani avea con lui
con occhi stralunati e ciere brutte,
ch'armati di balestre e ronche e scale
nati a posta parean per far del male.

        37
Valmarana, Arcugnan, Pilla e Fimone,
Sacco e Spianzana guida; ove le chiome
de la Betia cantò su 'l Bachiglione
Begotto e 'l volto e l'acerbette pome,
e dove la sampogna di Menone
fe' risonar de la Tietta il nome;
e Montecchio e la Gualda, Olmo e Cornetto,
e trenta ville e piú di quel distretto.

        38
Dopo l'ultime squadre il cavaliero
che dovea comandar, solo veniva
sovra un baio corsier macchiato a nero,
con armi di color di fiamma viva;
ondeggiava su l'elmo il gran cimiero,
pompeggiando il caval se stesso giva,
e avea dietro e dinanzi e d'ambo i lati
Greci per guardia e Saracini armati.

        39
Mentre s'armano questi a la vendetta
del famoso figliol di Federico,
l'un campo e l'altro su 'l Panaro aspetta
che stanco si ritiri il suo nemico.
Quinci e quindi si veglia; e a la vedetta
stanno continue guardie a l'uso antico
con archi e balestroni a canto a gli argini
che scopano del fiume i nudi margini.

        40
L'architetto maggior mastro Pasquino
fe' molte botti empier di maccheroni,
altre di biscottelli, altre di vino,
e ne formò ripari e bastioni;
onde i soldati sempre a capo chino
stavano a custodir le guarnigioni,
fin ch'a trattar del fin de le contese
furon per dieci dí l'armi sospese.

        41
Ed ecco comparir due ambasciatori,
l'un con la veste lunga e incappucciato,
e l'altro in su le grazie e in su gli amori
con la spada e 'l pugnal tutto attillato:
il primo è del Collegio e de' Signori,
e 'l dottor Marescotti è nominato;
il secondo di Rodi è cavaliero,
di Casa Barzellin, detto frà Piero.

        42
Questi venían per ritentar se v'era
partito alcun di racquistar la Secchia,
avendo udito già per cosa vera
che 'l Tiranno Ezzelin l'armi apparecchia.
Furo onorati e si fermâr la sera,
né trattar piú de la proposta vecchia;
ma di cambiar la Secchia in que' baroni,
eccetto il Re, ch'essi tenean prigioni.

        43
Il Potta, che 'l disegno a' cenni intese,
rispose lor ch'era miglior riguardo
finir tutte le liti e le contese,
e barattar la Secchia col Re sardo,
e 'l Duca di Cremona e 'l Gorzanese
col signor di Faenza e con Ricciardo:
e in questo si mostrò sí risoluto,
che d'ogn'altro parlar fece rifiuto.

        44
Gli ambasciatori, a' quali era prescritto
quanto dovean trattar, spediro un messo,
ch'andò dal campo a la città diritto
a ragguagliarne il Reggimento stesso:
e in tanto il figlio di Rangone invitto
e 'l buon Manfredi, a cui fu ciò commesso,
condussero a veder le lor trinciere
gli ambasciatori, e l'ordinate schiere.

        45
Menârgli a spasso poi dove alloggiate
Renoppia le sue donne avea in disparte,
non quelle tutte, che con lei passate
erano pria, ma la piú nobil parte.
Stavano a' lor ricami intente armate
imitando Minerva in ogni parte:
ma lasciar gli aghi e fêr venir in tanto
il cieco Scarpinel con l'arpa e 'l canto.

        46
Questi in diverse lingue era eloquente,
e sapeva in ciascuna a l'improviso
compor versi e cantar sí dolcemente,
ch'avrebbe un cor di Faraon conquiso.
L'arpa al canto accordò subitamente;
e poiché fu d'intorno ogn'un assiso,
col moto de la man ceffi alternando
incominciò cosí tenoreggiando.

        47
- Dormiva Endimion tra l'erbe e i fiori
stanco dal faticar del lungo giorno,
e mentre l'aura e 'l ciel gli estivi ardori
gli gían temprando e amoreggiando intorno,
quivi discesi i pargoletti Amori
gli avean discinta la faretra e 'l corno,
ch'a i chiusi lumi e a lo splendor del viso
fu loro di veder Cupído aviso.

        48
Sventolando il bel crine a l'aura sciolto
ricadea su le guancie in nembo d'oro;
v'accorrean gli Amoretti, e dal bel volto
quinci e quindi il partían con le man loro;
e de' fiori onde intorno avean raccolto
pieno il grembo, tessean vago lavoro,
a la fronte ghirlanda, al piè gentile
e a le braccia catene, e al sen monile.

        49
E talor pareggiando a l'amorosa
bocca o peonia o anemone vermiglio,
e a la pulita guancia o giglio o rosa,
la peonia perdea, la rosa e 'l giglio.
Taceano il vento e l'onda, e da l'erbosa
piaggia non si sentía mover bisbiglio;
l'aria e l'acqua e la terra in varie forme
parean tacendo dire: «Ecco, Amor dorme».

        50
Qual ne' celesti campi, ove il gran toro
s'infiamma a i rai di luminose stelle,
sogliono sfavillar con chioma d'oro
le figliole d'Atlante, alme sorelle;
ch'a la maggiore e piú gentil di loro
brillando intorno stan l'altre men belle:
tal in mezzo agli Amori Endimione
parea tra l'erbe e i fior de la stagione.

        51
Quando la bella Dea del primo cielo
tutta cinta de' rai del morto sole,
a la scena del mondo aprendo il velo
le campagne mirò tacite e sole;
e sparsa la rugiada e scosso il gielo
dal lembo sovra l'erbe e le viole,
a caso il guardo in quella piaggia stese,
e vaga di veder dal ciel discese.

        52
Sparvero i pargoletti a l'apparire
de la Dea spaventati; ed ella, quando
vide il giovane sol quivi dormire,
ritenne il passo e si fermò guardando.
L'onestà virginal frenò l'ardire:
e ne gli atti sospesa e vergognando,
avea già per tornare il piè rivolto;
ma richiamata fu da quel bel volto.

        53
Sentí per gli occhi al cor passarsi un foco
che d'un dolce desio l'alma conquise:
givasi avicinando a poco a poco,
tanto ch'al fianco del garzon s'assise;
e di que' vaghi fior, ch'avean per gioco
gli Amoretti intrecciati in mille guise,
s'incoronò la fronte e adornò il seno,
che tutti fur per lei fiamma e veleno.

        54
Trassero i fior la man, la mano i baci
a le guance, a le labbra, a gli occhi, al petto,
che s'impresser sí vivi e sí tenaci,
che si destò smarrito il giovinetto.
Al folgorar de le divine faci
tutto tremò di riverente affetto;
e ad atterrarsi già ratto surgea,
s'ella non l'abbracciava e nol tenea.

        55
Anima bella, disse, e dormigliosa,
che paventi? che miri? I' son la Luna
ch'a dormir teco in questa piaggia erbosa
amor, necessità guida e fortuna.
Tu non ti conturbar, siedi e riposa;
e nel silenzio de la notte bruna
pensa occultar l'ardor ch'io ti rivelo,
o d'isperimentar l'ira del cielo.

        56
O pupilla del mondo, in cui la face
del sol s'impronta, pastorello indegno
son io, disse il garzon: ma se ti piace
trarmi per grazia fuor del mortal segno,
vivi sicura di mia fé verace;
e questo bianco vel te ne sia pegno,
ch'a mia madre Calice Etlio già diede
mio padre, in segno anch'ei de la sua fede.

        57
Cosí dicendo, un vel candido schietto,
che di gigli di perle era fregiato,
e 'l tergo in un gli circondava e 'l petto
giú da la spalla destra al manco lato,
porse in dono a la Dea, ch'ogni rispetto
già spinto avea del cor tutto infiammato,
e come fior che langue allor ch'aggiaccia
si lasciava cader ne le sue braccia.

        58
Vite cosí non tien legato e stretto
l'infecondo marito olmo ramoso,
né con sí forte e sí tenace affetto
strigne l'edera torta il pino ombroso;
come strigneansi l'uno a l'altro petto
gli amanti accesi di desio amoroso:
saettavan le lingue in tanto il core
di dolci punte, che temprava Amore.

        59
Cosí mentre vezzosi atti e parole
guardi, baci, sospiri e abbracciamenti
facean dolcezze inusitate e sole
a gli amanti gustar lieti e contenti;
levò la diva l'uno e l'altro sole,
accusando le stelle e gli elementi,
poiché con tanti e con sí lunghi errori
seguite avea le fiere e non gli amori.

        60
Misera me, dicea, quant'error presi
quel dí ch'io presi l'arco e 'l bosco entrai!
quant'anni poscia ho consumati e spesi,
che di ricoverar non spero mai!
o passi erranti e vani e male intesi,
come al vento vi sparsi e vi gettai!
quant'era meglio questi frutti corre,
ch'a rischio il piè dietro a le belve porre!

        61
Or conosco il mio fallo, e farne ammenda
vorrei poter; ma il ciel non me 'l consente:
restami sol che del futuro i' prenda
pensier, di cui mai piú non sia dolente.
Però l'aria, la terra e 'l mare intenda
quel che di terminar già fisso ho in mente,
e la legge, ch'io fo, duri col sole
sovra me stessa e la femminea prole.

        62
Io stabilisco che non copra il cielo,
ch'io governo, mai piú femmina bella
(eccetto alcune poche ch'io mi celo
che fien di me maggiori e d'ogni stella),
che sopporti con casto e puro zelo
finir la vita sua d'amor ribella,
e che stia intatta di sí dolce affetto,
se non mentitamente o al suo dispetto. -

        63
Volea l'orbo seguir, come dolente
tornò la diva a la sua bella sfera:
se non che lo mirò di sdegno ardente
Renoppia, e in voce minacciosa e altera,
- Accecato de gli occhi e de la mente,
brutta effigie, gli disse, anima nera,
va', canta a le puttane infame e sciocche
queste tue vergognose filastrocche.

        64
E se vuoi ch'io t'ascolti e che il tuo canto
ritrovi adito piú per queste porte,
cantami di Zenobia il pregio e 'l vanto
o di Lucrezia l'onorata morte. -
Il cieco allor stette sospeso alquanto;
poscia in tuono di guerra assai piú forte
l'amor di Sesto e gli empii spirti ardenti
incominciò a cantar con questi accenti:

        65
- Il Re superbo de' romani eroi
a la regia di Turno il campo avea,
e con fanti e cavalli e servi e buoi
di trinciere e di fosse ei la cingea.
Eran con lui tutti i figlioli suoi:
e quivi si mangiava e si bevea
con gusto tal, che 'l dí di san Martino
bebbero in sette un carratel di vino.

        66
Finito il vin, nacque fra lor contesa
chi avesse moglie piú pudica a lato:
e perch'ognun volea per la difesa
combatter de la sua ne lo steccato,
per diffinir la strana lite accesa,
di consenso commun fu terminato
di montar su le poste allora allora,
e andarsene a chiarir senza dimora.

        67
Non s'usavano allor staffe né selle:
e quei signor con tanto vino in testa
correndo a lume di minute stelle,
ebbero a rimaner per la foresta.
Chi perdé il valigino e le pianelle,
chi stracciò per le fratte la pretesta,
chi rese il vino per diversi spilli,
e chi arrivò facendo billi billi.

        68
Era con lor Tarquino Collatino
che la moglie Lucrezia avea a Collazia:
ei non era fratel, ma consobrino
e lor parente di cognome e grazia.
Tutti in corte smontâr su 'l Palatino
e le mogli trovâr, per lor disgrazia,
che foco in culo avean piú ch'un Lucifero
e stavano ballando a suon di piffero.

        69
Fecero una moresca a mostaccioni
la piú gentil che mai s'udisse in corte;
e trovate al camin starne e capponi,
verso Collazia ne portâr due sporte.
giunti colà, di spranghe e di stangoni
d'ogni parte trovar chiuse le porte;
e bussaron piú volte a l'aer bruno,
prima che desse lor risposta alcuno.

        70
Una schiavetta al fine in capo a un'ora
affacciatasi a certe balestriere,
e spinto un muso di lucerta fuora,
disse: Chi bussa là? Non c'è messere.
C'è pur, rispose il Collatino allora,
venite a basso e vel farem vedere.
Riconobbero i servi a quelle voci
il padrone, e ad aprir corser veloci.

        71
Lucrezia venne in sala ad incontrarlo
con la conocchia senza servidori;
tutta lieta venía per abbracciarlo,
ma vedendo con lui tanti signori,
trasse il pennecchio, ché volea occultarlo,
e dipinse il bel volto in que' colori
ch'abbelliscon la rosa, e fe' chiamare
le donne sue che stavano a filare.

        72
Di consenso comun la regia prole
diede il vanto a costei di pudicizia.
Dormiron quivi, e a lo spuntar del sole
ritornarono al campo e a la milizia.
Ma la bella sembianza e le parole
rimasero nel cor pien di nequizia
del fiero Sesto, un de' fratelli regi,
e le caste maniere e gli atti egregi.

        73
Onde il dí quinto ripassando il monte
tornò a Collazia sol, là dov'ella era;
e giunto a l'imbrunir de l'orizonte,
disse ch'ivi alloggiar volea la sera.
La bella donna, non pensando a l'onte
ch'ei preparava, gli fe' lieta ciera;
la notte il traditor saltò del letto,
e a la camera sua corse in farsetto.

        74
E la porta gittò mezzo spezzata,
entrando col pugnal ne la man destra:
quivi una vecchia, che dormía corcata
in un letto di vinco e di ginestra,
incominciò a gridar da spiritata,
ond'ei la fe' balzar per la finestra;
ed a Lucrezia che facea schiamazzo
disse: Mettiti giuso, o ch'io t'ammazzo.

        75
A questo dir chinò Renoppia bella
prestamente la man con leggiadria,
e si trasse di piede una pianella;
ma l'orbo fu avvisato, e fuggí via.
S'alzaron que' signor ridendo, ed ella
gli ringraziò di tanta cortesia,
e con maniera signorile e accorta
gli andò ad accompagnar fino a la porta.

 
 
 

Er gatto avvocato

Post n°1328 pubblicato il 07 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Er gatto avvocato

La cosa annò così. La Tartaruga,
mentre cercava un posto più sicuro
pe' magnasse una foja de lattuga,
j'amancò un piede e cascò giù dar muro:
e, quer ch'è peggio, ne la scivolata
rimase co' la casa arivortata.

Allora chiese ajuto a la Cagnola;
dice: — Se me rimetti in posizzione
t'arigalo, in compenso, una braciola
che ciò riposta a casa der padrone.
Accetti? — Accetto. — E quella, in bona fede,
co' du' zampate l'arimise in piede.

Poi chiese: — E la braciola? — Dice: — Quale?
— Ah! — dice — mó te butti a Santa Nega!
T'ammascheri da tonta! E naturale!
Ma c'è bona giustizzia che te frega!
Mó chiamo er Gatto, j'aricconto tutto,
e te levo la sete cór preciutto! —

Er Gatto, che faceva l'avvocato,
intese er fatto e j'arispose: — Penso
che è un tasto un pochettino delicato
perché c'è la questione der compenso:
e in certi casi, come dice Orazzio,
promissio boni viri est obbligazzio.

Ma prima ch'io decida è necessario
che la bestia medesima sia messa
co' la casa vortata a l'incontrario
finché nun riconferma la promessa,
pe' stabbili s'è un metodo ch'addopra
solo quanno se trova sottosopra. —

Così fu fatto. Er Micio disse: — Spero
che la braciola veramente esista... —
La Tartaruga je rispose: — È vero!
Sta accosto a la gratticola... L'ho vista.
— Va bene, — disse er Gatto — nu' ne dubbito:
mó faccio un soprallogo e torno subbito. —

E ritornò, defatti, verso sera.
— Avemo vinto! — disse a la criente.
Dice: — Da vero? E la braciola? — C'era...
ma m'è rimasto l'osso solamente
perché la carne l'ho finita adesso
pe' sostené le spese der processo

Trilussa

 
 
 

Il Meo Patacca 11-3

Post n°1327 pubblicato il 07 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Il sesto non è gonzo, e puro lui,
De razzo se ne viè con gran carriera;
E ancor nisciuno dei compagni sui
Cavalcà così ben visto non s'era.
Ma poi, come nel farlo habbia costui,
Così aggiustata e nobbile maniera,
Se chalch'un vuò sapè, glie lo dich'io:
Un scozzona cavalli era su' zio.

Fava ancor lui di più quest'essercizio,
E fatigava alla cavallerizza,
Ma fatto poi gl'haveva un gran servizio,
El vedè spesso là curre alla lizza.
E tra 'sta cosa, e tra che havea giudizio,
Viè lesto lesto, e la su' lancia addrizza,
Sul grugno al Saracin pianta una botta,
E in cento pezzi va la lancia rotta.

In vedè con un modo sì gentile,
Fatto, dal bravo sgherro, un colpo tale,
Con la gente plebea, la signorile
Te gli fece un apprauso univerzale.
Il settimo tener vorria lo stile
Di questo, ma in saper gl'è disuguale;
Pur si sforza a imitarlo, e glie ne cresce
La voglia, ma però non gli riesce.

Procura a forza di spiron battuto,
Ch'il su' cavallo ancor venga fugato,
Lo tormenta alla peggio, e fa 'l saputo,
E mai di cavalcà non ha imparato.
Ma l'animal, ch'a zompi era venuto,
In vederzi al pupazzo avvicinato,
E s'adombra, e s'impenna, e tanto s'alza,
Che lo sgherro da sella in aria sbalza.

Strilli, fischiate, e sbeffature a iosa
Co' 'no strepito granne si sentirno,
A 'na cascata sì pericolosa
Risero tutti, e non la compatirno.
Ma non è maraviglia, che 'sta cosa
È antica usanza, e spesso si sentirno
Fatte senza pietà grasse risate,
D'altri all'inciampamenti, o scivolate.

Ma fu uno sbalzo, e non inciampatura,
Questo del nostro sgherro, e pur cascanno,
Fece senza smarrirzi una bravura,
Che fatta non l'havrìa manco un Orlanno.
Tenne forte la lancia, et a drittura
Sempre di quel pupazzo, e giusto quanno
Stava pe' toccà terra, al Saracino
La tira, e pur lo viè a toccà un tantino.

Piacque assai 'sto ripiego, e fu sentito
El biasimo mutarzi in bella lode;
Lo sgherro s'arrizzò, benchè indolito,
Assai lesto, e la rabbia il cor gli rode;
Si vergogna, ma in esser appraudito
Ripiglia fiato, s'anima e ce gode;
Ma dà al cavallo, che dal loco scanza,
Sbrigliate al grugno, e calci in te la panza.

L'ottavo a fè, ch'è un giovane de pezza,
Scrimotor, che insinenta da regazzo
Più sorti d'armi a maneggià s'avvezza,
E giusto MEO te lo capò in tel mazzo,
Butta in aria la lancia, e con lestezza
Currenno la ripiglia, et al pupazzo
Urta con un bel garbo e maestrìa
Nel gran turbante, e glie lo sbalza via.

O questo sì, ch'è un colpo da mastrone!
Quì sì, di lodi un mormorio si spanne,
Et in vedè quel brutto mascarone
Col capo ignudo, un gusto c'è assai granne.
Hor mentre se n'annava ruzzicone
Quel turchesco cimiero, da più banne
Ci currono birbanti, e chi l'acchiappa,
Chi l'arrobba al compagno, e chi lo strappa.

Serve pur questo al popolo di svario,
Che sempre de 'ste buglie ha desiderio:
Ma al comparì del giostrator primario
Fornisce il chiasso de 'sto rubbisterio.
Ecco PATACCA, e 'l giro fa al contrario,
Che viè verzo man ritta adascio e serio,
E volta, quasi che giostrà gli spiaccia,
Le spalle al Saracino, e no la faccia.

Se ne và passo passo, e non abbada,
Che te l'osserva ognun con maraviglia;
Par che via dal teatro se ne vada,
E voglia abbandonà la su' squadriglia;
Ma del cerchio arrivato a mezza strada,
Si volta all'improviso, e 'l corzo piglia,
Dà un colpo al Saracin, stimato assai,
Colpo ch'in giostra non fu visto mai.

La gente istessa, ch'è in 'ste cose istrutta,
Forzi che non faria sì bella botta.
Lo coglie in fronte con la forza tutta,
Che in quell'atto in tel braccio era ridotta;
El bamboccio de fatto in terra butta,
E 'l Popolo in un riso allora sbotta;
Un prauso fa, che da per tutto arriva,
Nè di grida si sazia: "Eh viva! Eh viva!".

Ma quel che poi sopra ogni cosa piacque
Fù, che del Saracin giusto in tel loco,
Come da un fonte in sù schizzano l'acque,
Così va in aria un turbine di foco.
Per lo stupore, attonito ognun tacque,
Vedenno all'improviso un sì bel gioco,
Senza sapè come il bamboccio caschi,
Come dalla cascata il foco naschi.

Prima che 'sta faccenna incominzasse,
E la gente in teatro si mettesse,
Volze PATACCA che si congegnasse
L'ordegno, pe' fa' poi quel che successe.
Ordinò che un cert'homo si colcasse,
E dreto al Saracin si nascondesse,
Et allor ch'a colpillo lui venisse,
Che lo facesse giù cascà gli disse.

Sotto al perno aggiustà fece una fossa,
Ma però in tempo, che nisciun c'avverta,
E questa da una tavola ben grossa
E ben fortificata, era cuperta.
In loco poi di quella terra smossa,
C'erano i razzi, e stava l'homo all'erta,
Pe' leva della tavola l'impiccio,
Foco giù dando con acceso miccio.

Tutto a tempo si fece, e fu l'istesso
Il cascà del pupazzo e 'l foco alzarsi,
E tanta grolia n'hebbe MEO, che spesso
Sentì 'l su' nome attorno celebrarzi;
Fu 'l vanto sopra tutti a lui concesso,
Per haver fatto quanto mai pò farzi
Da un bravo giostrator, e il dar nel segno,
Del caso opra non fu, ma dell'ingegno.

Più volte scola havè dall'intennente
Amico scrimitor, che del pupazzo
Nel turbante azzeccò segretamente
Drento un giardino granne d'un palazzo.
Perch'era dal Tarpèo non differente.
Lì s'aggiustorno un sito in uno stazzo,
Dove, portato il Saracino istesso,
La prova di colpì fecero spesso.

Studiò l'uno nel colpo del turbante,
L'altro in quel della fronte, e non invano,
E tante volte ci provorno e tante,
Fin ch'aggiustà ci seppero la mano.
MEO, perch'è troppo della grolia amante,
E incrapicciato del valor Romano,
Volze per sè l'ultimo colpo, e quello,
Che ben s'accorze lui ch'era il più bello.

Così fu suo l'onor, e così ottenne
El viva universal, che se gli dette
Da i giudici, e così dato gli venne
El nobil premio delle due terzette:
Ricevute, che l'hebbe, in man le tenne,
Giranno pel teatro se n'annette;
Guardò più donne, e dimostrò in guardalle,
Che cercava coll'occhio a chi donalle.

Poi, stabbilito il suo penzier, si spicca,
E và in tel mezzo, ma nisciun ci azzecca
A indovinà se dove annà gli cricca,
O da chalche signora, o chalche cecca.
C'è più d'uno, che innanzi allor si ficca,
Pe' veder tutto, et il cervel si becca,
Pe' saper dove va; ma tutte dua,
Lui donò le terzette a Nuccia sua.

Stava costei, ma queta come l'oglio,
Con altre donne in sopra al piedestallo,
Che regge in mezzo giusto al Campidoglio,
Di bronzo il famosissimo cavallo;
Si trovò nel salirci in chalche imbroglio,
Che pe' disgrazia messe un piede in fallo
Su 'na scala a piroli, e dette un crollo,
Che poteva in cascà romperzi el collo.

Fu a caso da Calfurnia sostenuta,
Et alla ciospa 'st'incontranza piace,
Che mentre Nuccia volontier ajuta,
Spera, come poi fu, di farci pace.
A posta fatta era costei venuta,
Et essenno di spirito vivace
'Sta vecchia cucca, seppe haver la spia,
Che capitata lì Nuccia saria.

Venne lei con penziero di far tanto,
Sin che gli riusciva in su quel sasso
Di piantarzi a sedène, a Nuccia accanto,
Però stava aspettannola giù abbasso;
Voleva strufinargliese sintanto,
Che gli tornava amica, e dello spasso
Assai più questo, e con raggion, glie preme,
Che di Nuccia el furor sempre più teme.

Mai però creso non se lo saria,
Che havesse a favorilla st'accidente,
E che tal congiontura se glie dia,
Di ritrovarzi a tempo lì presente,
Che più di Tutia, ch'era in compagnia
Di Nuccia, fusse stata in quel frangente
A soccorrerla pronta; e pur fu vero,
Ch'ottenè più di quel, ch'hebbe in penziero.

Dubbitò Nuccia assai, che non piacesse
A MEO PATACCA, che là su lei stasse
Arrampicata, e in compagnia sedesse
Di donnicciole e di perzone basse;
E solo acciò che lui non la vedesse,
E de 'sta cosa poi non glie gridasse,
Zitta e mezza nascosta a star s'indusse,
Perchè, o intesa, o da lui vista non fusse.

Ma già PATACCA, che non è un tarullo,
Allampata l'haveva, e la fintiva
Di non haverla vista, è un su' trastullo.
Però da Nuccia alla sfilata arriva,
Glie sporge le terzette, e lei 'no sgrullo
Fece allor con la vita, e non ardiva
D'accettà il dono, et alla fin, pian piano
Stese, ma prima si baciò, la mano.

Lui disse allora: "Queste non son cose,
Che pozzino alle femmine piacere,
Che per loro son armi spaventose,
E chalch'una nè men le vuò vedere,
Ma così porta el caso". - E lei rispose:
"Io signor MEO, l'accetto volontiere.
Per me fanno, e direte forzi un dì
Ch'hebbi raggione di parlar così".

Gode intanto vedenno che disgusto
Non hebbe MEO, che preso havea quel posto;
E 'l bel regalo si pigliò con gusto,
Nè là su stette allor più di nascosto;
Glie s'accostò gran popolo, che giusto
S'era in quel punto tutto già scomposto.
Disse chalch'un, penzanno a fine onesto:
"Che MEO sposar la voglia, indizio è questo".

Sentì PATACCA, e assai gli fece senzo
Quello che intese, e allor pe' la su' mente
Curze chalche penzier, chalche consenzo,
Ma per adesso non risolve gnente;
Fece slargar el popolo, assai denzo,
Poi scegne Nuccia, e passa fra la gente,
Come in trionfo. Ogn'un l'insegna a deto,
S'alza in punta di piedi chi sta arreto.

Così da tutti lei viè ad esser vista,
E MEO sceso da sella, glie va a lato,
Che in quella calca, d'uno che gl'assista
C'è gran bisogno, e lui se n'è già addato.
Perchè non habbia chalche stretta, o pista,
Pare a PATACCA d'esser obrigato
(Scuperto amante), acciò di ciovettalla
Non ardisca chalch'un, d'accompagnalla.

Tutia l'obrigo suo facenno annava
Con assister a Nuccia su' patrona;
Calfurnia, un pò discosto seguitava,
Ma rispettosa, timida, e gattona.
Di farzi vede non s'arrisicava
Da MEO, che ancor non sa se glie perdona,
Però a sentir tese l'orecchie haveva,
Se Nuccia a favor suo gnente diceva.

Parlò questa a PATACCA, e tanto disse,
Ch'a rimetterla in grazia alfin l'indusse;
Quello cenno glie fece, che venisse
Accanto a lui, nè più scontenta fusse;
Però le ciarle e le causate risse
Da lei, tutte a memoria glie ridusse,
Ma poi conchiuse che non si parlasse
Più del passato, e lei sicura stasse.

Piena la ciospa allor di contentezza,
E scacciati i penzieri timorosi,
A MEO PATACCA e a Nuccia usò finezza
Di complimenti assai ridicolosi;
Disse fra l'altre cose: "Ogn'allegrezza
Venir vi possa, e siate presto sposi.
E in capo a nove mesi, o lì vicino,
Far possiate un MEUCCIO PATACCHINO".

Sbottò lo Sgherro, in tel sentì 'sta cosa,
In un gran riso, e il simile farìa
Nuccia, ma perchè fa la vergognosa
Si ritiè a forza, e rider non vorrìa.
Ma una sbottata alfin ridicolosa
Fece pur lei, così con allegrìa
Le femmine con MEO, che venne a piede,
Altri giochi, altre feste andorno a vede.

Tutta la gente ancor fece l'istesso,
E si va discorrenno de 'sta giostra;
Assieme col donnesco, il maschio sesso
Per lo più sodisfatto se ne mostra,
Ma c'è però, come succede spesso,
Chalch'un, de 'sti sbeffieri, che fa mostra
Di dar lode a quell'Opera, che ha vista,
Ma intanto a chi ha operato glie la pista.

Dice: "È ver, che s'insegnano costoro,
E non è poco ancor quello che fanno,
Ma questa del giostrar, non è arte loro,
Perchè prattica e regole non hanno.
Si deve comparir con più decoro,
I cartelli e i padrini ancor ci vanno,
E dovevano meglio esser istrutti,
Con i cavalli, i giostratori tutti".

Ma chalch'un altro poi, ch'ha più giudizio,
Parla con più risguardo, e compatisce,
Perchè non ha di critticare il vizio,
Una faccenna tal, nè l'avvilisce:
"Da gente, che non sta nell'esercizio, -
Dice. - che in prescia un'opera ammannisce
Così granne, e che poco ci pò spenne,
E che cosa di più s'ha da pretenne?".

Mentre ci fu, chi a favor suo rispose,
Restò assai ben difeso MEO, ma alfine
A tornà a casa ogn'uno si dispose,
Che del dì le prim'hore eran vicine.
Restorno quasi scure le calcose,
Mancando i lumi, a poco a poco, e il fine
Questo fu delli sciali, e non si stracca
La gente tutta di lodà PATACCA.

Il sentirzi plaudito a voce piena,
Una gran contentezza a questo apporta,
E barzelletta, perchè sta de vena,
Con Nuccia, e le terzette lui glie porta.
Con le due griscie, a casa la rimena,
Nè la lassò, fin che non fu alla porta,
E con cerimoniate amorosette,
Una restanno, l'altro se n'annette.

MEO pe' la grolia ch'ha, parte brioso,
E ancor, perchè haverà gran nominanza.
Nuccia, che lo desidera pe' sposo,
Consolata restò nella speranza.
Và ogn'altro a casa, pe' piglià riposo;
Così finirno, e non le pò a bastanza
La lingua racconta, scriver la penna,
Le feste, che si fecero pe' VIENNA.

È ver, che tutte allor si dismetterno
'Ste tibaldee, ma non però finirno
Le speranze di far, (e si facerno ),
Altre feste, e pur belle riuscirno.
In ordine, assai bene si metterno,
Perchè molto per tempo s'ammannirno,
Ma d'un'altra vittoria il chiaro giorno
Aspetto prima, et a cantà poi torno.

Fine dell'undicesimo Canto.

 
 
 

Bondie Dietaiuti

Bondie Dietaiuti fu un poeta fiorentino, in corrispondenza con Rustico de Filippi, vissuto nella prima metà del XIII Secolo. Il volume "Early Italian literature, Volume 1" di Ernesto Grillo, 1877 riporta due sue poesie, ed altre quattro poesie sono riportate nel sito Duecento (la cui fonte è: "Poeti del Duecento" a cura di Gianfranco Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960). I titoli od i capoversi con i quali sono conosciute le opere di Bondie Dietaiuti sono:
1-) Amor, quando mi membra
2-) Gl'occhi col core stanno in tenzamento.
3-) Greve cosa m'avene oltre misura
4-) La Primavera ed il Poeta
5-) S'eo canto d'alegranza
6-) Serviti amorosa

1-) Amor, quando mi membra

Amor, quando mi membra
li temporal' che vanno,
che m'han tenuto danno,
già non è maraviglia s'io sconforto,
però c'alor mi sembra
ciascuna gioia affanno,
e lealtate inganno,
e ciascuna ragion mi pare torto.
E paremi vedere
fera dismisuranza,
chi buono uso e leanza
voglia a l[o] mondo già mai mantenere,
poi che 'n gran soperchianza
torna per me piacere,
e 'n gran follia savere,
per ch'io son stato, lasso, in grande er[r]anza.
Ma lo 'ncarnato amore
di voi che m'ha distretto,
fidato amico aletto,
mi sforza ch'io mi deg[g]ia rallegrare.
Dunqua mi trae d'er[r]ore,
ché 'l tuo valor perfetto
mi dà tanto diletto,
che contro a voglia aducemi a cantare.
Però m'ha confortato
e sto di bona voglia
. . . . [-oglia]
de lo noioso tempo intrebescato;
ma par che 'n gioi' s'acoglia
l'affanno c'ho portato,
guardando al tuo trovato,
amico, che d'er[r]anza mi dispoglia.
Ma par ca per usag[g]io
avenga spessamente
c'omo ch'è canoscente,
per molto senno ch'ag[g]ia e cortesia,
ch'ello pregia non sag[g]io:
così similemente
m'ave[n] di te, valente,
discreto e sag[g]io e nobil tut[t]avia,
ca più ch'io non son degno
e non ho meritato
sono da te pregiato,
onde di grande amor m'ha' fatto segno.
E como se' 'nsegnato,
dotto e di ric[c]o ingegno!
Per ch'io allegro mi tegno,
veg[g]endo te di gran savere ornato.
La salamandra ho 'nteso,
agendo vita in fuoco,
che fora viva poco
se si partisse da la sua natura;
del pesce sono apreso
che 'n agua ha vita e gioco,
e, se parte di loco,
ag[g]io visto c'ha vita pic[c]iol' ora.
Ed ogne altro alimento
notrica un animale,
ciò ho 'nteso, lo quale,
se se'n parte, che viene a finimento:
così tanto mi vale
lo tuo inamoramento,
che mi dà alegramento,
e sanz'esso dub[b]ierei aver male.
Canzon, va' immantenente
a quelli che 'n disparte
dimora in altra parte,
ed èmi ciascun giorno pros[s]imano;
ed imprimieramente
salutal da mia parte,
poi digli che non parte
lo meo core da lui, poi sia lontano;
digli che 'n pensagione
mi tiene e 'n alegranza,
tanto mi dà baldanza,
lo meo core ch'e stato ['n] sua magione,
ca vi fe' adimoranza
per certo in istagione:
dunqua ben fa ragione,
poi ch'è suo propio, se 'l guarda ed avanza.

Bondie Dietaiuti
In "Poeti del Duecento" a cura di Gianfranco Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960


2-) Gl'occhi col core stanno in tenzamento

Gl'oc[c]hi col core stanno in tenzamento
e dicono conquisicanno il core.
E lo core risponde con tormento:
non ci aio pec[c]a, nanti fue l'Amore;
e voi vedeste cosa a piacimento,
onde no' siamo in pena ed in dolore.
Risponde Amore con grande ardimento:
sed abesamo buon giudicatore,
eo sacc[i]o ben che ne saria scusato,
ch'io mi [di]fendo per cosa comune,
perchè da ciascheduno son formato;
ma 'l core, chè segnor de la magiune,
costringe a gli oc[c]hi a veder lo pec[c]ato
e colpa cui li piace e pon cagiune.

Bondie Dietaiuti
In "Rimatori della scuola siciliana", a cura di Panvini, Olschki, Firenze 1962 e 1964


3-) Greve cosa m'avene oltre misura

Greve cosa m'avene oltre misura,
poi che per forza vegio mi convene
cantar'contro a talento, ond'io mi doglio,
per contar la mia pena e la rancura,
chè m'è tornato in grande affanno il bene
e la ric[c]a allegranza ch'aver soglio.
Ch'i' agio amato ed amo co leanza
e fui amato ed eb[b]i gioia intera;
or m'è tornata fera
la mia dorma [ . . .] for fallanza.
Dunqua, ben mi lamento con drit[t]ura,
la ond'io non ò pec[c]ato vivo in pene;
però di ciò com'albore mi sfoglio.
E s'io potesse contrafar natura
de la finice, che s'arde e rivene,
eo m'arsera per tornar d'altro scoglio,
e surgeria chiamando pïetanza:
forse che torneria colà dov'era
d'amore a la 'rnprimera,
sì ch'io raquisteria la mia allegranza.
Pero, Lamento, di gran doglia e dura,
merzè dimanda a chi 'n balìa mi tene
for colpa non m'auzida per orgoglio,
ma brevemente tragami d'ardura
e de l'affanno ca 'l mio cor sostene;
campar per altra non posso, nè voglio.
Dunqua le di' che fa dismisuranza
se contro a umilità mi stesse fera,
chè morte mi sembrera
ogn'altra vita, sì m'à in sua possanza.

Bondie Dietaiuti
In "Rimatori della scuola siciliana", a cura di Panvini, Olschki, Firenze 1962 e 1964


4-) La Primavera ed il Poeta

Quando l' aria rischiara e rinserena,
II mondo torna in grande dilettanza,
E r acqua surge chiara dalla vena,
E r erba vien fiorita per sembianza,
E gh augelletti riprendon lor lena,
E fanno dolci versi in loro usanza,
Ciascun amante gran gioi' ne mena
Per lo soave tempo che s' avanza.
Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
Come altro amante non posso gioire,
Che la mia donna m' e tanto orgogliosa.
E non mi vale amar ne ben servire:
Pero r altrui allegrezza m' e noiosa,
E dogliomi ch' io veggio rinverdire.

Bondie Dietaiuti
In: "Early Italian literature, Volume 1" di Ernesto Grillo, 1877


5-) S'eo canto d'alegranza

S'eo canto d'alegranza
inamoratamente,
volendo magiormente
di mia bona allegreza aver certanza,
aven per la speranza
che mi fa star gaudente,
poi credo veramente
di voi ciò che mostrate per sembianza.
Ma simil m'adivene
come a l'om ch'è dottuso
di ciò ch'è più gioiuso,
che teme di fallir quanto più tene;
di ciò son disïuso,
di ciò c'ò visto acertar la mia spene.
Dunqua, per inoranza
di voi, donna valente,
priegovi dolcemente
ca vi degia piacer per me pietanza,
che sia fuor dubitanza
di voi propiamente
se la ciera piagente
e [i] sembianti col cor fanno ac[c]ordanza.
E, consirando il bene
ch'io ne spero sdubiuso,
non aio mai star dogliuso,,
ca 'n fina gioi mi conteria le pene;
così, viso amoruso,
ched eo per voi m'alegri si convene.
Per che gran dilet[t]anza
mi dona Amor sovente,
perchè imprimeramente
fue il nostro amor di bona incominzanza;
da voi port'io l'amanza
di buon cor francamente,
sì ch'io similemente
a voi ò dato il core mio in possanza.
Dal bon cominzar vene
lo finir dilet[t]uso,
purchè non sia gravuso
lungo aspettare ch'affanno sostene;
così seguirà l'uso
del nostro fino amor, che mi mantene.

Bondie Dietaiuti
In "Rimatori della scuola siciliana", a cura di Panvini, Olschki, Firenze 1962 e 1964


6-) Serviti amorosa

Madonna, me e avvenuto simigliante
Con' de la spera a l' ascielletta vene,
Che sormonta, guardandola, 'n altura
E poi dichina lassa immantenante,
Per lo dolzore ch' a lo cor le vene,
E frange in terra, tanto s' inamora.
Cosi primeramente ch' eo guardai
Lo vostro chiar visaggio,
Che splende piii che raggio,
Distrettamente, donna, inamorai.

E cosi sormontai, donna, veggiendo
Che mi dono Amore l' ardimento
Di voi amar, sovrana di bieltate:
Ma sospirando lasso e piangiendo
Son dichinato, poi va in perdimento
Per me Merze e frango in Pietate.

Ma piu m' aggrada l' amoroso foco,
Ov' e 'l mio core ardente
Per voi, vista piagiente,
Che per un' altra aver sollazzo e gioco.

E pero v' addomando solamente.
Per Dio, ch' aggiate a grado il mio servire,
Poi ch' io gradisco l' amoroso affanno;
E se volete ch' io sia dipartente
Da voi amar, convenevi partire
Da voi li sguardi, che languir mi fanno,
E poi lo dolze riso, per ch' io incoro,
E la bielta ch' avete;
E se questo farete,
Forse mi partirò, se disamoro.

Madonna, ben ho inteso die lo smiro
Aucide 'l badalischio a la 'mprimera;
Di voi similemente m' e avvenuto
Per un vedere und' io piango e sospiro;
Che 'nmantemente m' allumo la spera,
Onde coralemente son feruto.

Oi me, chiaro miraglio ed amoroso,
Se per lo primo sguardo,
V' imaginai, ond' ardo,
Ne del mio cor non fui mai poderoso!
Pero, canzon, va dire ad ogne amante
Che lo veder mi par la prima cosa,
Per ch' om piu s' inamora per usanza;
Awegna che piaciere e l' afFermante,
E cio ch' om ferma e 'n esso si riposa,
Adesso crescie sanza dubitanza:
E saccio ben che non varria neiente
Veder, se non piaciesse
Ch' amor se n' apprendesse;
Ma, da che piacie, apprende tostamente.

Bondie Dietaiuti
In: "Early Italian literature, Volume 1" di Ernesto Grillo, 1877

 
 
 

Il Trecentonovelle 59-65

Post n°1325 pubblicato il 07 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LIX (frammento)

... e presso a quel luogo era fatta una fossa per sotterrare un pellegrino. Il signore, veggendo questo, dice:
- Che questione è questa?
Dicono i contadini:
- Signor nostro, egli è morto qui un pellegrino, il quale alcuna cosa non troviamo ch'egli abbia di che si possa sotterrare. Noi, per meritare a Dio, abbiamo fatta la fossa; preghiamo il prete rechi la croce e' doppieri, acciò che lo sotterriamo; e' dice che vuol denari, e mai non lo farà altramente; e 'l cherico dice peggio di lui, e hacci voluto quasi dare.
Disse il signore:
- Venite cià, o messer lo prete, e voi messer lo cherico; è vero quello che costoro dicono?
Dice il prete e 'l cherico a un tratto:
- Signore, noi dobbiamo avere el debito nostro.
Disse il signore:
- E chi vel de' dare? il morto che non ha di che?
Ed e' risposono:
- Noi dobbiamo pur avere il debito nostro, chi che ce lo dia.
Disse il signore:
- E io vel darò io: debito vostro è la morte; dov'è il morto? adugélo qua; mettetel nella fossa: pigliate 'l prete; cacciatel giú: dov'è il cherico? mettetel su; mo tira giú la terra.
E cosí fece sotterrare il prete e 'l cherico sul morto pellegrino, e andò a suo viaggio.
E stato alcun dí a questo suo luogo, ritornò a Melano; e tornando per una via, dov'era un'altra delle sue prigioni ed era su l'ora di terza, gli prigioni, che aveano sentito il beneficio ch'egli avea dato agli altri, sentendo il signore passare, cominciorono a gridare:
- Misericordia, misericordia.
Quelli ristette, dicendo:
- Che è quello?
Il guardiano si fece innanzi.
- Signore, sono li prigionieri, che vi domandono misericordia.
Disse il signore:
- Sí, hanno apparato dagli altri.
Chiamò uno de' suoi famigli da cavallo, e disse:
- Va', metti in prigione questo guardiano cogli altri, e guarda la prigione tu, e fa' che tu non déi né mangiare né bere ad alcuno di loro, se io non torno da Chiaravalle, là dove io andrò com'io avrò desinato; e guarda che tu faccia ciò che io dico, ch'altrimenti io t'impiccherò per la gola.
Come detto, cosí fatto. Il signore andò a desinare, e come ebbe desinato, montò a cavallo e andò a Chiaravalle, dove è una gran badía, e uno bellissimo abituro per lo signore: e stato là tutto quel dí e l'altro, alla reina venne grandissimo male; di che subito gli fu mandato a dire. Come lo sentí, che cosí avea d'usanza, benché fosse di notte, subito fu mosso per vicitar la reina; e questo credo fosse fattura di Dio, perché quelli prigioni non morissono, ch'erano già stati quarantadue ore sanza mangiare e sanza bere, avendovi di quelli già che cominciavono a balenare. Tornato che fu, ebbono tutti mangiare e bere, come poteano, ringraziando tutti il loro Creatore.
Or queste tre cose avvennono, si può dire, in un piccol viaggio: la prima fu di gran carità, e volle che fosse sí valida ch'ella valesse eziandio a chi v'era per debito: la seconda fu mossa da justizia, e fu seguita con gran crudeltà: la terza fu sdegno, e tòr materia che ogni dí non avessi avvenire.
Non notando quelli comuni queste cose che sempre stanno in cacciare l'uno l'altro, e non vogliono vicino, non conoscendo il bene che Dio ha dato loro.


NOVELLA LX

Frate Taddeo Dini, predicando a Bologna il dí di Santa Caterina, mostra un braccio contro a sua volontà, gittando un piacevol motto a tutta la predica.

Molte volte interviene che delle reliquie si truovano assai inganni, come poco tempo intervenne a' Fiorentini. Avendo aúto di Puglia un braccio, il quale fu dato loro per lo braccio di santa Reparata, e facendolo venire con gran cerimonia, e mostrandolo parecchi anni per la sua festa con gran solennità, nella fine trovorono il detto braccio esser di legno.
Era adunque frate Taddeo Dini dell'ordine de' Predicatori, valentissimo uomo, il dí di Santa Caterina a Bologna; e al monistero di Santa Caterina per la festa la mattina predicando, avvenne che, compiuta la predicazione, anzi che scendesse del pergamo e pervenisse alla confessione, con molti torchi gli fu recato un forzieretto di cristallo, coperto con drappi, dicendo:
- Mostrate questo braccio di santa Caterina.
Frate Taddeo, che non era smemorato, dice:
- Come il braccio di santa Caterina! Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il suo corpo glorioso, intero con le due braccia e con tutte l'altre membra.
Dissono quei pretoni:
- Bene sta; noi tegnamo che questo sia veramente il suo braccio.
Frate Taddeo con chiare ragioni diceva non esser da mostrarlo. La Badessa, sentendo questo, lo mandò pregando il dovesse mostrare; però che, se non si mostrasse, la devozione del monastero si perderebbe. Veggendo frate Taddeo che pur mostrare gli lo convenía, aprí il forzierino, e recatosi in mano il detto braccio, disse:
- Signori e donne, questo braccio che voi vedete dicono le suore di questo monastero che è il braccio di santa Caterina. Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il corpo di santa Caterina tutto intero, e massimamente con due braccia; s'ella ne ebbe tre, quest'è il terzo -; cominciando con esso a segnare in croce, come si fa, tutta la predica.
Gl'intendenti di questo risono, parlando tra loro; molti uomini e feminelle semplici si segnarono devotamente, come quelli che non intesono frate Taddeo, né avvidonsi mai di quello che avea detto.
La fede è buona e salva ciascuno che l'ha; ma veramente solo il vizio dell'avarizia fa di molti inganni nelle reliquie; che è a dire che non è cappella che non mostri aver del latte della Vergine Maria! ché se fusse come dicono, nessuna sarebbe piú preziosa reliquia, pensando che del suo corpo glorioso alcuna cosa non rimase in terra; ed e' si mostra tanto latte per lo mondo, dicendo esser del suo, che se fosse stata una fonte ch'avesse piú dí rampollato, quello si basterebbe. Se se ne potesse far prova, come frate Taddeo fece del detto braccio, ciò non avverrebbe. Ora la fede nostra ci fa salvi; e chi archimia sí fatte cose, ne porta pena in questo o nell'altro mondo.


NOVELLA LXI

Messer Guglielmo da Castelbarco, perché un suo provvisionato mangia maccheroni col pane, gli toglie ciò che con lui molti anni ha guadagnato.

Nelle contrade di Trento fu già un signore, chiamato messer Guglielmo da Castelbarco, il quale, avendo seco uno (secondo ch'io già udi') a provvisione, ch'avea nome Bonifazio da Pontriemoli, e volendoli sommo bene, però che lo meritava, come valente uomo ch'avea guidato suo' dazi e gabelle; e per questa sua provvisione, e per l'utile delli officii, facendo pur lealmente, era divenuto ricco di forse sei mila lire di bolognini; essendo un venerdí costui a tavola col signore, e con altra sua brigata, essendo recati maccheroni e messi su per gli taglieri innanzi a ciascheduno, essendo venuto il cosso al signore, e veggendo il detto Bonifazio mangiare li maccheroni col pane, ed era carestia ne' detti paesi, subito comandò a' suoi sergenti che 'l detto Bonifazio fusse preso; li quali mossi, subito il presono. Costui, maravigliandosi, dice:
- Signor mio, che cagione vi muove a farmi pigliare cosí furiosamente?
Dice il signore:
- Tu 'l saprai bene: dunque mangi tu il pane col pane? e guardi d'affamare il mondo, che vedi il caro esser sí grande? e credi che io sia un matto, e non me ne avveggia?
Bonifazio, udendo la cagione, credette il signore facesse per aver diletto, e quasi cominciò a sorridere.
Disse il signore:
- Tu ridi, ah? io ti farò ben rider d'altro verso. Menatelo là alla prigione, e guardate non fuggisse.
Fu menato costui e messo nella prigione; e ivi a pochi dí fu condennato in lire sei mila di bolognini, per aver voluto turbare lo stato, non che di lui, ma di tutta la sua provincia, e spezialmente per fame. Convenne che costui rimettesse ciò che mai avea acquistato con lui, e quello che egli avea a casa sua, e pagò i detti danari, gittandogli il signore parole, come grandissima grazia gli aveva fatta di non averli tolta la vita.
Stia dunque co' signori a bastalena chi vuole; che per certo, chi non si sa partir da loro, e sta con essi a bastalena, rade volte ne capita bene, come a molti è intervenuto, come contar si potrebbe. Questo messer Guglielmo ancora tolse ciò avea un suo famiglio o sottoposto perché avea fatto metter l'arme sua in una pietra da camino, opponendo che l'aveano messa al fumo, perché l'affogasse. Poi ebbe quello che e' meritava... il feciono morire in prigione.


NOVELLA LXII

Messer Mastino, avendo tenuto uno provisionato a far sua fatti, e parendogli che fusse arricchito, domanda veder ragione da lui, il quale con nuova malizia fa ch'egli è contento non rivederla.

Ne' tempi che messer Mastino signoreggiava Verona, gli capitò alle mani uno ch'era come uno per fante a piede, a fare suoi servigi; il quale come pratico ed esperto stato ben venti anni, facendo ancora molto bene i fatti del signore, diventò ricco. A messer Mastino venne l'appetito che venne a messer Guglielmo nella precedente novella; e pensossi di domandare di veder ragione da costui, e cosí fece; ché lo chiamò una mattina e disse:
- Vien cià, va', apparecchia tutte tue scritture de' fatti miei che ti sono pervenuti per le mani, poi che tu fusti nella corte mia.
Al buon uomo parve essere impacciato, pensando non poter mai mostrare al signore quello che dimandava; ma pure rispose:
- Datemi respitto, e io penserò di soddisfare al vostro comandamento.
Ed egli disse:
- Va', e quando hai le cose preste, vieni; e io darò ordine chi debba per me esser con teco a vedere le dette ragioni.
 Rispose costui:
- E' sarà fatto, signor mio.
Tornasi a casa e partesi dal signore, e pensando e ripensando, quanto piú pensava piú gli pareva essere impacciato; e guardando per casa, ebbe veduta la rotella, la cervelliera, uno lanciotto, uno farsettaccio con un coltello, con le quali cose era venuto di prima, quando s'era acconcio al servigio di detto signore. E vestitosi nel modo ch'era venuto, e prese quelle medesime arme appunto, in quella forma l'altra mattina senza piú aspettare s'appresentò innanzi a messer Mastino.
Il quale veggendolo, si maravigliò, dicendo:
- Che vuol dir questo, che tu se' cosí armato?
- Signor mio, - disse quello, - voi m'avete comandato che io vi mostri ragione di ciò c'ho aúto a far de' vostri fatti, poi che io fui servitore di vostra signoria; io vi dico cosí, signor mio, che io non veggio modo nessuno ch'io ve la potessi mai mostrare, se non questo che voi vedete. Voi sapete, signor mio, che quando io venni al vostro servigio, io era povero mascalzone, con quello in dosso, e con quelle povere armicelle, con le quali mi vedete al presente. E per tanto la ragione è fatta; nessuna altra cosa, che quello che io ci recai, me ne porterò; e cosí me n'andrò povero, com'io ci venni: tutto l'altro mio rimanente, e la casa, con ciò che v'è dentro, lascio alla vostra signoria.
Messer Mastino, come savio signore, considerando l'avvedimento e modo di costui, disse:
- Non voglia Dio, che io ti tolga quello che hai con me guadagnato; va', e fa' lealmente e' fatti miei, e da mo innanzi non aver pensiero che io ti vegna mai meno.
Costui ringraziò el signore; e parvegli aver avuto buon modo a mostrar la detta ragione; e stette nella corte di messer Mastino tutto il tempo della vita sua, e fugli piú caro che altro uomo ch'egli avesse.
Or considera, lettore, quant'è ignorante chi fa lunga dimora nella corte d'uno signore, e come in uno punto e' si volgono e disfanno altrui.
E guarda s'egli è pericoloso, ché, sognando che un servo l'uccida, sel reca a vero e disfallo. E però chi si può levar dal giuoco, quando ha piena la tasca, non vi stia a guerra finita; però che la maggior parte ne rimangon disfatti, come apertamente per molti si poría vedere.


NOVELLA LXIII

A Giotto gran dipintore è dato uno palvese a dipingere da un uomo di picciolo affare. Egli facendosene scherne, lo dipinge per forma che colui rimane confuso.

Ciascuno può aver già udito chi fu Giotto, e quanto fu gran dipintore sopra ogni altro. Sentendo la fama sua un grossolano artefice, e avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere uno suo palvese, subito n'andò alla bottega di Giotto, avendo chi gli portava il palvese drieto, e giunto dove trovò Giotto, disse:
- Dio ti salvi, maestro; io vorrei che mi dipignessi l'arme mia in questo palvese.
Giotto, considerando e l'uomo e 'l modo, non disse altro, se non:
- Quando il vuo' tu? - e quel glielo disse.
Disse Giotto:
- Lascia far me.
E partissi. E Giotto, essendo rimaso, pensa fra sé medesimo: "Che vuol dir questo? serebbemi stato mandato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere: e costui che 'l reca è uno omicciatto semplice, e dice che io gli facci l'arme sua, come se fosse de' reali di Francia; per certo io gli debbo fare una nuova arme". E cosí pensando fra sé medesimo, si recò innanzi il detto palvese, e disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e cosí fece. La qual dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello, e una lancia.
Giunto il valente uomo che non sapea chi si fosse, fassi innanzi e dice:
- Maestro, è dipinto quel palvese?
Disse Giotto:
- Sí bene; va', recalo giú.
Venuto il palvese, e quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto:
- O che imbratto è questo, che tu m'hai dipinto?
Disse Giotto:
- E' ti parrà ben imbratto al pagare.
Disse quelli:
- Io non ne pagherei quattro danari.
Disse Giotto:
- E che mi dicestú che io dipignessi?
E quel rispose:
- L'arme mia.
Disse Giotto:
- Non è ella qui? mancacene niuna?
Disse costui:
- Ben istà.
Disse Giotto:
- Anzi sta mal, che Dio ti dia, e déi essere una gran bestia, che chi ti dicesse: "chi se' tu?" appena lo sapresti dire; e giungi qui, e di': "Dipignimi l'arme mia". Se tu fussi stato de' Bardi, serebbe bastato. Che arma porti tu? di qua' se' tu? chi furono gli antichi tuoi? deh, che non ti vergogni! comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d'arma, come stu fussi il Dusnam di Baviera. Io t'ho fatta tutta armadura sul tuo palvese; se ce n'è piú alcuna, dillo, e io la farò dipignere.
Disse quello:
- Tu mi di' villania, e m'hai guasto un palvese.
E partesi, e vassene alla grascia e fa richieder Giotto.
Giotto comparí, e fa richieder lui, addomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni gli officiali, che molto meglio le diceva Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo cosí dipinto e desse lire sei a Giotto, però ch'egli avea ragione: onde convenne togliesse il palvese, e pagasse, e fu prosciolto.
Cosí costui, non misurandosi, fu misurato; ché ogni tristo vuol fare arma e far casati; e chi tali, che li loro padri seranno stati trovati agli ospedali.


NOVELLA LXIV

Agnolo di ser Gherardo va a giostrare a Peretola, avendo settanta anni, e al cavallo è messo un cardo sotto la coda; di che movendosi con l'elmo in testa, il cavallo non resta, che corre insino a Firenze.

Non è gran tempo che in Firenze fu un nuovo pesce, il quale ebbe nome Agnolo di ser Gherardo, uomo quasi giullare, che ogni cosa contraffacea: e usando con assai cittadini, che di lui pigliavono diletto, ed essendo andazzo di giostrare, andando con certi a Peretola che andavano per ciò fare, giostrò anco elli, e avea accattato un cavallaccio di quelli della Tinta di Borg'Ognissanti, che era una buscalfana, alto e magro, che parea la fame. Giunto a Peretola, el brigante si fece armare, ed era dalla parte di là dalla piazza sí che veniva a correre verso Firenze. E messogli l'elmo in testa, e data l'asta, e appiccatogli un cardo sotto la coda, fu tutt'uno. Era la sella altissima: altro non era a vederlo, se non un elmo nella sella, che parea colui, cui elli piú volte in brigata raccontava.
Mosso la scuccumedra con Agnolo suvvi, e sentendo il cardo, si comincia a lanciare e a percuotere Agnolo or qua or là negli arcioni, sí che l'asta si rassegnò in terra, e 'l cavallo, scagliandosi e traendo, comincia a correre verso Firenze. Tutti quelli dattorno scoppiavono delle risa. Agnolo non tenea ridere, però che si sentía dare i maggior colpi del mondo negli arcioni, e cosí essendo lacerato ad ogni passo e percosso, giunse alla Porta del Prato, ed entrò dentro, correndo e nabissando che fece smemorare e' gabellieri; e giú per lo Prato, che ogni uomo e femina per maraviglia diceano: "Che vuol dir questo?", entrò nel Borgo Ognissanti.
Or quivi era la fuggita e da' lanci e da' calci del cavallo! ognun fuggendo e gridando:
- Chi è questi? che fatto è questo?
E cosí non restette mai il cavallo che giunse alla Tinta, dov'era il suo albergo, là dove il cavallo fu preso per le redine e menato dentro.
Essendo domandato: "Chi se' tu?", colui soffiava e doleasi: dilacciarongli l'elmo, e quel grida e duolsi:
- Oh me, fate piano.
E cosí trattogli l'elmo, il capo di Agnolo parea uno teschio, o uno uomo morto di piú dí.
Fu tratto della sella con fatica d'altrui, e con dolor di lui; ed egli, pur dolendosi, per nessun modo si potea sostenere in piede; onde fu condotto su uno letto; e giunto di fuori colui di cui era e la casa e 'l cavallo, quando tutto seppe, scoppiava di risa. E giugnendo dove Agnolo era, dice:
- Oh, io non credea, Agnolo, che tu fussi Gian di Grana, e che tu giostrassi, almeno me l'avestú detto quando tu accattasti el mio cavallo, che mel déi aver guasto, però che non era da giostra.
Disse Agnolo:
- Guasto ha egli me, che mi par restío: s'io avessi aúto un buon cavallo, io avrei dato a colui una grande scigrignata, e avrei aúto onore, dove io sono vituperato. Io ti prego per Dio che tu mandi per li panni mia a Peretola, e fa' dire a que' giovani che io non m'ho fatto mal niuno, però che la buon'arme m'ha campato.
E cosí fu mandato per li suoi panni, che vennono con essi tutti quelli che di lui avevono aúto in ciò diletto. E giunti ad Agnolo dicono:
- Oimè, ser Benghi (ché cosí era chiamato) se' tu vivo?
- O fratelli miei, - dicea quelli, - io non vi credetti mai rivedere: io sono tutto lacero; quel maladetto cavallo m'ha morto; io non provai mai peggior bestia; quando io v'era su, mi parea esser la secchia de' vasgellai; io debbo aver rotta tutta la sella e le corazze; dell'elmo non ti dico, che talora si percotea su la sella per forma che de' esser tutto rotto.
Se la brigata rideva, non è da domandare. Alla perfine il vestirono la sera al tardi, e a braccia il condussono a casa sua; là dove correndo la donna all'uscio, cominciò il pianto, come se fusse morto, dicendo:
- Oimè, marito mio, chi t'ha fedito?
Agnolo non dicea alcuna cosa; la moglie pur domandava:
- Che è questo?
Dicevano i compagni:
- Non è cosa che vi bisogni piagnere.
- E lasciatolo, s'andarono con Dio; e la donna abbracciando Agnolo, comincia a dire:
- Marito mio, dimmi quel che tu hai.
E Agnolo chiese d'entrar nel letto; il quale la donna spogliandolo e veggendolo tutto livido, disse:
- Chi t'ha cosí bastonato?
E' parea il corpo suo o di profferito o di marmorito, tanto era percosso.
Alla fine ritornato l'alito ad Agnolo, disse:
- Donna mia, io andai con una brigata a Peretola, e convenne che ciascuno giostrasse; io, per non esser piú tristo che li altri, e pensando a' miei passati da Cerretomaggio, volli giostrare anch'io; e se 'l cavallo ch'era restío, e hammi concio come tu vedi, fusse stato buono, io avea oggi maggior onore che uomo che portassi mai lancia già fa parecchi anni.
La donna, ch'era savia, e conoscea le frasche d'Agnolo, comincia a dire:
- Sí, che tu se' uscito della memoria affatto, o vecchio mal vissuto; che maladetto sia il dí ch'io ti fu' data per moglie, che mi consumo le braccia per nutricar li tuo' figliuoli, e tu, tristanzuolo, di settanta anni vai giostrando: o che potrestú fare, che a ragione di mondo non pesi dieci once? Va' va', che ora serai tu messo nel sacco de' priori, che n'ha' pisciato cotanti maceroni. Ed è peggio, che, perché tu se' chiamato ser Benghi, di' che tu vi se' per notaio. Doh tristo, non ti conosci tu? e se questo pur fosse, quanti notai ha' tu veduto giostrare? Se' tu fuori della memoria? Non consideri tu, che tu se' lavorante di lana, e altro non hai, se non quello che tu guadagni? Se' tu impazzito? Deh, va', ricollicati, sventurato; ch'e' fanciulli ti verranno oggimai drieto co' sassi.
Agnolo con voce lena dice:
- Donna mia, tu di' che io mi ricolichi; dolente sono, che m'è convenuto collicare; io ti prego che tu stia cheta, se tu non vuoi ch'io muoia affatto.
E quella dice:
- Or fustú morto, innanzi che vivere con tanto vituperio.
Dice Agnolo:
- O son io il primo, a cui venga sciagura ne' fatti d'arme?
- Deh, va' col malanno, - disse la moglie - va', scamata la lana, come tu se' uso, e lascia l'arte a quelli che la sanno fare.
E non restette insino a notte la contesa; e la notte pure si rabbonacciorono come poterono. Agnolo mai non giostrò piú.
Molto fu piú savia questa donna che il marito; però che ella conoscea lo stato suo, e quello del marito; ed elli non conoscea solo sé: se non che la moglie gli disse tanto che giovò.


NOVELLA LXV

Messer Lodovico da Mantova per una piccola parola, che per sollazzo dice un suo provisionato, gli toglie ciò ch'egli ha.

Ancora mi viene innanzi come piccola cagione muove un signore a dar la mala ventura altrui. Essendo messer Lodovico di Gonzaga signore di Mantova, uno suo provisionato avea detto con certi altri, piú per diletto che per altro "Signore è vino di fiasco, la mattina è buono, e la sera è guasto". La detta parola fu rapportata al signore; sí come spesso interviene, per venire in grazia del signore sempre vi sono li rapportatori. Udendo ciò messer Lodovico, fece chiamare a sé quel provisionato, e disse:
- Mo mi di'; ha' tu detto le ta' parole?
Quel rispose:
- Signor mio, sí; ma le parole mie non furon dette se non per motto, però che altra volta l'udi' dire a un valente uomo.
Disse il signore:
- Sí che tu di' che dicesti per motto, e non ti pare avere detto alcun male; e ha' mi nominato e appareggiato con un fiasco di vino. In fé di Dio, io ho voglia di farti giuoco, che sempre te ne verrebbe puzza; ma acciò che tu lo possa ben dire da dovero, spogliati in farsetto, come quando tu venisti a far con mi: e vatti con Dio.
Costui si dileguò in ora, che mai non apparí a Mantova; e lasciò il valer di due mila lire di bolognini, il quale avere tutto si tolse el signore. Cosí intervenne che signore e vin di fiasco, l'uno era vino e l'altro l'ha disfatto.

 
 
 
 
 

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