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Messaggi del 08/03/2015

La vipera convertita

Post n°1342 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La vipera convertita

Appena che la Vipera s'accorse
d'esse vecchia e sdentata, cambiò vita.
S'era pentita? Forse.
Lo disse ar Pipistrello: — Me ritiro
in un orto de monache qui intorno,
e farò penitenza fino ar giorno
che m'esce fòri l'urtimo sospiro.
Così riparerò, con un bell'atto,
a tanto male inutile ch'ho fatto...
— Capisco: — je rispose er Pipistrello —
la crisi de coscenza è sufficente
per aggiustà li sbaji der cervello:
ma er veleno ch'hai sparso fra la gente,
crisi o nun crisi, resta sempre quello.

Trilussa

 
 
 

La Secchia Rapita 10-2

Post n°1341 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        33
Voi che reggete il fren di questo regno
potete vendicar di nostro padre
e di nostro fratel l'obbrobrio indegno,
armando in terra e in mar diverse squadre.
Né già piú glorioso o bel disegno,
né piú famose prove e piú leggiadre
poteva in terra o in mar da parte alcuna
al valor vostro appresentar fortuna.

        34
Io, se non fossi donna, andrei con questa
mano a spianar le temerarie mura;
né vorrei che giammai l'iniqua gesta
si vantasse d'aver parte sicura,
se prima non venisse in umil vesta
con una fune al collo o la cintura
a chiedermi perdono e a consegnarmi
il mio fratello e la cittade e l'armi.

        35
Ah Dio! perché fui donna, o non usai
a l'armi, al sangue anch'io la destra molle? -
Qui sfavillò di sí cocenti rai,
che trafisse il meschin ne le midolle.
Trema il cor come fronda; e tutto omai
fuor di ghiaccio rassembra e dentro bolle:
vorría stender la man, vorría rapire;
ma un segreto terror smorza l'ardire.

        36
Al fin con voce tremula risponde:
- Sorella mia, reina mia, Dea mia,
andrò nel foco, andrò per mezzo a l'onde,
e nel centro per voi, s'al centro è via.
Lo scettro di mio padre in queste sponde,
con libero voler, tutto ho in balía:
disponetene voi come v'aggrada,
ché vostro è questo core e questa spada. -

        37
Cosí dicendo apre le braccia e crede
strigner de la sorella il vago petto:
ma l'amorosa Dea che 'l rischio vede,
subito si ritira e cangia aspetto.
Ne la forma immortal sua prima riede;
e alzandosi ne l'aria, al giovinetto
versa, al partir, dal bel purpureo grembo
sopra di rose e d'altri fiori un nembo.

        38
- O bellezza del ciel viva immortale,
dove fuggi da me? perché mi lassi?
Né mi concedi almen, che in tanto male
io possa in te sbramar quest'occhi lassi? -
Cosí parlava il giovane reale;
e intanto rivolgea gli afflitti passi
a l'onda giú dove l'attende il legno,
disegnando d'armar tutto quel regno.

        39
Ma il conte di Culagna avendo intanto
vista Renoppia uscir del padiglione,
rassettato il collar, la barba e 'l manto
e tiratosi in fronte un pennacchione,
l'era gita a incontrar da un altro canto,
salutandola quasi in ginocchione;
ond'ella instrutta di sue degne imprese
l'avea chiamato a sé tutta cortese.

        40
E avendo il suo valor molto esaltato,
la dispostezza e 'l fior de l'intelletto,
giurato avea di non aver trovato
chi piú paresse a lei degno suggetto
de l'amor suo, quand'ei non fosse stato
in nodo marital congiunto e stretto:
onde il burlar de la donzella avía
posto il meschino in strana frenesia.

        41
Trovollo Titta in un solingo piano
ch'ei passeggiava a l'ombra d'una noce,
e gía fra sé con la corona in mano
parlando, a passo or lento, ora veloce.
Come egli vide il cavalier romano,
gli si fece a l'orecchia, e a mezza voce
- Frate, gli disse, per uscir di doglie
io son forzato avvelenar mia moglie.

        42
A me certo ne spiace in infinito,
ma cosí porta la crudel mia stella. -
Quindi gli narra quanto era seguito,
e quel che detto gli ha Renoppia bella.
Mostra di rimaner Titta stupito,
e lo chiama felice in sua favella:
- Conte, tu se' nu Papa, e t'aio detto
che no' ce che te pozza stare a petto. -

        43
Gli va poscia di bocca ogni pensiero
cacciando a poco a poco, e lo millanta:
ed ei, com'è di cor pronto e leggiero,
si ringalluzza e si dimena e canta.
Gli scuopre de l'interno il falso e 'l vero,
e del disegno rio si gloria e vanta.
Nota Titta ogni cosa, e lo conforta
ch'alcun non saprà mai chi l'abbia morta.

        44
Era Titta per sorte innamorato
de la moglie del conte, e mentre fue
ne la città, con atti a lei mostrato
l'avea e con voci a le serventi sue.
Or che si vede il modo apparecchiato
di far che resti il mal accorto un bue,
scrive il tutto a la donna, e in che maniera
il pazzo rio d'attossicarla spera.

        45
Lo ringrazia la donna, e cauta osserva
gli andamenti del conte in ogni parte,
e informa del periglio ogni sua serva,
perché sieno a guardarla anch'esse a parte.
Il conte, fisso già ne la proterva
sua voglia, tratto avea solo in disparte
il medico Sigonio, e in pagamento
offertogli in buon dato oro ed argento,

        46
se gli prepara un tossico provato,
cui rimedio non sia d'alcuna sorte:
dicendo che di fresco avea trovato
la moglie che gli fea le fusa torte,
e ch'avea risoluto e terminato
di darle di sua man condegna morte.
Lungamente pregar si fe' il Sigonio,
e al fin gli diè una presa d'antimonio.

        47
Per tossico se 'l piglia il conte; e passa
a Modana improviso una mattina;
saluta la moglier che non si lassa
conoscer sospettosa, e gli s'inchina.
Va scorrendo la casa e al fin s'abbassa,
per dispensare il tossico, in cucina;
ma la trova guardata in tal maniera
che non sa come fare, e si dispera.

        48
Torna a salir su per l'istessa scala
tutto affannato e conturbato in volto:
e aspetta fin che sian portati in sala
i cibi, e su la mensa il pranzo accolto.
Allora corre, e la minestra sala
de la moglier col cartoccin disciolto,
fingendo che sia pepe, e a un tempo stesso
scuote la peparola ch'avea appresso.

        49
La cauta moglie e sospettosa viene,
e mentre ch'ei le man si lava e netta,
gli s'oppone co' fianchi e con le rene,
e la minestra sua gli cambia in fretta:
mostra che s'è lavata, e siede e tiene
l'occhio pronto per tutto, e non s'affretta
a mettersi vivanda alcuna in bocca
che non abbia il marito in prima tocca.

        50
Il conte in fretta mangia e si diparte,
ché non vorria veder la moglie morta.
Vassene in piazza ov'eran genti sparte
chi qua, chi là, come ventura porta.
Tutti, come fu visto, in quella parte
trassero per udir ciò ch'egli apporta.
Egli cinto d'un largo e folto cerchio
narra fandonie fuor d'ogni superchio.

        51
E tanto s'infervora e si dibatte
in quelle ciance sue piene di vento,
ch'eccoti l'antimonio lo combatte
e gli rivolta il cibo in un momento.
Rimangono le genti stupefatte;
ed egli vomitando, e mezzo spento
di paura, e chiamando il confessore,
dice ad ognun ch'avvelenato more.

        52
Il Coltra e 'l Galiano, ambi speziali,
correan con mitridate e bollarmeno,
e i medici correan con gli orinali
per veder di che sorte era il veleno.
Cento barbieri e i preti co i messali
gl'erano intorno e gli scioglieano il seno,
esortandolo tutti a non temere
e a dir devotamente il Miserere .

        53
Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
e chi biturro o liquefatto grasso;
avea quasi perduta la parola,
e per tanti rimedi era già lasso:
quand'ecco un'improvisa cacarola
che con tanto furor proruppe a basso,
che l'ambra scoppiò fuor per gli calzoni
e scorse per le gambe in su i taloni.

        54
- O possanza del ciel, che cosa è questa?
disse un barbier quando sentí l'odore;
questo è un velen mortifero ch'appesta,
io non sentii giammai puzza maggiore.
Portatel via, che s'egli in piazza resta,
appesterà questa città in poche ore. -
Cosí dicea, ma tanta era la calca,
ch'ebbe a perirvi il medico Cavalca.

        55
Come a Montecavallo i Cardinali
vanno per la lumaca a concistoro
stretti da innumerabili mortali
per forza d'urti e con poco decoro;
cosí i medici quivi e gli speziali
non trovando da uscir strada né fòro,
urtati e spinti, senza legge e metro
facean due passi innanzi e quattro indietro.

        56
Ma poiché l'ambracane uscí del vaso
e 'l suo tristo vapor diffuse e sparse;
cominciò in fretta ognun co' guanti al naso
a scostarsi dal cerchio e a ritirarse;
e abbandonato il conte era rimaso,
se non ch'un prete allor quivi comparse,
ch'avea perduto il naso in un incendio,
né sentia odore; e 'l confessò in compendio.

        57
Confessato che fu, sopra una scala
da piuoli assai lunga egli fu posto,
e facendo a quel puzzo il popol ala,
il portâr due facchini a casa tosto:
quivi il posaro in mezzo de la sala,
chiamaro i servi, e ognun s'era nascosto;
fuor ch'una vecchia, che v'accorse in fretta
con un zoccolo in piede e una scarpetta.

        58
Già pria la nuova in casa era venuta
che 'l conte si moriva avvelenato:
onde la moglie accorta e proveduta
aveva in fretta il suo destrier sellato:
e in abito virile e sconosciuta
con un cappello in testa da soldato
tacitamente già s'era partita,
e a trovar Titta al campo era fuggita.

        59
A cui fatto saper con lieto aviso
che l'attendea del conte un paggio in sella
per cosa di suo gusto, a l'improviso
l'avea fatto venir dove stav'ella.
Com'egli alzò le luci al vago viso,
tosto conobbe la sua donna bella,
onde s'avventa, e de l'arcion la prende,
e la si porta in braccio a le sue tende.

        60
E baciandola in bocca avidamente
or la strigne or la morde or la rimira;
ed ella in lui, fra cupida e dolente,
le belle luci sue languida gira.
Parve l'atto ad alcun poco decente
che l'ebbero per maschio a prima mira:
né distinguendo ben dal pèsco il fico,
dicevano di lui quel ch'io non dico.

        61
Stette tutto quel giorno il conte in letto,
tutta la notte e la seguente ancora,
sempre con gran timor, sempre in sospetto
di doversi morire ad ora ad ora:
ond'ebbero gli amanti agio a diletto
di star anch'essi e l'una e l'altra aurora,
giunti a goder de le sciocchezze sue,
discorrendo fra lor com'ella fue.

        62
Già Titta dal Sigonio intesa avea
la beffa del veleno, e l'avea detta
a la donna gentil che ne ridea
e godeva fra sé de la vendetta,
disegnando di star, s'ella potea,
col nuovo amante e non mutar piú detta:
poiché questa le par tanto sicura
che sarebbe pazzia cangiar ventura.

        63
Ma il conte poi che fu certificato
dal collegio de' medici ch'egli era
fuor di periglio, a la campagna armato
uscí per ritrovar la sua mogliera.
Al campo venne: e quivi indizio dato
gli fu del suo caval da la sua schiera,
cui sopra un giovinetto era venuto,
né l'un né l'altro piú s'era veduto.

        64
Il conte di trovarlo entra in pensiero,
e vuol saper chi 'l giovinetto sia;
e promette gran premio a chi primiero
indizio gli ne porta o gli ne invia.
La mattina seguente uno scudiero
gli dice che 'l caval veduto avía
ne le tende di Titta, e 'l premio chiede,
ma il conte ride e 'l suo parlar non crede.

        65
E manda un uomo suo, ch'a Titta dica
quel che gli fa saper l'accusatore.
Giura Titta che questa è una nemica
fraude per sciorre un sí leale amore:
ma fra tanto si studia e s'affatica
di far tignere il pel del corridore
con un color di sandali alterato,
e di leardo il fa sauro bruciato.

        66
Poi chiama il conte, e fa vedergli in prova
tutti i cavalli suoi cosí al barlume.
Il conte che 'l candor del suo non trova
e che di Titta ciò mai non presume,
si scusa che non gli era cosa nuova
de la sua limpidezza il chiaro lume.
ma tace che da lui fuggita sia
la donna che trovar cerca e desia;

        67
e gli giura ch'un paggio gli ha rubato
il suo caval né sa dove sia gito;
ma se può ritrovarlo in alcun lato,
che 'l tristo ladroncel farà pentito.
Titta, che già si vede assicurato,
comincia a ruminar nuovo partito
di ritenersi ancor la donna appresso,
senza che ne sospetti il conte stesso.

        68
Con lei s'accorda, e trova acqua stillata
da scorza fresca di matura noce;
e 'l bel collo e la faccia dilicata
de la donna e le man bagna veloce;
si disperde il candore, e sembra nata
in Mauritania, là dove il sol cuoce:
d'un leonato scuro ella diviene,
ma grazia in quel colore anco ritiene.

        69
Come panno di grana in bigio tinto
ritiene ancor de la beltà primiera,
e nel morto color d'un nero estinto
purpureggiar si vede in vista altera;
cosí di quella faccia il color finto
ritiene ancor de la bellezza vera,
splende nel fosco, e de' begli occhi il lume
folgoreggia anco al solito costume.

        70
D'una giubba azzurrina ornata d'oro
quindi ei la veste e le ricopre il seno;
e tutta d'un leggiadro abito moro
l'adorna sí, che non gli piace meno.
Indi la mostra al conte e dice: - I' moro
per questa ingrata schiava e spasmo e peno;
e a lei di me non cal, né so che farmi:
pregala conte mio che voglia amarmi. -

        71
Il conte la saluta in candiotto,
ed ella gli risponde in calabrese:
- Bella mora, ei dicea, deh fate motto
al signor vostro e siategli cortese. -
Ella volgendo a Titta un guardo ghiotto,
sporge la bocca, ed ei con voglie accese
que' baci incontra, e da' bei labbri sugge
l'alma di lei che sospirando fugge.

        72
Teneva il conte immoto e stupefatto
a gli amorosi baci i lumi intenti,
e gli parea che Titta fosse matto
a sentir per colei pene e tormenti.
Durava quella beffa lungo tratto:
se non che de la giovane i parenti
seppero il tutto e fer saperlo al Potta,
e subito la tresca fu interrotta.

        73
Il Potta fe' condur segretamente
la donna fuor del campo; e perché Titta
percosse in quella mena un insolente
birro e gli fu grave querela scritta,
fe' pigliarlo anche lui subitamente,
e in carcere condur per la via dritta
a la città per metterlo in palazzo,
quand'egli cominciò fiero schiamazzo:

        74
ch'era pariente de gliu Papa, e ch'era
baron romano, e gir bolea en castello.
Ma il buon fiscal Sudenti e 'l Barbanera
giudice criminale, e Andrea Bargello
gli mostrar con destrissima maniera
che l'albergo in palazzo era piú bello,
e che l'avrian parato e ben fornito;
onde a la fin d'andar prese partito.

Fine del canto decimo

 
 
 

La Secchia Rapita 10-1

Post n°1340 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO DECIMO

ARGOMENTO

A Napoli se 'n va la Dea d'amore,
e 'l principe Manfredi a l'armi accende.
Al conte di Culagna infiamma il core
Renoppia, che di lui gioco si prende.
E d'uccider la moglie entra in umore
con veleno, e sé stesso incauto offende.
Fugge la moglie al campo, e si procaccia
d'amante, e fagli al fin le corna in faccia

        1
Il carro de la Notte era già fuora
del cerchio che divide Africa e Spagna,
e non dormiva e non posava ancora
il glorioso conte di Culagna.
Va tra sé rivolgendo ad ora ad ora
con quant'onore in campo egli rimagna,
poiché mercé di sua felice stella
l'incantato guerrier tratto ha di sella.

        2
Quindi pensando a la cagion che spinto
Melindo avea su 'l favoloso legno,
pargli non pur del ricco scudo vinto,
ma de la bella donna esser piú degno.
Gli somministra il naturale istinto
e la ragion del suo elevato ingegno,
che poiché 'l campo il cavalier gli cede,
d'ogn'onor, d'ogni premio il lascia erede.

        3
E su questo pensier vaneggia in guisa,
che di Renoppia già si finge amante,
e le bellezze sue fra sé divisa
cupidamente, e n'arde in un istante.
Or ne' begli occhi suoi tutto s'affisa,
or ne gli atti leggiadri, or nel sembiante;
e come lusingando il va la speme,
or gioisce, or sospira, or brama, or teme.

        4
Moglie giovane e bella ei possedea,
ma ogni pensier di lei se n'è fuggito;
e in questo nuovo amor s'interna e bea
tanto, che pargli il ciel toccar col dito.
Cosí la carne già ch'in bocca avea
su 'l fiume il can d'Esopo, un dí schernito
lasciò cader nel fuggitivo umore,
per prender l'ombra sua ch'era maggiore.

        5
Tutta la notte andò girando il conte
le piume, senza mai prender riposo;
e Febo già con l'infiammata fronte
rimovendo dal ciel l'aer ombroso,
colta l'Aurora avea su l'orizonte
ignuda in braccio al suo Titon geloso;
ond'ella rossa in volto, alzando il petto
con la camicia in man fuggia del letto.

        6
Quand'il conte levato anch'egli mosse
colà dove Renoppia era attendata,
cantando a l'improviso a note grosse
sopra una chitariglia discordata:
e giudicando che la lingua fosse
di gran momento a intenerir l'amata,
s'affaticava in trovar voci elette
di quelle che i Toscan chiamano prette.

        7
- O, diceva, bellor de l'universo,
ben meritata ho vostra beninanza;
ché 'l prode battaglier cadde riverso,
e perdé l'amorosa e la burbanza.
Già l'ariento del palvese terso
non mi brocciò a pugnar per desianza;
ma di vostra parvenza il bel chiarore,
sol per vittoriare il vostro quore. -

        8
Cosí cantava il conte innamorato
a lei che del suo amor fra sé ridea.
Ma Venere fra tanto in altro lato
le campagne del mar lieta scorrea:
un mirabil legnetto apparecchiato
a la foce de l'Arno in fretta avea;
e movea quindi a la riviera amena
de la real città de la Sirena,

        9
per incitar il Principe novello
di Taranto ad armar gente da guerra,
e liberar di prigionia il fratello
che chiuso sta ne la nemica terra.
Entra ne l'onda il vascelletto snello,
spiega la vela un miglio o due da terra;
siede in poppa la Dea, chiusa d'un velo
azzurro e d'oro a gli uomini ed al cielo.

        10
Capraia adietro e la Gorgona lassa,
e prende in giro a la sinistra l'onda;
quinci Livorno, e quindi l'Elba passa
d'ampie vene di ferro ognor feconda;
la distrutta Faleria in parte bassa
vede, e Piombino in su la manca sponda,
dov'oggi il mare adombra il monte e 'l piano
l'aquila del gran re de l'Oceàno.

        11
Tremolavano i rai del sol nascente
sovra l'onde del mar purpuree e d'oro;
e in veste di zaffiro il ciel ridente
specchiar parea le sue bellezze in loro:
d'Africa i venti fieri e d'Oriente
de le fatiche lor prendean ristoro;
e co' sospiri suoi soavi e lieti
sol Zefiro increspava il lembo a Teti.

        12
Al trapassar de la beltà divina
la Fortuna d'amor passa e s'asconde.
L'ondeggiar de la placida marina
baciando va l'inargentate sponde.
Ardon d'amore i pesci, e la vicina
spiaggia languisce invidiando a l'onde;
e stanno gli amoretti ignudi intenti
a la vela, al governo, a i remi, a i venti.

        13
Quinci e quindi i delfini a schiere a schiere
fanno la scorta al bel legnetto adorno;
e le ninfe del mar pronte e leggiere
corron danzando e festeggiando intorno.
Vede l'Umbrone ove sboccando ei père
e l'isola del Giglio a mezzogiorno;
e in dirupata e ruinosa sede
monte Argentaro in mezzo a l'onde vede.

        14
Quindi s'allarga in su la destra mano,
e lascia il porto d'Ercole a mancina;
vede Civitavecchia, e di lontano
biancheggiar tutto il lido e la marina.
Giaceva allora il porto di Traiano
lacero e guasto in misera ruina;
strugge il tempo le torri e i marmi solve
e le machine eccelse in poca polve.

        15
Già la foce del Tebro era non lunge,
quando si risvegliò Libecchio altiero
che 'n Libia regna, e dove al lido giunge,
travalca sopra il mar superbo e fiero:
vede l'argentea vela, e come il punge
un temerario suo vano pensiero,
vola a saper che porti il vago legno,
e intende ch'è la Dea del terzo regno.

        16
Onde orgoglioso, e come invidia il muove,
a Zefiro si volge e grida: - O resta,
o io ti caccierò nel centro dove
non ardirai mai piú d'alzar la testa.
A te la figlia del superno Giove
non tocca di condur: mia cura è questa,
va' tu a condur le rondini al passaggio,
e a far innamorar gli asini il maggio. -

        17
Zefiro, ch'assalito a l'improviso
da l'emulo maggior quivi si mira,
ne manda in fretta al suo fratello aviso,
che su l'Alpi dormiva, e 'l piè ritira:
corre Aquilon, tutto turbato in viso,
ch'ode l'insulto, e freme di tant'ira
che fa i tetti cader, gli arbori svelle,
e la rena del mar caccia a le stelle.

        18
Libecchio che venir muggiando insieme
i due fratelli di lontano vede,
si prepara a l'assalto, e già non teme
del nemico furor, né il campo cede:
tutte raguna le sue forze estreme,
e dal lido african sciogliendo il piede,
chiama in aiuto anch'ei di sua follía
Sirocco regnator de la Soria.

        19
Vien Sirocco veloce, onde s'accende
una fiera battaglia in mezzo a l'onde.
Si turba il ciel, si turba l'aria, e stende
densa tela di nubi e 'l sol nasconde:
fremono i venti e 'l mar con voci orrende,
risonano percosse ambe le sponde:
e par che muova a' suoi fratelli guerra
l'ondoso scotitor de l'ampia terra.

        20
Si spezzano le nubi e foco n'esce
che scorre i campi del celeste regno:
il foco e l'aria e l'acqua e 'l ciel si mesce;
non han piú gli elementi ordine o segno;
s'odono orrendi tuoni, ognor piú cresce
de' fieri venti il furibondo sdegno,
increspa e inlividisce il mar la faccia
e l'alza contra il ciel che lo minaccia.

        21
Già s'ascondeva d'Ostia il lido basso,
e 'l Porto d'Anzio di lontan surgea,
quando sentí il romor, vide il fracasso
che 'l ciel turbava e 'l mar, la bella Dea:
vide fuggirsi a frettoloso passo
le Ninfe dal furor de la marea;
onde tutta sdegnosa aperse il velo
e dimostrò le sue bellezze al cielo.

        22
E minacciando le tempeste algenti
e le procelle e i turbini sonanti,
cacciò del ciel le nubi, e gli elementi
tranquillò co' begli occhi e co' sembianti.
Corsero tutti ad inchinarla i venti
a le minacce sue cheti e tremanti;
ella in Libecchio sol le luci affisse,
e mordendosi il dito irata disse:

        23
- Moro, can, senza legge e senza fede,
t'insegnerò, con queste tue contese,
come si tratta meco e si procede,
e ti farò tornare in tuo paese. -
Quel s'inginocchia e bacia il divin piede
chiede perdon de l'impensate offese;
e fa partendo in Africa passaggio:
segue la navicella il suo viaggio.

        24
Le donne di Nettun vede su 'l lito
in gonna rossa e col turbante in testa:
rade il porto d'Astura, ove tradito
fu Corradin ne la sua fuga mesta:
or l'esempio crudele ha Dio punito
ché la terra distrutta e inculta resta;
quindi Monte Circello orrido appare
col capo in cielo e con le piante in mare.

        25
S'avanza, e rimaner quinci in disparte
vede Ponzia diserta e Palmarola,
che furon già de la città di Marte
prigioni illustri in parte occulta e sola.
Varie torri su 'l lido erano sparte:
la vaga prora le trascorre e vola;
e passa Terracina, e di lontano
vede Gaeta a la sinistra mano.

        26
Lascia Gaeta, e su per l'onda corre
tanto ch'arriva a Procida e la rade,
indi giugne a Puzzòlo, e via trascorre,
Puzzòlo che di solfo ha le contrade;
quindi s'andava in Nisida a raccorre,
e a Napoli scopría l'alta beltade:
onde dal porto suo parea inchinare
la Regina del mar, la Dea del mare.

        27
Da Nisida la Dea spedisce un messo
al principe Manfredi, e 'n terra scende;
e cangia volto, e 'l bel sembiante espresso
de la contessa di Caserta prende.
Il principe e costei d'un padre stesso
nacquero, se la fama il vero intende,
ma di madri diverse, e fur nudriti
per alcun tempo in differenti liti.

        28
Condotti in corte poi fanciulli ancora
ne l'albergo real crebbero insieme
senza riguardo, in fin che venne l'ora
che 'l fior di nostra età spunta col seme;
erano gli anni quasi uguali, e allora
de l'uno e l'altro le bellezze estreme;
onde il fraterno amor, non so dir come,
strano incendio divenne e cangiò nome.

        29
Sospettonne osservando i gesti e i visi
il padre, e maritò la giovinetta:
ma i corpi fur, non gli animi divisi,
e restò l'alma in servitú ristretta.
Or che vede venir con lieti avisi
Manfredi il messaggier da l'isoletta,
cuopre la poppa d'una navicella,
e solo e chiuso va da la sorella.

        30
Trovolla a piè d'una distrutta ròcca,
che passeggiava in un giardino ameno.
Subito scende; e, come Amore il tocca
corre e l'abbraccia e la si strigne al seno,
e la bacia ne gli occhi e ne la bocca,
e da la Dea d'amor tanto veleno
con que' baci rapisce e tanto foco,
che tutto avvampa e non ritrova loco.

        31
Volea iterar gli abbracciamenti e i baci,
ma con la bella man la Dea s'oppose,
e respignendo l'avide e mordaci
labbia, si tinse di color di rose.
- Frenate, signor mio, le mani audaci
e le voglie, dicea, libidinose;
ché non son questi a gli andamenti, a i cenni
baci fraterni, e udite perch'io venni. -

        32
Il principe ristette: ed ella, poi
che d'Enzio il fiero caso ebbe narrato,
ch'estinto il fior de' cavalieri suoi
prigioniero pugnando era restato,
le lagrime asciugando: - Or, disse, a voi
che mio padre in sua vece ha qui lasciato,
tocca mostrar, s'in voi non mente il sangue,
che la destra di Svevia ancor non langue.

 
 
 

La vipera

Post n°1339 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La vipera

Un povero Villano,
mentre tajava er grano,
s'accorse che una Vipera agguattata
stava pe' daje un mozzico a la mano.
— Ah — dice — t'annisconni, brutta boja!
Ma se t'abbasta l'anima esci fòra:
te fo passà la voja
d'avvelena la gente che lavora!
— Eh sì! — je fece lei — Se dice presto!
Io, da che monno è monno,
non ho fatto che questo:
ho sempre mozzicato
cór dente avvelenato.
Pretenneressi che buttassi via
tutta la tradizzione d'un passato
ch'è er solo scopo de la vita mia?
Io so' tutta d'un pezzo, capirai,
e nun aggisco come la ciriola
che s'arimagna sempre la parola
e s'è fatta la nomina che sai...
— Grazzie, ne faccio a meno:
— je disse l'Omo — l'opignoni tue
sèrveno solo a sparpajà er veleno;
sarai tutta d'un pezzo, lo capisco,
ma preferisco de spezzatte in due... —
E detto fatto la spaccò a metà.
E fu una botta propio necessaria,
che d'allora la Vipera fu vista
cór pezzo de la coda riformista
e la capoccia rivoluzzionaria.

Trilussa
1912

 
 
 

Il Meo Patacca 12-3

Post n°1338 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

C'è di sassi un montone, sù ce sale
MEO, ch'all'istante da cavallo smonta,
Lo seguitano i sui con furia tale,
Che parono de razza rodomonta;
El nemico sul muro ecco s'assale,
Una squadra coll'altra ecco s'affronta,
E questo stesso, in altre parti pure
Si fà, dove ci son nove aperture.

A corpo a corpo col Bassà baffuto,
MEO combatte in maniere così strane,
Che pare un odio vero habbiano havuto,
E che in realtà si dian botte da cane;
Fa ogn'un di loro il bravo e 'l menacciuto,
Con vere sciable, e vere dorindane,
Et alla disperata si lavora,
Conforme fanno l'altri sgherri ancora.

Par, che la vita mettino a sbaraglio;
Stanno tutti però con avvertenza
Di menà sol di piatto e no di taglio,
Bastandogli del vero l'apparenza.
Male non se ne fà, se no pe' sbaglio,
Et a chi tocca, bigna havè pacenza;
Pur ch'uno mostri spirito, e bravura,
Benchè ferito sia non se ne cura.

Più d'un tamburro allor, più d'una tromba
Sonà si sente e urtandosi ogni sferra,
Ogni sciabla, uno strepito ribomba,
Che pare giusto, de vedè una guerra.
Chi pe' la breccia scivola, e giù piomba,
Chi come morto, sta disteso in terra,
Chi cede ai colpi, e chi parate ha franche,
E 'sta buglia si fa con armi bianche.

C'è chi a vento, gagliarde moschettate
Giù dalla strada alla fortezza spara,
Con simili altr'e tante archibusciate,
C'è chi di drento gli risponne a gara.
C'è chi rifibbia ancor saioccolate,
E chi le scanza, e chi non le ripara;
Ma consistono queste in torzi, e coccie,
Et in carte aggrugliate, come boccie.

Taccola ancora col Bassa rugante
MEO PATACCA, e non lassa di straccallo,
Te gl'alza in su la gnucca uno spaccante,
E infiacchito colui, non pò parallo.
Te gl'appiatta la sciva in sul turbante M
a par che dia di taglio, e lui sà fallo
Così ben, così presto, che fa crede,
Gl'habbia arrivato al capo, a chi sta a vede.

De fatto, il Turco allora tracollò
Fingenno non potersi regger più,
Sopra la breccia languido restò,
A cianche larghe con la panza in sù.
Ch'era affatto sballato dimostrò,
E seppe MEO, perchè assai lesto fù,
Visto giù steso il perfido Bassà,
Prima d'ogn'altro, in te la piazza entrà.

Più a resistere allor non furno boni
I Turchi senza 'l capo, assai scontenti,
E li sgherri di MEO, come lioni,
Entrorno pe' sbranà li difennenti.
Questi già s'offerivano priggioni,
Mentre si cognoscevano perdenti,
Ma quelli sordi a barbare preghiere,
Tutti accopporno, senza da' quartiere.

De 'st'assalti, e 'st'acciacchi, è ver che finti
Son tutti i casi, e che son giochi, e spassi,
Che sono amichi i vincitori e i vinti,
Che fanno da poltroni anche i smargiassi,
Che vivi quelli son, ch'arreto spinti
Cascano come morti in sopra ai sassi,
E puro allor ch'una fintiva è questa
C'è chalch'un, ch'in realtà ferito resta.

Benchè ogni botta data sia de piatto,
Non fa in tel capo troppo bon effetto,
Perchè, chi mena, mai non fece il patto,
D'esser i colpi a misurà suggetto.
C'è poi, chi in tel cascà male s'è fatto,
Le coste urtanno su le pietre, o 'l petto,
Dà al popolo terror danno verace,
Solo il danno ch'è finto, è quel che piace.

Ma con tutti 'sti chiaiti, oh che baldoria!
Oh che festa si fà da chi è presente!
Pe' principal autor della vittoria
MEO, da per tutto celebrà si sente.
Lui, se ne sta in tel mezzo, e con gran boria,
Ma collera si piglia, e giustamente,
In tel vedè, ch'a un tratto, la canaglia
Si porta via li pezzi di muraglia.

Fava di questa tela capitale,
Havenno disegnato di donalla
A Nuccia, che mostrò bravura tale,
Che lo fece invoglia di regalalla.
Anzi, ch'un certo affetto maritale
Gl'incominzò a venir, e d'accettalla
Pe' sua sposa, allor propio si risolze,
Però del latrocinio assai si dolze.

Stava Nuccia vestita alla zerbina
La gran festa a vedè su 'na loggetta,
Che trovata gli haveva una vicina,
E sverzellava allegra, e sfarzosetta.
Pe' parè giusto poi 'na Paladina,
Se tiè carica, in mano una terzetta,
E un'altra accanto, e quelle son, che MEO,
Già donate gl'haveva in sul Tarpèo.

Si picca di sgherretta, et alli spari,
Ch'alle finestre, o su le porte, o fora,
Fanno a onor di PATACCA i bottegari,
Accoppia lei le sue sparate ancora.
Dello spirito, ch'ha da segni ciari,
Quanto scarica più, più s'avvalora,
Fa vedè, ch'a dispetto della gonna,
Vanta maschio valore in cor di donna.

PATACCA a una tal vista ce s'ingrassa,
Lei se n'accorge, e di sparà non cessa;
Già, d'essere glie pare una gradassa,
Facenno prove da capitaniessa.
Lui scegne, e lì da lei, più volte passa,
Di falla diventa MEA PATACCHESSA
Gli viè la voglia, e in quella poi si fissa,
Nè l'incertezza e il cor fanno più rissa.

Parendogli un'amazzone guerriera,
Vedenno ch'al suo genio s'assomiglia,
Sposalla intenne in quella stessa sera,
E renner al su' affetto la pariglia.
Di sgherri haveva attorno una gran schiera,
Di questi alcuni pochi se ne piglia,
E li mena con lui là dove stava
Nuccia con le terzette, a fa' la brava.

Arriva sotto e raschia, e lei lo sente,
E puntuale a quello corrisponne,
Ma con un raschiettino differente,
E graziosetto, ad uso delle donne.
Dice lui sotto voce, se al presente
Salir potrìa de sopra, e lei risponne,
Che ne domanderà, pe' convenienza,
Ai patroni de casa la licenza.

Abbitavano quì moglie e marito,
Che fecero non solo dei parenti,
A quella festa un general invito,
Ma dell'amiche ancora e conoscenti.
Perchè dunque PATACCA sia servito,
Parla Nuccia all'istessi, e assai contenti
Quelli coll'altri tutti si mostrorno,
Anzi sommo favore lo stimorno.

Come che haveva MEO gran nominanza
Pe' le su' tante grolie, hebbero a caro
Tutti di ritrovarzi a st'incontranza,
E de fa' onore a chi ha valor sì raro.
Perchè trattato fusse con creanza,
Della casa il patron, ch'era merciaro,
Scese col lume, (e Nuccia vien d'appresso)
Giù alla porta, a riceverlo lui stesso.

Quanno s'accorze MEO, che già veniva
Gente a raprirgli, e che salir poteva,
Far volze una cascata assai curriva,
Che il puntiglio d'onor lo mette a leva.
Ordina a un sgherro suo, che lo serviva,
Allor che pe' 'ste feste lui spenneva,
Che crompi de' confetti, e che c'infraschi
Nocchie, pistacchi, e pigli vino a fiaschi.

Rapre il patron la porta, e assai sparate
Non di bocche di foco, ma di carne
Furno intese in tel fa' cerimoniate
Tutti due, quante mai seppero farne.
Così fu MEO con le su' camerate
Introdutto, ma Nuccia pe' mostrarne
La contentezza, c'ha mentre lui sale,
Te lo salamalecca a mezze scale.

De sopra appena arriva MEO, ch'ogn'uno
Perchè stima ne fa, s'arrizza in piede,
Ma lui ch'incommodà non vuò nisciuno,
Fa istanza a tutti, che si torni a sede.
S'assettano le donne, ma ciasch'uno
Dell'homini profidia, e non vuò cede.
PATACCA incoccia, e litiga un pezzetta,
Ma co' i su' sgherri, è ad ubbidì costretto.

A tutti fa un saluto circolare,
Poi con prosopopèa cominza a dire:
"Io ben conosco, e non lo so negare,
Signori miei! che troppo fu il mio ardire.
Certo vi son venuto a disturbare,
Ma spero che m'habbiate a compatire;
Nostrodine lo sà, che fece errore,
Ma causa fù del mancamento Amore.

Di lor altri ad ogn'un serva d'avviso,
Ch'io porto antico, et obrigato affetto
Alla signora Nuccia, e che fu intriso
Sempre il mio cor d'amore, e di rispetto".
(Quì l'occhi abbassa, e si fa roscia in viso
Nuccia con un modesto sogghignetto),
"Ma voglio, che cognosca in questa sera
S'è questa mia benevolenza vera.

Mentre che botte spara, e che sgherreggia
Com'una romanesca Bradamanta,
Da me 'l suo gran valore si vagheggia,
E 'sto mio core stupido s'incanta,
In vede, che com'io quasi guerreggia.
Subbito un bel penziero me se pianta
In tel mezzo alla gnucca, e tra me stesso
Dico: "Mia sposa, io voglio farla adesso".

Perch'habbia effetto mò, quel che penzai,
Vorria quì propio dargliene la fede,
E de 'sta confidenza, che pigliai
Di venir qua, perdon da me si chiede".
Sì presto un tal favor non sperò mai
Nuccia, ch'incontro a MEO PATACCA sede,
Bench'habbia gusto granne de 'sta cosa,
Pure, ce fa un tantin la schizzignosa.

Prima, smorta divien, poi colorita.
Fissa in terra li sguardi, e poi li volta
Inverzo MEO, ma solo alla sfuggita,
E torna ad abbassalli un'altra volta.
Se ne sta savia savia, et intesita,
Vergognosetta alfin, la lingua sciolta
In parole dolcissime, gli dice:
"Più che sposa io sarà Sua servitrice".

Allor di prausi ribombò la stanza,
E si dettero segni d'allegria,
Lodandosi da quella radunanza
Dell'uno e l'altra la galanteria;
Poi della fede la reciprocanza
Dei circostanti ogn'un vedè vorria,
Et ecco, che in un subbito si fece
Tra li due sposi il cinque e cinque a diece.

Già prima biscottini, e ciammellette
Crampo haveva el patron pe' farzi onore,
E appena 'sto bel fatto succedette,
Che lì portà li fece dal fattore:
Erano più bacili, e poco stette
A ritornà lo sgherro spennitore.
Li rinfreschi s'uniscono, e d'accordo
Si dà principio al general bagordo.

S'alza la grolia s'alza, e si sboccona,
E certo, non ne manca del dolciume;
Ce n'è a bizzeffe de 'sta robba bona,
E quì dir si potria: s'affoga Fiume.
Nuccia fa la figura di patrona,
E nisciun propio, senza lei prosume
Di toccà gnente, e al solito ogni cosa,
Prima ch'a ogn'altro, portasi alla sposa.

Ma lei che non si perde in te la folla,
Ch'è giovane sacciuta e pizzutella,
Di provedè le femmine s'accolla
El peso, e dà la parte a questa e a quella.
Così fa MEO coll'homini, e satolla
Ne resta la brigata, e si sbordella,
Ma solo in brinzi e prausi, e perchè brilla
D'allegrezza ogni cor, però si strilla.

Tutti doppo da casa insieme uscirno,
E a spasso in giro pe' le feste annorno,
Molt'altri sgherri poi con MEO s'unirno,
E lui con la sua sposa accompagnorno.
Li "Eh! viva", a piena bocca si sentirno,
E non sol, per un pezzo seguitorno,
Ma pe' le strade sempre più crescerno,
E li dui sposi gran piacer n'haverno.

Vistosi intorno MEO popolo assai,
Si ferma, e dice: "O cari amici miei!
Sappiate, che finor tra me penzai,
Che troppo è quell'onor, ch'io ricevei.
È ver che pe' 'ste feste fatigai,
Ma una minima parte non facèi
Di quello che dovevo, e non so poi,
Perch'io tante onoranze habbi da voi.

Ma sia quel che si vuò, tutti ringrazio
D'un tamanto favor, e v'assicuro,
Che di quanto già feci, io non so' sazio,
Ch'altri acquisti, e vittorie mi figuro.
Allor farò de i Turchi un novo strazio;
Per l'onor mio, per la mia sposa, il giuro.
Quante sconfitte havranno, io già l'aspetto,
Di far tant'altre feste v'imprometto".

O mò sì, che per aria i strilli vanno,
E le grolie di MEO pel tavoliere;
Quelli, ch'inteso el su' parla non hanno,
Che cosa ha ditto cercon di sapere;
Ci han gusto loro pur, mentre lo sanno,
Così han fine le feste, e a più potere
Strilla dei sgherri allor la comitiva:
"Eh viva sempre MEO PATACCA, eh viva!".

Fine del Duodecimo ed ultimo Canto.

 
 
 

Li cannibbali

Post n°1337 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Li cannibbali

In un paese de li più lontani,
ch'è sempre pieno de miniere d'oro,
c'è un popolo guidato da un Re moro
capo de li Cannibbali africani.

Mentre el Re, come tutti li sovrani,
nun parla che de pace e de lavoro,
li sudditi se magneno fra loro
fino a sbranasse peggio de li cani.

Pure la carne bianca forastiera
ogni tanto l'assaggeno, ma poi
aritorneno sempre a quela nera;

ché er cannibbale vero, in generale,
sente l'amor de patria e, come noi,
preferisce er prodotto nazzionale.

II

Tutti, laggiù, dar ricco ar poverello,
cianno per distintivo un cerchio ar naso:
e el Re, che li tiè d'occhio, quann'è er caso,
li lega, uno per uno, pe' l'anello.

Se quarche moro, poco persuaso,
cerca de mette bocca, sur più bello,
el Re tira lo spago, e allora quello,
come sente tirà, mosca Tomaso!

Co' 'sto sistema er popolo rimane
legato a chi lo guida o lo stracina
e l'ubbidisce come fosse un cane.

Ma er capo, che capisce e che raggiona,
s'accorge spesso che la disciprina
ne viè da lo spaghetto che funziona.

Trilussa

 
 
 

Il Meo Patacca 12-2

Post n°1336 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Colcano i romaneschi allor la botte,
Poi ruzzicà la fanno, e drento resta
Il Giudìo, che gli dànno delle botte
Se gnente fora vuò caccia la testa.
Certo, che n'anderìa coll'ossa rotte
Se durasse per lui sì brutta festa,
Ma fu impedita dai patroni istessi
Di quel palazzo, con commanni espressi.

Parve a 'sti discretissimi signori
Un troppo strazio 'sto ruzzicamento,
Però mandorno giù li servitori
Per liberà l'Ebreo da quel tormento.
Fu da questi aiutato a scappà fori,
E nisciuno d'opporzi hebbe ardimento,
Ma in tel vedello poi così azzuppato,
Dal popolo lo strillo gli fu dato.

Pare un pulcino uscito dalla coccia.
Nel moverzi impicciato, e dove passa,
Mentre il vestito da ogni parte goccia,
Della su' bagnatura il segno lassa.
Ma quel ch'è peggio poi, giocanno a boccia
Stavano certi allor, che lui trapassa,
E mentre uno a strucchià si mette a posta,
Gli dà ne i stinchi una bocciata tosta.

Mezzo sciancato el povero Bacurre
Va inciampicanno, e in tel fuggì s'imbroglia,
L'azzoppatura gl'impedisce il curre,
E meno lo pò fà, più che n'ha voglia.
Innanzi e arreto il popolo gli scurre,
Lui con questo s'impiccia, e alfin si sbroglia.
Al Ghetto se ne va, ma 'l disgraziato
Non pò rentrà non pò, perch'è inserrato.

O adesso sì, che chalched'un l'accacchia,
E lui per questo più si spauricchia,
Lo salva un'osteria, che La Cornacchia
Fà per insegna, ove ogni dì sbevicchia;
Rentra, e dereto al banco s'accovacchia;
E attaccatosi all'oste, si rannicchia;
Ma più d'un sgherro a fargli s'apparecchia
Assai peggio dell'acqua della secchia.

I garzoni dell'oste allor abbracciano
Quelli, ch'a forza, di rentrà procurano,
Li trattengono, e poi fora li cacciano,
E lo scampo al Giudio così assicurano.
Serran la porta, e i sgherri allor s'affacciano
Alla mostra, ma l'osti, ecco la turano
Con le tele, e ciariti così restano
Coloro, che l'Ebreo più non molestano.

De 'ste difese, e de 'ste grazie ostesse
La causa fu, ch'era avventor antico,
E che lì fava gran baldorie, e spesse,
Se al par d'ogn'altro era del taffio amico.
Così più dell'amor fu l'interesse,
In liberallo da sì brutto intrico,
Anzi, che quanno affatto uscì de guai,
Li regalò assai ben lo Sciabbadai.

Ogni poco succedono 'sti casi,
Mò scappà gli riesce, e mò so presi
I meschini fuggenno, e quasi quasi,
Ne restan certi gravemente offesi.
Basta ch'un sgherro da lontano annassi
Ch'è Giudìo, quel che viè, ch'a passi stesi
L'arriva, e poi ne fanno altri sgherrosi
Strapazzi, poco men che sanguinosi.

Al Ghetto MEO fratanto se ne viene
De i garbugli all'avviso, et osservata
Così gran tibaldèa non si contiene
Di farci a prima vista una risata.
Fermo, chalche pochetto, s'intrattiene,
A vedè 'sta piacevole sgherrata,
Che tale gli pareva, anzi l'approva,
Perchè spiritosaggine ce trova.

Ma quanno lui si va accorgenno alfine,
Ch'i sgherri tutti so' infoiati a segno,
Che par voglino fa' delle ruine,
Che non hanno risguardo, nè ritegno;
Che già portano certi le fascine,
Pe' dar foco alle porte, e che l'impegno
È troppo ardito, fra sè stesso penza,
Di raffrenà una tanta impertinenza.

Già prevede quel mal, che pò succedere,
E che questa non è cosa da ridere,
E lassannoli fa', ben si pò credere,
Che quantità d'Ebrei s'habbia da uccidere.
Già sa ch'havranno li scontenti a cedere,
Se per paccheta già li sente stridere,
Che s'a i portoni lassa il foco accendere
El Ghetto allor non si pò più difendere.

Perchè ciò non si faccia, attorno gira,
A chi fa zenno, et a chi parla piano,
A chi forte, chi via pel braccio tira,
A chi leva li rocci dalle mano.
Brava, minaccia, e allor chi si ritira.
Senza fiatà, chi se ne va lontano,
E basti il dir ch'ogn'un l'orgoglio affiacca,
Pe' 'l rispetto, che porta a MEO PATACCA.

Ecco col giorno, viè a finì lo spasso
Dei radunati sgherri, e fu dismesso
L'assedio d'un essercito smargiasso,
Ch'a 'ste porte del Ghetto s'era messo.
Allor l'Ebrei, che l'ultimo sconquasso
Si credevano havè quel giorno stesso,
Vedenno il gran pericolo rimosso,
Si discacciorno ogni timor da dosso.

Così a bastanza il popolo si sfoga,
Et a PATACCA d'ubbidì non nega,
E a quell'autorità, che lui s'arroga,
Perchè per il ben pubrico l'impiega.
Procurò di sapè la Sinagoga.
Già liberata da sì brutta bega,
Chi quello sia, ch'umilia, e mette in fuga
'Sta Gente Sgherra, che con tutti ruga.

Ma senza uscir dal Ghetto in quella sera
Congregati i Bacurri in te li scoli,
Pe' discorrerla un pò, seppero ch'era
PATACCA il capitan de i sassaioli:
Un Giudio lo vedè da una ringhiera,
Dove havevano fatto i capannoli,
E fu quello, ch'a nolito le robbe
Gli dette da guerriero, e lo conobbe.

Fattasi la congrega, si risolze
Mandargli un bel regalo, e chi propose
Un sbruffo di monete, e chi non volze,
Chi penzò a gioie, e chi a diverze cose.
Ma d'ogn'altro Giudio meglio ci colze,
E con giudizio ci su' penzier espose,
Che fu molto a proposito l'Ebreo,
Che haveva visto, e cognosciuto MEO.

A tutti da costui fu suggerito,
Che saria stata cosa conveniente,
Il trovà quel medesimo vestito,
Che pigliò in presto, e fargliene un presente.
Per essere assai bello, e ben guarnito,
E aggiustato al su' dosso, certamente
Che havuto l'haverebbe molto a caro,
Più assai de chalche somma di denaro.

Piace il penziero, e in opera se mese,
E ce s'aggiunze ancora al vestimento
Un spadino galante alla Franzese,
Che havea la guardia et il puntal d'argento.
Un de i primi Rabbì cura se prese
D'annà da MEO pe' fargli el complimento
Con dir, che a lui tutti obbrigati sono
Li Jaccodimmi, e presentagli el dono.

Da 'sto Rabbì restò ben persuasa
La Sinagoga, e l'abbito, in tel vano
D'una canestra fonnarella e spasa,
Messo a cuperto fu da un taffettano.
Và lui da MEO, che s'era già la casa
Fatta insegnà, e 'na donna, da un mignano,
Dice ch'è uscito, e ch'a trovallo vada,
Che sta a parlà con un amico in strada.

Se gl'accosta el Rabbì, ch'un Giudiolo,
Che gli porta el regalo, s'è menato,
Lo sbarretta, e gl'inchina el cucuzzolo,
Gli fa il ringraziamento concertato;
Gli sporge il dono, e MEO lo scrope, e solo
Gli dà una vista, e dice, a lui voltato:
"L'accetto, lo gradisco, e a te lo rendo,
Perch'io dono le grazie, e non le vendo.

Voglio però, commanno, e s'ubbidisca,
Che quanno s'haverà l'avviso certo
Della vittoria, il Ghetto s'ammannisca
A far con noi le feste di concerto;
Nisciun ci sia di voi, che contradisca,
Ma siano tutti pronti, e te l'avverto,
Che se in questo s'ardisce di mancamme,
Oh allora sì, va 'l Ghetto a foco e a fiamme".

El Rabbì si spaventa a 'sta minaccia,
E quasi quasi trema de paura;
Che tutto si farà quel ch'a lui piaccia,
A nome dei compagni l'assicura;
Poi di novo s'arrisica, e si sfaccia,
Lo prega, lo riprega, lo scongiura,
Che accetti el dono, e MEO con albascìa
Fa un gesto di rifiuto, e marcia via.

Tornò al Ghetto costui, tutto ridisse,
Et in particolar l'ordine havuto.
Parze un pò duro, ma, che s'ubbidisce,
Fu dalla Sinagoga risoluto.
Aspettanno si stette, che venisse
Un più sicuro avviso, e alfin venuto,
L'Ebrei de fatto fecero le feste,
Ch'a loro già da MEO furno richieste.

Alle porte vicine a Pescaria
Gnente si fece, perchè dolorosa
È quella strada, e non si goderia,
Benchè ci fusse da vedè chalcosa;
Solo il portone di piazza Giudia
Con un'acconciatura luminosa,
Pe' forza sì, ma però bene ornorno,
Messici i lampadini, attorno attorno.

D'oglio e di cera se ne fa uno struscio,
A zaganelle e razzi si dà spaccio,
Delle botti si vede ancor l'abbruscio,
Che fanno in drento al Ghetto un focaraccio.
Non c'è finestra, non c'è porta o buscio,
Dove non ce se veda Ebreo mostaccio;
Stanno tutti a guardà, scionìti e perzi,
Cose nel Ghetto inzolite a vederzi.

Sul su' cavallo giostrator che vola,
MEO ci dette una scorza, in prescia in prescia;
E appena tempo havè, di darci sola,
In tel passàne, una guardata sbiescia.
Tanto però gli basta, e si consola,
Che 'sta festa a su' modo gli riescia.
Poi via scivola presto, e va a drittura
Dove ha negozio di più gran premura.

D'ordine suo le voci eran già sparze
Pe' Roma, che nisciun deva astenerze
Di rinovà le feste, e ben gli parze,
In quel jusso, che havea, di mantenerze.
Et ecco in giro machine e comparze,
O somiglianti, o almen poco diverze
Dalle già fatte prima, e piacquer forze,
O al paro, o più di quelle a chi ci accorze.

Più facile saria, che si contassero
In drento a un lago i ciuchi lattarini,
Che quanti giusto son, si computassero
L'Autunno, in un tinello, li moschini;
Ch'i peli tutti ancor si numerassero
Nelle barbe di cento levantini,
Ch'il numero raccoglier d'ogni festa,
Ma tutte io lasso, e sol dirò di questa.

For di piazza Navona, ma vicino
A un capo dell'istessa, in un biscanto,
C'è la famosa statua di Pasquino,
Che da per tutto nominata è tanto.
C'è uno spazio più in là, dove ha 'l confino
Della Cuccagna il vicolo, et alquanto
È largo, e attorno ha ricchi bottegari:
Ce fanno piazza li matarazzari.

S'affrontò, ch'in tel mezzo ammontonate,
In quantità di dicidotto, o venti,
C'erano grosse pietre ritrovate
Nel farzi d'una casa i fonnamenti.
Costorno, a forza d'argani tirate
In sopra a terra, assai monete e stenti,
Et ha MEO dalla sorte un gran favore,
Che su quel d'altri si pò far onore.

Su questi sassi el su' penzier lui fonna,
E gli pare haver trova una Cuccagna;
Quì Buda ci figura, e la fà tonna,
E di spenderci assai non si sparagna.
Di travi da per tutto la circonna,
E quantità di tela di Bevagna
Fa stirà intorno a quelli, et ecco finta
La fortezza real di muro cinta.

Compagni di valor mette quì drento,
C'han l'armi alla Turchesca, et i vestiti;
Questi son quasi in numero di cento,
E si mostrano all'opera ammanniti;
C'è poi con certi baffi da spavento,
El Bassà, che commanna, e tutti arditi
Par che stimino facile l'impresa,
Di far una bravissima difesa.

MEO de fora, a cavallo, c'ha in aiuto
Molti sui sgherri, che tenea nascosti,
La fà da commannante potenziuto,
Là te li mena, e te li mette ai posti.
Scurre in più parti, tutto faccennuto,
Sino, che con bell'ordine disposti
Vede sotto le mura assai valenti,
Pronti all'assalto, li su' combattenti.

Si finge de sparà l'artigliarìa,
Ma tal cosa non c'è, son mortaletti,
Che fan sentir guerrifica armonìa
Dal sono accompagnati dei moschetti;
Giusto di cannonesca batterìa
Le botte si figurano, e l'effetti.
Si finge ancora, che razzeschi fochi
Sieno mine, e si fa breccia in più lochi.

C'era chalch'uno, ch'alla tela accosto,
Ma di drento, un cortello haveva in mano,
E pe' non farzi vede, e star nascosto,
S'annava ringriccanno come un nano;
Ma allor quanno più cresce il tiritosto
Del foco, delle botte e del baccano,
Mentre el popolo sta senz'abbadarci,
Taglia el muro de canapa in più squarci.

 
 
 

Le penna d'oca

Post n°1335 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Le penna d'oca

Un Oca, dispiacente
perché la gente la trattava male,
se lagnò con un Ciuccio: un Somarello
piuttosto attempatello.
— A sentì l'omo, l'Oca è l'animale
più stupido, più scemo, più imbecille;
nun s'aricorda che le poesie
de Dante, Ariosto, Tasso e d'antri mille
so' uscite tutte da le penne mie?
— Percui — disse er Somaro — è 'na fortuna
d'avé in mano un ucello accusì raro!
Famme er piacere, impresteme 'na penna,
perché, pe' quanto poco me n'intenna,
chi lo sa che pur'io nun ciarieschi
a fanne quarchiduna? —
E je le strappò tutte, una per una,
pe' scrive li sonetti romaneschi!

Trilussa

 
 
 

La Secchia Rapita 09-2

Post n°1334 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        42
De l'isola partissi in questo dire,
e ne lo scudo suo Tognon fu letto.
Dopo costui si vider comparire
due cavalier di generoso aspetto
che 'l giostratore andarono a ferire
l'un dopo l'altro con sembiante effetto:
rupper le lance ne l'argento terso,
e l'uno e l'altro si trovò riverso.

        43
Restar gli scudi, e Paolo e Sagramoro
ne gli orli impressi. Indi a giostrar si mosse
sovra un corsier di pel tra bigio e moro
un cavalier con piume bianche e rosse
e sopravesta di teletta d'oro
ricamata a troncon di perle grosse,
ch'una mano di paggi intorno avea
vestiti a superbissima livrea.

        44
Questi era un cavalier non piú nomato,
figlio d'un romanesco ingannatore
che pria fu rigattier, poi s'era dato
in Campo Merlo a far l'agricoltore,
e 'l grano e le misure avea falsato
tanto che divenuto era signore;
e per aggiugner gloria al figlio altiero,
quivi dianzi il mandò per venturiero.

        45
Costui se 'n venía gonfio come un vento,
teso ch'un pal di dietro aver parea:
fu conosciuto a l'armi e al guarnimento
e a la superba sua ricca livrea.
Potrei rassomigliarlo a piú di cento
di non forse inegual prosopopea;
ma toccherei un mal vecchio decrepito,
e la zerbineria farebbe strepito.

        46
Ninfeggiò prima e passeggiò pian piano,
poi maneggiò il destriero a terra a terra;
in fin che si ridusse in capo al piano
dove s'avea da incominciar la guerra.
Ecco la tromba; ecco con l'asta in mano
vien l'uno e l'altro, e fa tremar la terra:
risonarono i lidi a le percosse;
né a quell'incontro alcun di lor si mosse.

        47
Fu il primo cavalier ch'in sella stette
contra il campion mantenitor costui:
e ben maravigliar fe' piú di sette
che non credean giammai questo di lui.
Il cavalier de l'isola ristette
pensoso un poco, e favellò co' sui,
indi a le mosse ritornando, fôro
lance piú sode appresentate loro.

        48
Ma come l'altre si fiaccaro e fero
salire i tronchi a salutar le stelle:
piegossi l'uno e l'altro cavaliero
e fur per traboccar giú de le selle.
Perdé le staffe il romanesco altiero,
e vide l'armi sue gittar fiammelle;
ma rinfrancossi al suon ch'intorno udiva
del nome suo da l'una e l'altra riva.

        49
Come si gonfia a l'Euro in un momento
il Mar Tirreno, e sbalza e fortuneggia,
cosí il cor di costui si gonfia al vento
del populare applauso, e ne folleggia:
va tronfio e pettoruto, e bada intento
a i saluti, a gli sguardi, e paoneggia;
e fatta c'ha di sé pomposa mostra,
nuova lancia richiede e nuova giostra.

        50
Fremean Perinto e Periteo di sdegno
che durasse costui tanto in arcione;
quando diede la tromba il terzo segno
da la parte che guarda il padiglione,
poser le lance i cavalieri a segno,
e venner furiosi al paragone:
ma ne l'elmo colpito, il romanesco,
finalmente caddé su l'erba al fresco.

        51
Di terra si levò tutto arrabbiato;
trasse la spada e sbudellò il destriero,
come fosse il meschin del suo peccato,
de la caduta sua l'autor primiero:
indi al guerrier de l'isola voltato,
- Ti sarà, disse, d'aspettar mestiero,
ch'uno scudo i' ti dia d'altro lavoro;
ché questo i' nol darei per un tesoro. -

        52
Sorrise il giostratore, e disse: - Questo
teco giostrando ho vinto, e questo voglio.
Il mio val piú del tuo, né saria onesto
che ti volessi anch'io cambiare il foglio. -
Rispose il romanesco: - I' ti protesto
che lo difenderò sí come i' soglio. -
E tratto il brando, al solito costume
si scosse il suol, ma non si spense il lume.

        53
E un asinello uscí, che due stivali
per orecchie e una trippa avea per coda;
con l'orecchie fería colpi mortali,
e la coda inzuppata era di broda:
terribil voce avea, calci mortali,
la pelle d'un diamante era piú soda;
e sempre che ferir potea d'appresso,
balestrava col cul pallotte a lesso.

        54
Parean polpette cotte ne l'inchiostro,
e appestavano un miglio di lontano.
Titta di Cola s'affrontò col mostro,
(che tal nomossi il cavalier romano),
e gli fu d'altro che di perle e d'ostro
ricamato il vestito a piena mano.
Egli del brando a quella bestia mena,
a segna il pelo ove lo coglie a pena.

        55
L'asino un par di calci gli appresenta,
indi mena la coda agile e presta;
apre a un tempo la canna, e lo sgomenta
co i ragli che tremar fan la foresta;
sbatte l'orecchie, e di ferir non lenta
or le spalle, or i fianchi, ora la testa;
volta la poppa e tuona, e a l'improviso
fulmina, e a fresco gli dipinge il viso.

        56
Il buon roman, che la tempesta sente,
getta lo scudo ed a fuggir si pone:
rise il mantenitor dirottamente,
e tornò in su le mosse al padiglione.
Ma già la notte il carro a l'occidente
volgea, né compariva altro campione:
ond'ei si chiuse ne la tenda, e 'n tanto
dieron principio i galli al primo canto.

        57
Il dí seguente il giostrator si stette
nel padiglione, e non fe' mostra alcuna;
ma poi ch'usciro i gufi e le civette
su per gli tetti a salutar la luna,
a suon di trombe con nov'armi elette
anch'egli fe' vedersi in veste bruna:
bruno il cimiero e bruno il guarnimento,
ma bianco era il destrier piú che l'argento.

        58
E i paggi, che servian per candelieri,
dove dianzi parean de la Guinea,
parean scesi dal cielo angeli veri,
e come i visi ancor cangiâr livrea.
Tutti comparver con vestiti neri
in calze a tagli; onde a veder correa
con voglia ingorda la milizia Tosca
tirata dal favor de l'aria fosca.

        59
E 'l giovine Averardo, il qual non s'era
fin allor visto appresentarsi in mostra,
fu il primo a comparir su la riviera
e 'l primo a uscir di sella in quella giostra.
Diede lo scudo e alzossi la visiera,
e si fermò nella fiorita chiostra
a ragionar co' paggi e a fare inchiesta
del nome del guerriero e di sua gesta.

        60
Da molti lumi intanto accompagnata,
de l'isola era uscita una donzella
in abito stranier candido ornata,
e di maniere accorte e 'n viso bella:
e venne ove Renoppia era attendata,
con due scudieri e con due paggi in sella,
e gli acquistati scudi appresentolle,
e in nome del guerrier poscia narrolle:

        61
che la fama l'avea del suo valore,
quel dí ch'armata in su la riva corse
e l'esercito ostil già vincitore
sostenne, e mise la vittoria in forse,
quivi condotto a far sol per suo amore
la bella giostra e in avventura a porse;
onde chiedea che non s'avesse a sdegno
che gli scaldasse il cor foco sí degno.

        62
Vergognosa Renoppia e sdegnosetta:
- Ruffianella mia, disse, a l'aria, a i venti
meco il vostro guerrier l'arti sue getta,
ch'io non fui vaga mai d'incantamenti.
Ma voi che siete bella e giovinetta,
e che con lui vi state a lumi spenti,
perché lasciate voi che i premi vostri
v'escan di mano e che per altra giostri? -

        63
- Serva son io, rispose la donzella,
e troppa per me fôra alta mercede;
possiede il mio signor terre e castella,
né inchinerebbe a la mia sorte il piede. -
Renoppia allora, astuta come bella:
- Se questo è, soggiungea, fategli fede
ch'io mi chiamo ubbligata a quel valore,
che mostra con la lancia in farmi onore.

        64
E se ben forse avrei piú caro avuto
ch'in soccorso de' nostri a vero marte
con l'armi per mio amor fosse venuto
senza apparecchio alcun di magic'arte;
pur l'affetto gradisco e lo saluto:
e questa gli darete da mia parte. -
E di seno, a quel dir, senza intervallo
si trasse una crocetta di cristallo,

        65
dov'era un dente di san Gemignano,
e Papa Onorio l'avea benedetta,
e finse porla a la donzella in mano,
che la desse al guerrier de l'isoletta:
ma quella sparve come un sogno vano
al subito toccar de la crocetta,
e sparvero con lei paggi e scudieri,
e rimasero sol gli scudi veri.

        66
Lesse i nomi Renoppia, e quelli rese
ch'esser trovò de' cavalieri amici;
gli altri di ritener consiglio prese
come spoglie e trofei de' suoi nemici.
Intanto il giostrator seguía sue imprese
con gli usati successi ognor felici:
quand'un guerriero ignoto in veste gialla
al ponte capitò su una cavalla.

        67
La lancia lunga piú d'ogn'altra avea
due palmi, e una pantera in su l'elmetto:
ma sospeso venía sí che parea
ch'andasse a quell'impresa al suo dispetto.
Sonâr le trombe, e 'l suon che gli altri fea
dentro brillar, fe' in lui contrario effetto:
corre, ma sembra a i timidi atti fuore
portato dal destrier, non già dal core.

        68
Pur si ristrigne ne gli arcioni, e abbassa
la lancia in su la resta, e gli occhi serra
in arrivando, e i denti strigne, e passa
come chi va sol per vergogna in guerra:
e a quell'incontro l'inimico lassa,
con maraviglia de' due campi in terra.
Allor tutta s'udí quella riviera
gridar: - Viva il campion de la pantera. -

        69
Ed ei maravigliando al suon rivolto
vide l'emulo suo giacer disteso:
onde di sé per allegrezza tolto
fermossi a riguardar tutto sospeso.
Ma l'abbattuto, a l'infiammato volto
mostrando il cor di fiero sdegno acceso,
ratto risorse, e con un piè percosse
la terra e 'ntorno il pian tutto si scosse:

        70
e s'estinsero i lumi, e 'l padiglione
sparve fra tuoni e lampi in un baleno,
e l'isoletta diventò un barcone
colmo di stabbio, di fascine e fieno;
né rimasero in esso altre persone
di tante, onde pur dianzi era ripieno,
che 'l cavalier vittorioso e un nano
ch'avea uno scudo e una lanterna in mano.

        71
E lo scudo porgendo al cavaliere
- Questo è il premio, dicea, del vincitore
tratto da la colonna, e in tuo potere
lasciato al dipartir dal mio signore;
che per ragion di cortesia ti chere
che, come l'hai de l'alto tuo valore,
cosí ti piaccia ancor farlo avisato
del nome e de la patria onde se' nato. -

        72
Ringalluzzossi il cavaliero e al nano
rispose: - Al tuo signor riferir puoi
che la mia stirpe vien dal lito ispano,
ed è famosa oltre i confini eoi.
Quel Don Chisotto in armi sí sovrano,
principe de gli erranti e de gli eroi,
generò di straniera inclita madre
don Flegetonte il bel, che fu mio padre.

        73
Questi in Italia poscia ebbe domíno
e si fe' in ogni parte memorando;
solo a la gloria sua mancò Turpino
che scrivesse di lui come d'Orlando:
eroe non l'agguagliò né paladino,
e sol cedé al valor di questo brando;
e perché cosa occulta non rimagna,
digli ch'io sono il conte di Culagna.

        74
Ma poi ch'ho soddisfatto al tuo desío
e t'ho dato di me notizia intera,
resta ch'ancor tu soddisfaccia al mio
in dirmi il nome e la sua stirpe vera. -
Rispose il nano: - Informerotti anch'io
di quel che brami, usciam de la riviera
ché tanti cavalier che colà vedi
bramano anch'essi quel che tu mi chiedi. -

        75
Giunser del fiume in su la destra sponda
dove molti guerrier facean soggiorno;
che, subito che 'l nano uscí de l'onda,
gli furon tutti a interrogarlo intorno.
Egli che lingua avea pronta e faconda,
fermando il piede: - A voi, disse, ritorno
per sodisfare a la comune voglia:
state or a udir, né alcun di me si doglia.

        76
Poi che de la città cacciati foro
gli Aigoni dal furor de' Ghibellini,
e 'l conte di Vallestra capo loro
uscí con gli altri anch'ei fuor de' confini,
trovò per arte magica un tesoro,
e fe' ne' monti al suo castel vicini
una grotta incantata, ove gran parte
del tempo stassi esercitando l'arte.

        77
Quivi un figliol di tenerella etate
ch'unico egli ha, detto Melindo, e' tiene;
le cui maniere nobili e lodate
destan nel vecchio padre amor e spene.
Questi, uditi i costumi e la beltate
e 'l valor che mostrò su queste arene
una donzella in questo proprio loco,
arse per lei d'inestinguibil foco;

        78
e con prieghi e sospir dal padre ottenne
di comparire a far qui di sé mostra;
onde su l'isoletta in campo venne
armato a mantener la bella giostra.
Ma il timoroso vecchio, a cui sovvenne
l'età ineguale a la possanza vostra,
fece un incanto ch'esser perditore
per forza non potea né per valore.

        79
Fu l'incanto ch'ei fe' con tal riguardo
che non potea cader Melindo a terra,
se non venía un guerrier tanto codardo
che non trovasse paragone in terra;
e quanto piú l'incontro era gagliardo,
tanto meglio il fanciul vincea la guerra;
come il ferir del fulmine che spezza
con piú furor dov'è maggior durezza.

        80
L'aste, il cavallo e l'armi onde guernito
era il fanciul, tutte incantate avea:
e chi traea la spada era spedito,
ché de l'isola a forza uscir dovea.
Il cambiar lancia era miglior partito;
ma non per questo il cavalier vincea,
se non era di forza e di valore
piú d'ogn'altro a Melindo inferiore. -

        81
Qui tacque il nano: e 'n giubilo fu volto
de gli abbattuti il mal concetto sdegno.
Ma il conte di Culagna increspò il volto,
e ritirando il passo e d'ira pregno
trasse la spada, e a quel piccin rivolto
che di timore alcun non facea segno
- Tu menti, disse, menzognier villano,
e te lo manterrò con questa in mano.

        82
Tu vorresti macchiar la mia vittoria;
ma non la macchierai, brutto scrignuto,
ché già nota per tutto è la mia gloria,
né scusa ha il tuo signor vinto e abbattuto. -
Non volle il Nano entrar seco in istoria;
ma fatto a que' signori umil saluto,
al conte che seguiva il suo costume
rispose: - Buona notte - e spense il lume.

 
 
 

La prescia

Post n°1333 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La prescia

Nell'Isoletta de li Presciolosi
cianno un da fa' che nun finisce mai:
lo stesso Re, che regola er via-vai,
sorveja che nessuno s'ariposi.

— Forza! — je strilla — Presto! — E tutti quanti,
per esse primi, fanno a chi più corre.
Perfino er vecchio orloggio de la torre,
pe' nun sbajasse, va mezz'ora avanti.

Trilussa
1938

 
 
 

La Secchia Rapita 09-1

Post n°1332 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO NONO

ARGOMENTO

Melindo innamorato al ponte viene,
e tutti i cavalieri a giostra appella.
Su l'isola incantata il campo tiene,
e fa mostra di sé pomposa e bella.
Cadono i primi, e fan cader le spene
a gli altri ancor di dirmanere in sella.
Al fin da un cavalier non conosciuto
vinto è l'incanto, e 'l giovine abbattuto.

        1
Eran partiti già gli ambasciatori
venuti a procurar la pace in vano;
però ch'insuperbiti i vincitori
non si voleano il Re levar di mano;
e 'l Nunzio anch'egli entrato era in umori
ch'ei si mandasse al gran Pastor romano,
come in possanza di maggior nemico,
per piú confusion di Federico.

        2
Ma finita la tregua ancor non era,
quando pel fiume in giú venne a seconda
una barchetta rapida e leggiera,
che portava due araldi in su la sponda.
Giunti al ponte, smontar su la riviera,
l'uno di qua, l'altro dí là da l'onda:
e a giostra, poi che ne le tende entraro,
d'ambidue i campi i cavalier sfidaro.

        3
Contenea la disfida: - Un cavaliero,
per meritar l'amor d'una donzella
c'ha sovra quante oggi n'ha il mondo impero
in esser valorosa onesta e bella,
sfida a colpi di lancia ogni guerriero
finché l'un cada e l'altro resti in sella;
da l'abbattuto sol lo scudo ei chiede,
e 'l suo darà se per fortuna cede. -

        4
Accettâr la disfida i giostratori,
e quinci e quindi ognun stè preparato
con pensier di dover co' novi albori
del già cadente sol trovarsi armato.
Ma la notte avea a pena i suoi colori
tolti a le cose e 'l mondo attenebrato
spiegando intorno il taciturno velo,
ch'una tromba s'udí sonar dal cielo.

        5
Al fiero suon trecento schiere armârse
quinci e quindi confuse e sbigottite,
quando nel fiume una gran nave apparse,
che venía giú per l'onde intumidite,
e tanti razzi e tanti fuochi sparse,
che tolse il vanto a la Città di Dite.
Nave parea, ma in arrivando al ponte
isola apparve, e la sua poppa un monte.

        6
Orrido è il monte e di spezzati sassi,
e signoreggia un praticello ameno
che lungo è intorno a centoventi passi
e trenta di larghezza o poco meno;
la prora a combaciar col ponte vassi,
e quivi una colonna al ciel sereno
fiamme spargea con sí mirabil arte
ch'illuminava intorno in ogni parte.

        7
Da la colonna pende incatenato
un corno d'oro, e dice una scrittura
di ch'era il marmo lucido intagliato:
Suoni chi vuol provar l'alta ventura.
Piú in alto sovra il corno era attaccato
un ricco scudo, in cui da la scoltura
tolto era al puro argento il primo onore,
e scritto avea di sopra: Al vincitore.

        8
Avea l'egregio artefice ritratto
in esso la battaglia di Martano
col signor di Seleucia; e stupefatto
parea tutto Damasco al caso strano:
sta Griffone in disparte accolto in atto
d'uom di dolore e di vergogna insano;
ride la corte, Norandin si strugge,
ma il buon Martan facea come chi fugge.

        9
Era coperto il pian di verde erbetta,
e la riva di mirti ombrata intorno.
Smontâr molti guerrier ne l'isoletta
passeggiando il pratel di fiori adorno,
ma poiché la trovâr tutta soletta
trassero a gara a la colonna e al corno:
e quivi infra di lor nacque contesa
chi dovesse primier tentar l'impresa.

        10
Giucaro al tocco, e sopra Galeotto
cadde la sorte, il giovinetto ardito;
quegli il bel corno d'ôr prese di botto,
e sonò sí ch'ognun ne fu stordito.
Tremò l'isola tutta, e tremò sotto
il letto e l'onda, e tremò intorno il lito:
sparve il foco ch'ardea, sparver le stelle,
e perdé il ciel le sue sembianze belle.

        11
E mentre ancor durava il gran tremore,
ricoperse ogni cosa un nuvol denso,
e balenò improviso, e a lo splendore
seguí uno scoppio orribile ed immenso
che strignendo gli spirti e 'l sangue al core
fe' rimanere ognun privo di senso;
e giú col tuono un fulmine discese,
che percosse nel monte, e quel s'accese.

        12
S'accese il monte, e tutto in fiamma viva
fu convertito in un girar di ciglio,
e in mezzo de la fiamma ecco appariva
mirabilmente un padiglion vermiglio.
Il nobil lin, di cui già tele ordiva
l'antica età d'incombustibil tiglio;
tal fra le pompe regie in oriente
fu visto rosseggiar nel foco ardente.

        13
Lasciò la fiamma il monte incenerito,
e 'l ciel tornò seren com'era pria;
e in tanto fu di cento trombe udito
un misto suon di guerra e d'armonia.
Il lume ritornò, ch'era sparito,
su la colonna; e 'l padiglion s'apría,
e n'uscían cento paggi in bianca vesta,
tutta di fiori d'ôr sparsa e contesta.

        14
Bruni i fanciulli avean le mani e 'l viso,
e parean tutti in Etiopia nati;
un poeta gli avrebbe a l'improviso
a le mosche nel latte assomigliati.
Fuor di due porte il nero stuol diviso
uscí con torce accese; e in ambo i lati
si distinse con lunga e dritta schiera,
e lasciò vota in mezzo una carriera.

        15
Su l'altro capo intanto avea portato
copia di lance un provido scudiero;
e Galeotto era comparso armato
con sopravesta verde, armi e cimiero;
maneggiando un cavallo in Tracia nato,
da tre piedi balzàn, di pelo ubero,
che curvettando alzava da l'arena
al tocco de lo spron salti di schiena.

        16
Era ogni cosa in punto, e solamente
mancava il cavalier de la ventura;
quando iterâr le trombe, immantinente
uscí del padiglion su la pianura.
di bianca sopravesta e rilucente
di gemme era vestito, e l'armatura
di puro argento avea, bianco il cimiero,
ma nero piú che corvo era il destriero.

        17
Alta avea la visiera, e giovinetto
d'età di sedici anni esser parea:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
e grazia in lui quell'abito accrescea.
Salutò intorno ognun con grato affetto,
e 'l feroce destrier che sotto avea,
su l'orme fe' danzar che pria distinse
col piè ferrato, indi la lancia strinse.

        18
Abbassò la visiera, e attese intento
che la canora tromba il moto accenne;
ed ecco suona, e come fiamma o vento
l'uno di qua l'altro di là se 'n venne.
Scontrarsi a mezzo il campo, e rotte in cento
tronchi e scheggie volâr le sode antenne,
gittò faville l'uno e l'altro elmetto,
e Galeotto uscí di sella netto.

        19
Vago di contemplar vista sí bella
stava l'un campo e l'altro in ripa al fiume,
e le due podestà sotto l'ombrella
miravano la giostra al chiaro lume.
Videro Galeotto uscir di sella,
e vider l'altro con gentil costume
stendere al fren la generosa mano
e tenergli il destrier che gía lontano.

        20
Galeotto confuso e vergognoso
lo scudo al vincitor partendo cesse,
nel cui lembo dorato e luminoso
subito il nome suo scritto si lesse.
In tanto un cavalier tutto pomposo
d'azzurro e d'oro una gran lancia eresse,
e un leardo corsier di chioma nera
spronò contra il campion de la riviera.

        21
Ruppe la lancia al sommo de lo scudo,
e fe' i tronchi ronzar per l'aria scura;
ma fu colto da lui d'un colpo crudo
che lo stese tra i fiori e la verdura:
cadde a pena, che trasse il ferro ignudo
e volle vendicar sua ria ventura;
ma l'altro si ritrasse, ed ecco un vento,
e fu ogni lume intorno a un soffio spento:

        22
e tremò l'isoletta, e fiamma viva
vomitando e tonando a un tempo fuore,
quindi un gigante orribile n'usciva
ch'a la terra ed al ciel mettea terrore;
questi al guerrier che contra lui veniva
s'aventò dispettoso, e con furore
lo ghermí come un pollo, e a spento lume
lui col cavallo arrandellò nel fiume;

        23
onde a fatica ei si salvò notando:
restò lo scudo, e 'n lui si lesse: Irneo.
Allor di nuovo l'isola tremando
s'aperse, e il gran gigante in sé chiudeo:
e 'l chiaro lume, ch'era gito in bando,
tornò a le torce spente e l'accendeo;
tacque il tremito e 'l vento: e nuova giostra
chiamando, il cavalier fe' di sé mostra.

        24
Il terzo giostrator fu Valentino,
che passeggiando venne un destrier sauro:
e 'l quarto il valoroso Giacopino
sopra un ginetto altier del lito mauro,
ch'avea ferrato il piè d'argento fino
e sella e fren di perle ornati e d'auro:
ma l'uno e l'altro uscí de l'isoletta
senza lo scudo, e dileguossi in fretta.

        25
Il quinto fu il signor di Livizzano;
ch'innamorato di Celinda altera,
e per lei colto in fronte e messo al piano,
ebbe a perir de la percossa fiera.
L'asta rotta si fesse, e 'l colpo strano
fe' le scheggie passar per la visiera;
ond'ei cadde trafitto il destro ciglio,
de l'occhio e de la vita a gran periglio.

        26
Il Potta rivoltato a Zaccaria
che gli sedea vicin, disse: - Messere,
quest'è certo un incanto e una malía
ognun quel cavalier farà cadere. -
Rispose il vecchio allor: - Per vita mia
ch'a me l'istesso par, né so vedere
che possan guadagnar questi briganti
a cozzar col demonio e con gl'incanti;

        27
però se stesse a me, farei divieto
che nessuno de' miei con lui giostrasse. -
Prese il Potta il consiglio, e fe' un decreto
che ne l'isola alcun piú non entrasse,
e se ne stette poscia attento e cheto
mirando ciò che l'inimico oprasse,
e vide due, vestiti a bruno ed oro
appresentarsi co' cavalli loro.

        28
L'un d'essi corse, e tócco a pena fue
ch'uscí di sella e si distese al piano;
e pur mostrava a le sembianze sue
d'esser di core indomito e di mano.
Secondò l'altro, e per la groppa in giue
restò cadendo al suo caval lontano.
Risorse il primo, e a quel de la riviera
disse con voce e con sembianza altera:

        29
- Guerrier, se tu non sei per via d'incanto
prode con l'asta, or de l'arcion discendi
e con la spada che tu cigni a canto
a trarmi in cortesia d'inganno imprendi;
e s'hai timor di non turbar fra tanto
la giostra, a tuo piacer pugna e contendi;
pur ch'io ti provi un colpo o due col brando:
ecco lo scudo e piú non t'addimando. -

        30
Rispose il cavalier de l'isoletta:
- A dismontar sarei forse ubbligato,
s'a combatter per odio o per vendetta
fossi venuto in questo campo armato.
A giostrar venni e solo amor m'alletta,
e 'l mio disegno a tutti ho palesato:
sí ch'io non son tenuto a uscir di questa,
per variar tenzone a tua richiesta.

        31
Ma perché non m'imputi a codardia
il rifiutar la prova de la spada,
lasciami terminar l'impresa mia,
poi ti risponderò come t'aggrada.
Lo scudo se 'l mi chiedi in cortesia
io lo ti lascierò; per altra strada
non ti pensar di ritenerlo, o ch'io
a tuo voler sia per cangiar desio. -

        32
- Il cangerai, soggiunse, al tuo dispetto, -
l'altro guerrier, malvaggio incantatore. -
E del tronco de l'asta in su l'elmetto
ferillo, e trasse a un tempo il brando fuore;
tremò l'isola al colpo, e tremò il letto
del fiume, e sparve tosto ogni splendore;
balenò il cielo, e con orrendo scoppio
s'aprí la terra e n'uscí un fumo doppio.

        33
Sfavillò il fumo; ed ecco immantenente
due tori uscir d'insolita figura
che con occhi di foco e fiato ardente
parean seccare i fiori e la verdura.
S'uniro i due guerrier, tratte repente
le spade, e non mostrâr di ciò paura.
Vengono i tori, e l'uno e l'altro campo
trema de gli occhi al formidabil lampo.

        34
Il cavalier de l'isoletta s'era
tratto in disparte a rimirar la guerra;
come saetta, l'una e l'altra fera
col biforcuto piè trita la terra.
S'apre a l'arrivo lor la coppia altera;
passa il corno incantato e non gli afferra;
menano entrambi, e 'l taglio de la spada
par che su lana o molle piuma cada.

        35
Tornano i tori, e i cavalier rivolti
son loro incontro e menano a la testa;
lampeggiaron le fronti ove fur colti:
ma l'impeto e 'l furor per ciò non resta:
i cavalier su 'l corno a forza tolti
fur portati nel fiume a gran tempesta;
restar gli scudi, e scritti i nomi loro
Perinto e Periteo ne gli orli d'oro.

        36
Balzâr ne l'onda a precipizio i tori
co i cavalieri; e quivi uscîr di vista:
si ravvivaro i soliti splendori,
depose il ciel quella sembianza trista;
l'isoletta cessò da' suoi tremori,
lieta tornando come prima in vista;
e 'l cavalier che ritirato s'era,
tornò a mettersi in capo a la carriera.

        37
E nuova giostra in vano un pezzo attese,
ch'ognuno era confuso e spaventato,
fin che dal ponte un cavalier discese
maneggiando un corsier falbo dorato
che la briglia d'argento e 'l ricco arnese
avea d'oro trapunto e ricamato.
Questi in pensier di cambiar lancia venne,
e ne fe' inchiesta, e la richiesta ottenne.

        38
Diede il segno la tromba: e come vanno
per gli campi de l'aria i lampi ardenti
ch'a terra e cielo e mar dar luogo fanno
e portano con lor grandine e venti;
tal vannosi i guerrier, con l'aste c'hanno
abbassate, a ferir gli elmi lucenti.
Volâr le scheggie e le faville al cielo,
né vi fu cor che non sentisse gielo.

        39
Cozzarono i destrier fronte con fronte;
e quel del cavalier de l'isoletta
lasciò col suo signor l'altro in un monte,
e via dritto passò come saetta.
Tosto risorse il cavalier del ponte
bramando far del suo caval vendetta:
e a nuova lancia il giostrator richiese,
ed ei gli fu di ciò molto cortese.

        40
Venne un altro corsier di pel roano,
e su montovvi il cavalier d'un salto;
sospese il fren con la sinistra mano
e con lo sprone il fe' guizzare in alto;
e poiché si rimise in capo al piano
lo sospinse di corso al fiero assalto:
ma nell'incontro fu toccato a pena
che si trovò rovescio in su l'arena.

        41
Levossi e disse: - Ecco lo scudo mio,
ch'or veggio che se' mago e incantatore,
né teco vo' né col demonio rio
mettere in compromesso il mio valore:
forse avverrà ch'ancor tu paghi il fio
per altre mani, e con tuo poco onore,
del mal acquisto; or qui ti resta intanto
col diavolo, ch'eletto hai per tuo santo. -

 
 
 

Il Meo Patacca 12-1

Post n°1331 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO DODICESIMO

ARGOMENTO

L'avviso in Roma vie, che Buda è presa
Da' nostri, et in un subbito fu detto,
che co' i Turchi, l'Ebrei l'havean difesa,
Onde fu dato un fiero assalto al Ghetto.
MEO ferma il chiasso, e finge (doppo intesa
La vera nova), a Buda assedio stretto,
E l'acquisto ne fa. Nuccia animosa
Spara terzette, e lui però la sposa.

Già del Sol la lunatica sorella,
Che mò scarza è di luce, e mò n'abbonna,
Più volte in ciel co' la su' faccia bella
S'era fatta vedè, guanciuta e tonna.
Già tutta del zodiaco la stradella
E 'l su' carnale dalla cioma bionna,
Due volte, delle tenebre a dispetto,
Scurza haveva sul Lucido Carretto.

In Roma allor aspettativa granne
C'era d'un'altra et importante nova,
Ogni poco, un avviso se ne spanne,
Diverzo un altro poi se ne rinova;
Sempre fa, sempre reprica domanne
A i novellisti MEO, quanno li trova,
Ch'assai d'havè gli preme, e ci sta all'erta,
Di nova impresa una notizia certa.

Già gli va pe' la gnucca, e già architetta
Un non so che di granne in tel penziero,
Però chalchosa di sentir aspetta,
E di poterzi assicurà del vero.
Ogni volta, ch'arriva una staffetta,
O capitanno va chalche curriero,
Te gli viè addosso subbito la smania
Di sapè, se venuto è da Germania.

La gran faccenna haveva già intrapresa
El vincitor essercito Alemanno,
D'assedià Buda, così ben difesa
Sotto il commando del Bassà Ottomanno.
S'aspettava sentir che fusse presa,
Ma l'avviso s'annava prolonganno,
Ch'a dire il vero, essendo forte assai,
Pe' potella abbuscà, c'eran de' guai.

Quand'ecco a un tratto, un bisbiglià si sente
Tra 'l popolo, un susurro, un'allegria;
Currono più perzone assai contente,
Altre vanno a sapè, che cosa sia.
Si fa un gran parapiglia, e finalmente
Si dice giusto quel, ch'ogn'un vorria,
Ch'appunto allor la nova era arrivata,
Che Buda in man de' nostri era cascata.

Che co' 'na resistenza assai cocciuta
Sino all'estremo, in sopra a la muraglia,
Havevano li Turchi sostenuta
Una sanguinosissima battaglia;
Che s'era alfine la vittoria havuta,
Perche la nostra fu gente de vaglia;
Che con i Turchi ancor furno veduti
Far l'Ebrei, su le mura, i menacciuti.

Sul mezzo dì, pe' la città si sparze
'Sta nova appena, e la sentì la plebbe,
Ch'arrabbiata di collera tutt'arze,
E li Giudii, già lapidà vorrebbe.
Cominzano i regazzi a radunarze,
Marciano verzo il Ghetto, e allora s'hebbe
Pacchetta dall'Ebrei; ma si trovorno
In un attimo pronti, e lo serrorno.

Il Ghetto è un loco al Tevere vicino
Da una parte, e dall'altra a Pescaria;
È un recinto di strade assai meschino,
Ch'è ombroso, e renne ancor malinconia,
Ha quattro gran portoni, e un portoncino;
Il dì s'apre, acciò el trafico ce sia,
Ma dalla sera, inzino a giorno ciaro,
Lo tiè inserrato un sbirro portinaro.

Cominza intanto ad attaccà la buglia
Quantità di sgherretti ciumachelli.
Non ci son forzi tante mosche in Puglia,
Quanti so' sti rabbacchi foioselli.
El negozio, bel bello s'ingarbuglia;
Mettono allor l'Ebrei stanghe e puntelli
Pe' difenner le porte già inserrate
Da spinte e calci, e da saioccolate.

Perchè so' 'sti portoni un fracidume,
C'è gran bisogno di fortificalli,
Ch'al sicuro andarebbero in sfasciume
A tante botte, senza appuntellalli.
Ecco, giovani fatti, al regazzume
S'uniscono, e la gente in osservalli,
Ci ha gusto in tel principio, e par che sia,
E gioco, e spasso, e sfogo d'allegrìa.

Ma poi vedenno che si fa da vero,
E ch'alla disperata si commatte,
Ch'ancor s'incoccia, e che non c'è penziero
Di fa' bastà le sgherrarìa già fatte.
S'accorge che 'st'assalto è troppo fiero,
Che presto li Bacurri pe' le fratte
Potriano annare, e haver non solo un sacco,
Ma quel, ch'è peggio, un sanguinoso acciacco.

Fanno 'sti sgherri un tal menà de mani,
Che chi sta a vede, ancor ci ha 'l su' spavento.
E inferociti come tanti cani
Vorriano divorà quelli di drento;
Sfonnà finestre, e sfragassà mignani,
Sfogo è di rabbia, pe' l'impedimento
Ch'hanno d'entrà, mentre che fan le porte
Puntellate assai ben, riparo forte.

El gran assalto facile riesce,
Che grossi rocci da cercà non s'hanno,
E però, sempre più, la furia cresce
Delle saioccolate, che si dànno;
Poco lontano c'è 'l cotìo del pesce,
E le cirigne quì appoggiate stanno
A' selci, che l'appuntano da' fianchi,
Restano quelli poi su certi banchi.

Se ne servono dunque i sassaioli,
Pe' fa' quanto più pònno de sconquassi,
Ma poi nelle sciamate non son soli,
Ch'altri ci son, ma non addropan sassi.
Fan servir di granate i dindaroli,
Li slanciano, e procurano che passi
Ogn'un di questi le Giudaiche Mura,
Pe' fa' danno ai nemici, o almen paura.

È il dindarolo un coso piccinino
Fatto di greta cotta, e quasi è tonno,
Drento è voto, et in cima ha un bottoncino,
E un piede largo, da sta ritto, in fonno.
C'è un taglio giusto al capitel vicino,
Quanto i spiccianti trapassà ci pònno;
Quì li regazzi i ripostini fanno,
In tempo che le mancie se gli danno.

Se prima a bambocciate eran serviti;
Mò, per altr'uso vengono addropati,
E di polvere tutti so' rempiti:
Co' stracci, i busci poi, son attappati.
Qui, mezzi drento e mezzi fora usciti,
Stanno i stuppini ben accomodati,
Et ecco, in modi ancor non conosciuti,
I dindaroli bombe divenuti.

Prima col foco li stuppini appicciano,
Poi pe' tiralli in alto, ce se sbracciano,
E tanto fanno, e tanto ancor l'impicciano,
Sino, che drento quantità ne cacciano;
Pe' spavento, le carni se gl'aggricciano,
E col sangue le vene se gl'aggiacciano
All'Ebrei, ch'a tal segno si riducono,
Ch'in te le case allor molti s'imbucono.

Alle dindarolesche scoppiature,
Mò fatte in aria, e mò sopra d'un tetto,
Mò in strada, son sì granni le paure,
Che tutto già s'è scompigliato el Ghetto.
Li strilli, l'urli, e le scapigliature
Delle femmine Ebree, li pugni in petto,
I piantusci, i lamenti erano tanti,
Che non si fecer mai fiotti tamanti.

Una diceva: "Ahimè! che mali iorni
Sono questi per noi! che sarà mai?"
Un'altra poi: "Perchè 'sti brutti scorni?
Che far potremo, scuri Sciabadai!
Non c'è per noi pietà pe' 'sti contorni,
Poveri figli! Perna e mordacai!
Presto ce n'annaremo, (O Iaccodimmi
Dateci qualche aiuto!) a i caurimmi".

Certi Rabbini allor, carichi d'anni,
Con le barbe maiuscole da nonni,
Dicono: "Non saran tanti li danni,
Quanti credete voi, signori donni.
Hanno alfin da cessà 'sti gran malanni,
Che tutti i palli, non riescon tonni.
Ancor drento allo Ghetto non si venne,
E 'sta razza di fochi è assai zachenne".

Così un pò de spavento se gli leva,
Pur si sente un confuso mormorìo.
Ma intanto, (oh caso, che nisciun credeva,
E che atterrisce ancor maschio Giudìo!),
Ecco, si mette un dei portoni a leva.
Altr'è questo, che i sassi del cotìo,
S'alza già for de gangani, già crolla,
Già più d'un sgherro, a spignelo s'affolla.

Dice un Rabbì, con voce assai gagliarda,
Quanno par ch'il portone in giù trabballi;
"Su via, presto al soccorzo, e che si tarda?
Tenete forti, et appuntate i spalli,
Non vi fate stimà gente infingarda;
Tosti, a i portoni vè, che se buttalli
Pònno costoro, a fè, ve lo dich'io,
Vivo allor non ce resta uno Judìo".

Ma, o fusse il caso, o l'appuntellatura,
Vengono a ricascà nei loro occhietti
I gangani già usciti, e la paura
Scemò un tantin nei Giudieschi petti;
Non calò già per questo la bravura
E l'ostinanza dei Romaneschetti,
Che più di prima imbestialiti e fieri,
Par che faccin, di guerra, assalti veri.

Intanto un certo taccolo succede
For del Ghetto più brutto, e più non visto.
Et è, ch'a ogni Giudio, ch'annà se vede
Pe' la città, gli danno i sgherri un pisto.
Chalch'un ce n'è, che rimedià se crede
Al pericolo granne, ch'ha previsto,
O col nasconne il fongo, e con voltallo,
O con levagli il taffettano giallo.

Ma non gli giova 'sta rasciammerìa,
Nè per questo, po' il misero salvarzi,
Perchè lui stesso, di sè stesso è spia,
E più si scrope, più che vuò occultarzi.
La faccia tetra, la fisonomia,
L'annar furone, timido il voltarzi
A ogni poco, a ogni passo, e il su' sospetto,
Conoscer fanno, ch'è un di quei del Ghetto.

Scuperto, non sà allor dove si cacci,
Mò penza, mò sta fermo, e mò sgammetta.
Ma l'arrivano certi regazzacci,
Che d'azzollà Giudii, ne fanno incetta.
Pe' fagli dar in terra de' crepacci,
Gli fa chalch'un di loro la cianchetta,
E poi steso che l'ha, tutti d'accordo,
Glie la fanno sentì, se non è sordo.

E spinte, e calci, e pugni, e scappellotti,
E peggio ancor son del Giudio regali.
Lui strilla: "Aiuto! ahimè! non tanti botti,
Basta, non più! troppo mi fate mali!
Cola lo sangue già dai testi rotti,
Sicuro 'sti feriti son mortali!
Pietà, pietà illustrissimi! Almen vivo
Io resti insino ch'allo Ghetto arrivo".

Pe' vedè, si raduna molta gente,
Chi sia costui, perchè così se tratti,
Et a chalch'homo serio lì presente
Assai dispiace di sentì 'sti sciatti.
Prega li sgherri a non glie fa' più gnente,
Potenno già basta li strazii fatti,
Si ferman questi, e mentre più s'ammucchia
El popolo, l'Ebreo s'arrizza, e trucchia".

Fugge un altro, che è pur cencioso e vile.
In t'un palazzo, e dove se nasconni,
Và ricercanno, e vede in tel cortile
Tre o quattro botti ritte senza fonni.
Queste, conforme è l'uso signorile,
Stavano lì, perchè nei dì gioconni
D'altre feste, ch'ogn'un sta ad aspettalle,
Dovevano servì per abbruscialle.

Una n'alza l'Ebreo; sotto se caccia,
Poi la ricala, e drento ce s'accova;
Ne vanno infuriatissimi alla traccia
Li sgherri, e gusto ha ogn'un d'annallo a trova
Data di già gl'havevano la caccia,
E adesso seguitannolo fan prova
D'acchiappallo, pe' poi for del palazzo,
Strascinatolo, farne ogni strapazzo.

Currono drento, e restano de sale,
Perchè ciaschun di loro s'è intontito,
Nè sa, nè pò penzà, dove quel tale
Pozza in un batter d'occi esser fuggito.
C'è chi credenno va che pe' le scale
Di quel palazzo istesso sia salito,
Perchè, per quanto ogn'un po' imaginarzi,
Altro loco non c'è, da ritirarzi.

Ma pe' la su' disgrazia, un regazzino
D'otto o diec'anni, figlio del cucchiero;
Se ne stava affacciato a un finestrino,
E lì fava la zuppa, in tel bicchiero.
Tutto havea visto, e con un raschiettino,
De fa' la spia venutogli el penziero,
Fece voltà li sgherri, e queto queto,
Dove stava el Giudìo, mostrò col deto.

Se n'occorgiono questi, et al più astuto,
Che sia tra lor, vie in testa un bel crapiccio,
A tutti azzenna con un gesto muto,
Che vuò dar al Giudio chalche stropiccio.
Un secchio pieno d'acqua havea veduto
Accanto al pozzo, e te glie da de piccio,
L'alza sopra la botte, e l'acqua tutta,
Voltato il secchio, su l'Ebreo poi butta.

Li strilli di costui son di tal sorte,
E così granni, ch'io ridir nol pozzo.
S'accosta più d'un sgherro, e ghigna forte
In vede quel bagnato paparozzo.
Pare all'Ebreo d'esser vicino a morte,
Come cascato sia drento d'un pozzo;
Quanto sà, quanto pò, si raccommanna,
La vita in grazia, e pe' pietà, domanna.

 
 
 

Er pignoramento

Post n°1330 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Er pignoramento

Avressi da vedé la propotenza
de l'usceri der terzo mannamento:
spalancheno la porta, entreno drento,
nun sarveno nemmeno l'apparenza.

Fanno un giretto pe' l'appartamento,
uno scrive, uno detta: — Una credenza,
un tavolino de la rinascenza,
un comò, quattro sedie, un paravento... —

È un anno che quer povero mobbijo
va via, ritorna a casa, riva via,
lo compro, lo rivenno, lo ripijo...

E tanto è er movimento, che li mobbili
cammineno da sé! La serva mia
lo sai come li chiama? L'automobbili.

Trilussa

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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