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Messaggi del 09/03/2015

La riconoscenza de li posteri

Post n°1348 pubblicato il 09 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La riconoscenza de li posteri

Una vorta, per un caso,
drento all'orto d'un amico
fu trovato un busto antico
d'un pupazzo senza naso,
co' li boccoli de marmo
e una barba longa un parmo.

Da le rughe der pensiero
che j'increspeno la fronte
ce se vedeno l'impronte
d'un filosofo davero;
ma chi diavolo sarà?
ch'avrà fatto? chi lo sa?

Sur davanti, veramente,
c'è er cognome scritto sotto:
ma, siccome è mezzo rotto,
se distingue poco o gnente
e se legge, tutt'ar più,
ch'era Stefano der Q...

Come mai fu sotterrato
fra li cavoli dell'orto?
Quann'è nato? quanno è morto?
Ch'ha scoperto? ch'ha inventato?
Li spaghetti o le cambiale?
Fece bene o fece male?

Fu chiamato un antiquario:
— Questo — disse — è un mezzo busto
fatto male, senza gusto,
e d'un genere ordinario;
vale poco: sia chi sia
è una vera porcheria! —

E fu messo in un cantone
come fosse un muricciolo,
dove spesso c'è un cagnolo
che pe' fa' quela funzione
forma un arco co' la cianca
su la bella barba bianca.

Trilussa

 
 
 

La Secchia Rapita 11-1

Post n°1347 pubblicato il 09 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO UNDECIMO

ARGOMENTO

Il conte di Culagna entra in furore,
e sfida a duellar Titta prigione.
Ma, sciolto che lo vede, ci perde il core,
e cerca di fuggir dal paragone.
Vi si conduce al fine: e perditore
un nastro rosso il fa de la tenzone.
De la vittoria sua spande la nuova
Titta, e pentito poi se ne ritrova.

        1
Poiché la fama al fin con mille prove
mostrò l'infamie sue scoperte al conte,
e gli fece veder come si trove
con la corona d'Atteone in fronte,
contra la moglie irato in forme nuove
si volse a vendicar l'ingiurie e l'onte;
e per farla morir con vituperio
l'accusò di veleno e d'adulterio.

        2
Per tutto il campo allor si fe' palese
quel ch'era prima occulto o almeno in forse.
La donna francamente si difese,
e le querele in lui tutte ritorse;
e fe' rider ognun quando s'intese
com'ella seppe al suo periglio opporse,
e d'inganno pagar l'ingannatore,
ch'ebbe poscia a cacar l'anima e 'l core.

        3
Il conte, che si vede andar fallato
contra la moglie il suo primier disegno,
pensa di vendicarsi in altro lato,
e volge contra Titta ogni suo sdegno.
sa che per ritrovarsi imprigionato,
per forza ha da tener le mani a segno.
lo chiama traditor solennemente
e aggiugne che se 'l nega, ei se ne mente;

        4
e che gliel proverà con lancia e spada
in chiuso campo a publico duello;
e perché la disfida attorno vada,
la fa stampar distinta in un cartello;
e vantasi d'aver trovata strada
da non potere in qual si voglia appello
d'abbattimento o giusto o temerario
sottoporsi al mentir de l'avversario.

        5
Ma gli amici di Titta avendo intesa
la disfida, s'uniro in suo favore;
e feron sí che la sua causa presa
e terminata fu senza rigore:
anzi, perch'ei serviva in quella impresa
contra Bologna e 'l Papa suo signore,
fu scarcerato come ghibellino
senza fargli pagar pur un quattrino.

        6
Sciolto ch'ei fu, rivolse ogni pensiero
a la battaglia pronto e risoluto;
preparò l'armi e preparò il destriero,
né consiglio aspettò, né chiese aiuto.
Poco avanti da Roma un cavaliero
nel campo modanese era venuto,
di casa Toscanella, Attilio detto:
e fu da lui per suo padrino eletto.

        7
Questi era un tal piccin pronto ed accorto,
inventor di facezie e astuto tanto,
che non fu mai Giudeo sí scaltro e scorto
che non perdesse in paragone il vanto.
Uccellava i poeti, e per diporto
spesso n'avea qualche adunata a cantO;
ma con modi sí lesti e sí faceti,
che tutti si partían contenti e lieti.

        8
In armi non avea fatto gran cose,
però ch'in Roma allor si costumava
fare a le pugna, e certe bellicose
genti il governator le castigava.
ma egli ebbe un cor d'Orlando, e si dispose
d'ire a la guerra, perché dubitava
de' birri, avendo in certo suo accidente
scardassata la tigna a un insolente.

        9
Il conte allor che vide al vento sparsi
tutti i disegni e 'l suo pensier fallace,
cominciò con gli amici a consigliarsi
se v'era modo alcun di far la pace.
vorrebbe aver taciuto, e ritrovarsi
fuor de la perigliosa impresa audace;
ché sente il cor che teme e si ritira,
e manca l'ardimento in mezzo a l'ira.

        10
Ma il conte di Miceno e 'l Potta stesso
e Gherardo e Manfredi e 'l buon Roldano
gli furo intorno, e 'l vituperio espresso,
dov'ei cadea, gli fêr distinto e piano.
indi promiser tutti essergli appresso,
e la pugna spartir di propria mano;
ond'ei riprese core, e per padrino
s'elesse il conte dI San Valentino.

        11
Questi, che ne la scherma avea grand'arte,
subito gl'insegnò colpi maestri
da ferire il nemico in ogni parte,
e modi da parar securi e destri;
indi rivide l'armi a parte a parte
del cavaliero e i guernimenti equestri.
ma un petto, senza cor, che l'aria teme,
non l'armerían cento arsenali insieme.

        12
La notte a la battaglia precedente,
che fra i due cavalier seguir dovea,
volgendo il conte l'affannata mente
al periglio mortal ch'egli correa,
ricominciò a pensar tutto dolente
di nol voler tentar, s'egli potea;
e innanzi l'alba i suoi chiamò fremendo,
un gran dolor di ventre aver fingendo.

        13
Il padrin, che dormía poco lontano,
tutto confuso si destò a quell'atto;
con panni caldi e una lucerna in mano
Bertoccio suo scudier v'accorse ratto:
e 'l barbier de la villa e 'l sagrestano
di Sant'Ambrogio v'arrivaro a un tratto;
e 'l provido barbier, ch'intese il male,
gli fe' subitamente un serviziale.

        14
Ed egli per non dar di sé sospetto,
cheto se 'l prese e si mostrò contento;
ma fingendo che poi non fésse effetto,
né prendesse il dolore alleggiamento,
chiamò gli amici e i servidori al letto,
e disse che volea far testamento;
onde mandò per Mortalin notaio,
che venne con la carta e 'l calamaio.

        15
La prima cosa lasciò l'alma a Dio,
e lasciò il corpo a quell'eccelsa terra
dov'era nato, e per legato pio
danari in bianco e quantità di terra.
indi tratto da folle e van desio
a dispensar gli arredi suoi da guerra,
lasciò la lancia al Re di Tartaria
e lo scudo al Soldan de la Soria;

        16
la spada a Federico Imperatore
ed al popol romano il corsaletto;
a la reina del mar d'Adria, onore
del secol nostro, un guanto e un braccialetto;
l'altro lasciollo a la città del Fiore,
e al greco Imperator lasciò l'elmetto:
ma il cimier, che portar solea in battaglia,
ricadeva al signor di Cornovaglia.

        17
Lasciò l'onore a la città del Potta,
poi fe' del resto il suo padrino erede.
D'intorno al letto suo s'era ridotta
gran turba intanto, chi a seder, chi in piede;
fra' quali stando il buon Roldano allotta,
che non prestava a le sue ciance fede,
gli dicea a l'orecchia tratto tratto:
- Conte, tu sei vituperato a fatto.

        18
Non vedi che costor t'han conosciuto
che per tema tu fai de l'ammalato?
Salta su presto, e non far piú rifiuto;
ché tu svergogni tutto il parentato.
Noi spartiremo e ti daremo aiuto
subito che l'assalto è incominciato. -
Il conte si ristrigne e si lamenta,
e si vorría levar, ma non s'attenta.

        19
Di tenda in tenda in tanto era volata
la fama di quell'atto, e ognun ridea.
Renoppia, che non era ancor levata,
un paggio gli mandò che gli dicea
che stava per servirlo apparecchiata,
e accompagnarlo in campo; e ben credea
ch'egli si porterebbe in tal maniera
ch'ella n'avrebbe poscia a gire altiera.

        20
Quest'ambasciata gli trafisse il core
e destò la vergogna addormentata:
e cominciaro in lui viltà ed onore
a combatter la mente innamorata.
S'alza a sedere, e dice che 'l dolore
mitigato ha il favor de la sua amata,
e s'adatta a vestir, ma la viltade
finge che 'l dolor torni, e giú ricade.

        21
E la pittrice già de l'oriente
pennelleggiando il ciel de' suoi colori
abbelliva le strade ad dí nascente,
e Flora le spargea di vaghi fiori;
quindi usciva del sole il carro ardente,
e di raggi e di luce e di splendori
vestiva l'aria, il mar, la piaggia e 'l monte,
e la notte cadea da l'orizonte:

        22
quando comparve il conte di Miceno
col medico Cavalca in compagnia.
Il medico a l'orina in un baleno
conobbe il mal che l'infelice avía;
e fattosi recare un fiasco pieno
di vecchia e dilicata malvagía,
gli ne fece assaggiar tre gran bicchieri;
ed ei pronto gli bebbe e volontieri.

        23
Cominciò il vino a lavorar pian piano,
e a riscaldar il cor timido e vile,
e a mandar al cervel piú di lontano
stupido e incerto il suo vapor sottile:
onde il conte gridò ch'era già sano,
che 'l dolor gli avea tolto il vin gentile,
e balzando del letto i panni chiese,
e tosto si vestí l'usato arnese.

        24
Indi tratto fremendo il brando fuora,
tagliò Zefiro in pezzi e l'aura estiva,
e se non era il suo padrino, allora
a la battaglia senz'altr'armi ei giva.
L'almo liquor che i timidi rincora
puote assai piú che la virtú nativa;
ben profetò di lui l'antica gente
ch'era sovra ogni re forte e possente.

        25
Or mentre s'arma, ecco Renoppia viene
e 'l coraggio gli adoppia e la baldanza,
che con dolci parole e luci piene
d'amor gli fa d'accompagnarlo instanza.
Egli che 'l foco acceso ha ne le vene,
commosso da desio fuor di speranza
e da furor di vino, ambo i ginocchi
a terra inchina; e dice a que' begli occhi:

        26
- O del cielo d'Amor ridenti stelle
onde de la mia vita il corso pende;
d'amorosa fortuna ardenti e belle
ruote dove mia sorte or sale, or scende;
imagini del sol , vive facelle
di quel foco gentil che l'alme incende,
il cui raggio, il cui lampo, il cui splendore
ogn'intelletto abbaglia, arde ogni core:

        27
occhi de l'alma mia, pupille amate,
lucidi specchi ove beltà vagheggia
sé stessa; archi celesti ond'infocate
quadrella aventa Amor ch'in voi guerreggia;
de le vostre sembianze onde il fregiate,
cosí splende il mio cor, cosí lampeggia,
ch'ei non invidia al ciel le stelle sue,
benché sian tante, e voi non piú che due.

        28
Come a i raggi del sole arde d'amore
la terra e spiega la purpurea veste;
cosí a i vostri be' raggi arde il mio core,
e di vaghi pensier tutto si veste.
Quest'alma si solleva al suo fattore,
e ammira in voi di quella man celeste
le meraviglie, e dal mortal si svelle,
o degli occhi del ciel luci piú belle.

        29
Rimiratemi voi con lieto ciglio
del cieco viver mio lumi fidati,
siate voi testimoni al mio periglio,
e scorgetemi voi co' guardi amati;
ché fia vana ogni forza, ogni consiglio:
cadrà l'empio e fellon ne' propri aguati,
e non che di pugnar con lui mi caglia,
ma sfiderò l'inferno anco a battaglia. -

        30
Cosí detto risorge, e 'l destrier chiede
tutto foco ne gli atti e ne' sembianti;
e fa stupire ognun che l'ode e vede
sí diverso da quel ch'egli era innanti.
Ma Titta armato già dal capo al piede
con armi e piume nere e neri ammanti
in campo era comparso, accompagnato
dal solo suo padrin senz'altri a lato.

        31
La desïosa turba intenta aspetta
che venga il conte, e mormorando freme;
s'empiono i palchi intorno, e folta e stretta
corona siede in su le sbarre estreme;
e da i casi seguiti omai sospetta
che 'l conte ceda, e la sua fama preme.
Quando a un tempo s'udîr trombe diverse
da quella parte, e 'l padiglion s'aperse.

 
 
 

La regazza arrabbiata

Post n°1346 pubblicato il 09 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La regazza arrabbiata

Come diavolo vôi che nun me cali?
Lui nun me cura più, commare mia,
pe' via de la politica e pe' via
che s'è affissato a legge li giornali.

Tiè sempre in mente la democrazzia,
tiè sempre in bocca l'anticlericali,
li preti, li principî, l'ideali,
Giordano Bruno e l'ossa de su' zia!

Ma un omo che vô bene veramente
nun cià d'avé 'ste cose pe' la testa,
ch'è tutta robba che nun serve a gnente.

Sennò, quanno ch'annamo ar Municipio,
che magno? li comizzi de protesta?
co' che m'empie la panza? cór principio?

Trilussa
1912

 
 
 

Il Trecentonovelle 71-75

Post n°1345 pubblicato il 09 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXXI

Uno Frate romitano di quaresima in pergamo a Genova ammaestra ch'e' Genovesi debbano fare buona guerra.

E' non è molt'anni che trovandom'io in Genova di quaresima, e andando, com'è d'usanza, la mattina alla chiesa, fui alla chiesa di Santo Lorenzo, dove predicava in quell'ora un frate romitano, ed era la guerra tra Genovesi e Viniziani; e in quelli dí li Viniziani aveano forte soprastato a' Genovesi. Ora, accostandomi e porgendo gli orecchi per udire alquanto, le sante parole e' buoni esempli che io gli udi' dire furono questi. E diceva:
- Io sono Genovese, e se io non vi dicessi l'animo mio, e' mi parrebbe forte errare; e non abbiate a male, ché io vi dirò il vero. Voi siete appropiati agli asini; la natura dell'asino è questa: che quando molti ne sono insieme, dando d'uno bastone a uno, tutti si disserrano, e qual fugge qua, e qual fugge là, tanto è la lor viltà; e questa è proprio la natura vostra. Li Viniziani sono appropiati a' porci, e sono chiamati Viniziani porci, e veramente egli hanno la natura del porco, però che essendo una moltitudine di porci stretta insieme, e uno ne sia o percosso o bastonato, tutti si serrano a una, e corrono addosso a chi gli percuote; e questa è veramente la natura loro: e se mai queste figure mi parvono proprie, mi paiono al presente. Voi percotesti l'altro dí li Viniziani: e' si sono serrati verso voi a lor difesa e a vostra offesa; e hanno cotante galee in mare con le quali v'hanno fatto e sí e sí; e voi fuggite chi qua e chi là, e non intendete l'uno l'altro; e non avete se non cotante galee armate: egli n'hanno presso a due tanti. Non dormite, destatevi, armatene voi tante che possiate, se bisogna, non che correre il mare, ma entrare in Vinegia.
Poi fa fine a queste parole, dicendo:
- Non l'abbiate a male, ché io serei crepato, s'io non mi fusse sfogato.
Or questa cotanta predica udi' io, e torna' mi a casa; l'avanzo lasciai udire agli altri. Avvenne per caso quel medesimo dí che nel luogo de' mercatanti, essendo io dov'erano in un cerchio e Genovesi, e Fiorentini, e Pisani, e Lucchesi, e ragionandosi de' valenti uomini, disse uno savio Fiorentino che ebbe nome Carlo degli Strozzi:
- Per certo voi Genovesi siete gli migliori guerrieri e piú prod'uomini che siano al mondo: noi Fiorentini siamo da fare l'arte della lana, e nostre mercanzie.
Ed io risposi:
- E' c'è ben la ragione.
Il perché tutti dissono:
- Come?
E io rispondo:
- Li nostri frati, quando predicano a Firenze, ci ammaestrano del digiuno e dell'orare, e che dobbiamo perdonare, e che dobbiamo seguire la pace e non far guerra; li frati che predicano qui insegnano tutto il contrario; però che in questa mattina ritrovandomi in Santo Lorenzo, io porsi gli orecchi a un frate romitano che predicava; gli ammaestramenti e gli esempli che il populo qui poté udire furono questi: - e raccontai ciò che avea udito.
Tutti si maravigliorono: e allora da chi aveva udito com'io, ne seppono la verità, e ciò udito, dissono che io aveva ragione; e parve a tutti una nuova predica.
E cosí siamo spesse volte ammaestrati, tanto è ampliata la nostra fede, salendo tale in pergamo che Dio il sa quanta sia la loro prudenza, o la loro discrezione.


NOVELLA LXXII

Un Vescovo dell'ordine de' Servi al luogo della chiesa loro di Firenze, dicendo le piú nuove cose del mondo, e le piú stolte, tira a sé di molta gente.

La novella passata mi tira a dire quello che, fra l'altre nuove predicazioni che facea, disse un dí un Vescovo dell'ordine de' Servi nella loro chiesa in Firenze in sul pergamo predicando. Questo Vescovo lavaceci, vogliendo ammaestrare nel vizio della gola, riprendea gli Fiorentini dicendo:
- Voi siete molto golosi; e' non vi basta magnare le pastinache fritte, ché voi le mettete ancora nell'agliata cotta; e quando mangiate li ravazzuoli, non vi basta, quando hanno bollito nel pignatto, mangiarli con quel buglione, ché voi gli traete del loro proprio brodo e friggeteli in un altro pignatto, e poi gli minestrate col formaggio.
E molte altre cose simili che tutte veníano dalla sua profonda celloria.
E in questa medesima predica, che credo fosse quel dí della Assunzione, venendo a dire come Cristo n'andò in cielo, comincia a dire:
- E' n'andò ratto piú che cosa che si potesse dire. Come n'andò ratto? andonne come uccello che volasse? piú; andonne come freccia che uscisse d'arco? piú; o come strale che uscisse di balestro? piú; come n'andò? Come se mille paia di diavoli ne l'avessino portato.
Udendo questa cosí bella predica, mi ritrovai in quel dí col Priore dell'ordine, e domandolo qual scrittura dicesse quello che quel Venerabile Mellone aveva detto in pergamo; ed egli rispose ch'egli era de' piú valenti uomini che avesse l'ordine, ma ch'elli credea che per infirmità ch'egli avea aúto fusse alcun'ora impedito nella mente; e io risposi che quella infirmità era continua e ch'ella durava troppo, però che in ogni predica che facea, dicea cose simili a quelle o vie piú nuove, per sí fatta forma che la gente correa piú al detto frate per avere diletto delle sue dolci parole, che non andavono per divozione alla Nunziata per avere da lei grazia. Riconobbono il loro errore, che 'l faceano predicare, e la stoltizia di colui che predicava; e disposono lui della predica, e feciono predicare un altro. E pensa tu, lettore, che frate costui potea essere; ché passando io scrittore poi ad alcun dí per Mercato Vecchio, costui era sopra un paniere di fichi, e dicea alla forese:
- O donna, quante fiche date vui per un dinaro?
E comprandole le mangiava in piazza.
Le cose stratte fuori di forma, e nuove di scienza, e con sciocchezza adornate nelle sue prediche, furono tante che lingua appena le potrebbe contare, non che io scrivere. Tanto dico che, essendo costui cosí scorto, la gente lasciava l'altre predicazioni, e correano alla sua; essendogli fatte alcuna volta di nuove cose, e fra l'altre gli vidi un dí conficcare la cappa su le sponde del pergamo, e altre cose assai; e tanto se n'avvedea dell'altrui beffe quanto farebbe una bestia.
E questi tali ci ammaestrano spesse volte, e noi cosí appariamo che manco fede abbiamo l'un dí che l'altro.
Questo frate tenea oppinione che quando il nostro Signore andò in cielo che n'andasse cosí veloce e ratto come avete udito. Uno mio amico veggendo il dí dell'Ascensione all'ordine de' frati del Carmine di Firenze, che ne faceano festa, il nostro Signore su per una corda andare in su verso il tetto, e andando molto adagio, dicendo uno:
- E' va sí adagio che non giugnerà oggi al tetto.
E quel disse:
- Se non andò piú ratto, egli è ancor tra via.


NOVELLA LXXIII

Maestro Niccolò di Cicilia, predicando in Santa Croce, gittò un motto verso il Volto santo, il qual è... , e fa rider tutta la gente.

Avendo narrato le dua precedenti novelle di quelli due smemorabili frati, mi si fa innanzi a dire una novelletta de un valentissimo maestro in teologia dell'ordine di Santo Francesco, il quale ebbe, o ancora ha (però che non so s'egli è vivo) nome maestro Niccola di Cicilia. E acciò che questa novelletta mostri il suo fondamento, è da sapere che questi valenti frati minori che sono stati, o ancora che sono in Cicilia, giammai non soffersono, dove abbiano possuto, che 'l Volto santo si dipinga in alcun luogo loro, e sono stati malvoglienti di chi mai n'ha fatto dipignere alcuno.
Capitò questo maestro Niccola nella nostra città per una questione che aveva mosso contro a lui uno Inquisitore de' frati predicatori in Cicilia; e andavasi a diffinire in Corte dinanzi al Sommo Pontefice, nel tempo ch'e' Fiorentini ebbono guerra co' pastori della Chiesa. E sentendosi per Firenze la profonda scienza del maestro Niccola, fecionlo pregare dovesse predicare qualche dí, egli predicò tre feste, l'una dello Spirito Santo, l'altra della Trinità, la terza del Corpo di Cristo; tutte altissime materie e da non meno valente uomo che fusse elli.
Essendo una di queste feste in pergamo il dí dopo desinare, ed essendovi moltissima gente, fra l'altre cose, giugnendo in una parte, volendo dare ad intendere l'essenzia del nostro Signore Jesu Cristo, dice:
- Com'è fatta la faccia di Cristo?
E furioso si volge verso il Volto santo dicendo:
- Non è fatta come la faccia del Volto santo che è colà che ben ci vegno a crepare, se Cristo fu cosí fatto.
E detto questo, si ritorna a quello che avea a dire.
La predica comincia a ridere, e ridi e ridi, tanto che per buona pezza né il detto Maestro poteo dire, né altri ascoltare. E io scrittore mi trovai con un altro valente frate maestro in teologia, che avea nome maestro Ruggieri di Cicilia nella detta chiesa; vidi certi che 'l pregavano se volea acconciare una questione, mandasse per Dino di Geri Tigliamochi (questo Dino avea fatto fare quello Volto santo); rispose maestro Ruggieri:
- Questo Dino che voi dite che io mandi per lui, è quello Dino che ci ha posto quel Volto santo colae?
Dissono di sí; e que' disse:
- Se tutti gli pianeti avessono disposto che questo accordo si facesse, adoperandosi questo Dino in ciò, lo farebbe discordare, immaginando ch'el ci abbia fatto porre questo Volto santo in questo luogo.
E mai non volle mandare per lui.
E cosí questi due valenti uomini con cosí fatta piacevolezza vollono mostrare e mostravono a chi andava alle loro camere che del nostro Signore avevano figure assai, senza cercare di cose nuove; e che il nostro Signore e di viso e d'ogni membro fu il piú bel corpo che fusse mai e che questo Volto santo che parea uno mascherone era il contrario.


NOVELLA LXXIV

Messer Beltrando da Imola manda un notaio per ambasciadore a messer Bernabò, il quale, veggendolo piccolino e giallo, il tratta come merita.

Egli è poco tempo che, essendo messer Beltrando degli Alidosi signore d'Imola, mandò un notaio per ambasciadore a messer Bernabò signore di Melano, il qual notaio avea nome ser Bartolomeo Giraldi, omicciuolo sparuto, piccolissimo, tutto nero e giallo, con gli occhi giallissimi, che parea se gli fosse sparto su il fiele. Giugnendo costui dove era il signore, trovò che era su una scala, per salire a cavallo, e 'l cavallo era ivi, e' famigli già alla staffa. Fatta la riverenza questo ambasciadore cosí fatto, e messer Bernabò dalla prima volta in su, non che lo guardasse, ma tenea volto il viso in altra parte, e dicea:
- Di' pur via ciò che tu vuogli.
E cosí, costui dicendo, e messer Bernabò mostrandoli le rene, chiamò a sé un suo famiglio e disse:
- Va', sella il tale cavallo, e allungali le staffe quanto puoi, e menalo subito qui.
Il famiglio andò presto, e menò il cavallo nella forma che il signore avea detto. Come 'l signore vide il cavallo, chiamò il famiglio, e disse:
- Quando io vel dico, o accennerò, aiutate porre a cavallo questo ambasciadore, e non raccorciate le staffe.
E come disse, cosí fu fatto; ché messer Bernabò disse:
- Messer l'ambasciadore, sali su quel cavallo, e verra' con mi parlando.
E detto questo, salí il signore a cavallo, e l'ambasciadore ciò veggendo, volendo salire sul cavallo delle staffe lunghe, e non potendo, fu da' famigli postovi su, come un fanciullo. El signore cavalca tosto; e costui, non avendo modo né d'acconciarsi, né da raccorciar le staffe, cavalca come puote. Questo cavallo, che 'l signore avea fatto venire, sempre andava aizzato e intraversando; e messer Bernabò dicea:
- Dite ciò che voi volete; lasciate pure andare il cavallo.
E non lo guardava però in viso, se non poco. Costui s'andava con le gambucce spenzolate a mezzo le barde, combattendo e diguazzando; e quello cotanto che diceva, lo dicea con molte note, come se dicesse uno madriale, secondo le scosse che avea, che non erano poche. E messer Bernabò quanto piú il vedea diguazzare, piú dicea:
- Di' pur oltre i fatti tuoi, ché io t'intenderò bene.
Brievemente egli il menò quattr'ore a questa maniera, che assai volte fu l'ambasciadore per rassegnarsi in terra, e mai non poté mettersi e' panni sotto, né acconciarsi, sí che le cosce, non che le gambe, non portasse scoperte. Alla fine tutto lacero, come quello che avea poco prosperità, ritornò col signore alla corte, donde s'era partito, piú giallo e piú cattivelluccio che mai; e 'l signore, sceso che fu, disse che ben gli risponderebbe, e andò suso.
Quando l'ambasciadore ne scese, s'attaccoe agli arcioni, lasciandosi spenzolare; e non giugnendo a un braccio a terra, fu, per una volta che 'l cavallo diede, presso che caduto. Alla fine assai debolmente si posò in terra ferma; e mai non poté andare innanzi al signore, stando in Melano piú di quindici dí; e, s'ebbe risposta, gli fu fatta per altrui, e tornossi al signore che l'avea mandato.
Il quale, udito dal giallo ambasciadoruzzo come era stato trattato, s'avvisò che messer Bernabò aveva ciò fatto per la strutta e dolorosa apparenza del suo ambasciadore, il quale parea uno rigogolo piú tosto che persona.
Molto si dovrebbe piú guardare, quando l'uomo manda gli ambasciadori, che non si fa. Vogliono essere attempati e savi, e apparenti; altrimenti chi gli manda n'ha poco onore, e vie meno eglino che sono mandati. E cosí intervenne a questo ambasciadore giallo detto di sopra.


NOVELLA LXXV

A Giotto dipintore, andando a sollazzo con certi, vien per caso che è fatto cadere da un porco; dice un bel motto; e domandato d'un'altra cosa, ne dice un altro.

Chi è uso a Firenze, sa che ogni prima domenica di mese si va a San Gallo; e uomini e donne in compagnia ne vanno là su a diletto, piú che a perdonanza. Mossesi Giotto una di queste domeniche con sua brigata per andare, ed essendo nella via del Cocomero alquanto ristato, dicendo una certa novella, passando certi porci di Sant'Antonio, e uno di quelli correndo furiosamente, diede tra le gambe a Giotto per sí fatta maniera che Giotto cadde in terra. Il quale aiutatosi da sé e da' compagni, levatosi e scotendosi, né biastemò i porci, né disse verso loro alcuna parola; ma voltosi a' compagni, mezzo sorridendo, disse:
- O non hanno e' ragione? ché ho guadagnato a mie' dí con le setole loro migliaia di lire, e mai non diedi loro una scodella di broda.
Gli compagni, udendo questo, cominciorono a ridere, dicendo:
- Che rileva a dire? Giotto è maestro d'ogni cosa; mai non dipignesti tanto bene alcuna storia quanto tu hai dipinto bene il caso di questi porci.
E andaronsene su a San Gallo; e poi tornando da San Marco, e da' Servi, e guardando, com'è usanza, le dipinture, e veggendo una storia di nostra Donna e Josefo ivi da lato, disse uno di costoro a Giotto:
- Deh dimmi, Giotto, perché è dipinto Josef cosí sempre malinconoso?
E Giotto rispose:
- Non ha egli ragione, che vede pregna la moglie, e non sa di cui?
Tutti si volsono l'uno all'altro, affermando, non che Giotto fusse gran maestro di dipignere, ma essere ancora maestro delle sette arti liberali. E tornatisi a casa, narrorono poi a molti le due novelle di Giotto, le quali furono tenute parole proprio di filosofo dagli uomini che avevono intendimento. Grande avvedimento è quello di uno vertuoso uomo, come fu costui.
Molti vanno e guardano piú con la bocca aperta, che con gli occhi corporei, o mentali; e però qualunche vive non può errare d'usare con quelli che piú che lui sanno, però che sempre s'impara.

 
 
 

Er fabbro ferraro

Post n°1344 pubblicato il 09 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Er fabbro ferraro

Appena va a bottega scopre er foco,
dà 'na tirata ar mantice e l'attizza;
er foco je sfavilla, scrocchia, schizza,
e er ferro s'ariscalla a poco a poco.

Quann'è rosso lo caccia e, come un coco
ch'aggiusta 'na pietanza, taja, spizza,
l'intorcina, lo storce, lo riaddrizza,
je dà la forma che je fa più gioco.

A entrà lì drento, senti un'oppressione;
ma quello, sì! cià preso l'abbitudine,
lavora sempre e canta le canzone.

E le canta co' tanto sentimento
ch'er martello, cór batte su l'incudine,
je fa 'na spece d'accompagnamento.

II

Per aria ce sta un bucio, e lui da quello
vede 'na loggia che je sta de faccia,
e vede puro quanno ce s'affaccia
un grugno spizzichino e ciumachello.

Allora pare che je vadi in faccia
tutta quanta la fiara der fornello,
allora sente er peso der martello,
nu' ne pô più, je cascheno le braccia!

Lassa perde l'incudine e s'incanta
coll'occhi spalancati su quer bucio...
Poi se dà pace, rilavora e canta:

— Dimme si me vôi bene e si te piacio:
io sto vicino ar foco e nun m'abbrucio,
ma tu m'abbruceressi con un bacio!

Trilussa

 
 
 

Il Trecentonovelle 66-70

Post n°1343 pubblicato il 09 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXVI

Coppo di Borghese Domenichi da Firenze, leggendo una storia del Titolivio, gli venne sí fatto sdegno che, andando maestri per danari a lui, non gli ascolta, non gli intende, e cacciagli via.

Fu un cittadino già in Firenze, e savio, e in istato assai il cui nome fu Coppo di Borghese, e stava dirimpetto dove stanno al presente i Leoni, il quale faceva murare nelle sue case; e leggendo un sabato dopo nona nel Titolivio, si venne abbattuto a una storia; come le donne romane, essendo stata fatta contra loro ornamenti legge di poco tempo, erano corse al Campidoglio, volendo e addomandando che quella legge si dirogasse. Coppo, come che savio fosse, essendo sdegnoso, e in parte bizzarro, cominciò in sé medesimo muoversi ad ira, come il caso in quella dinanzi a lui intervenisse; e percuote e 'l libro e le mani in su la tavola, e talora percuote l'una con l'altra mano, dicendo:
- Oimè, Romani, sofferrete voi questo, che non avete sofferto che re o imperadore sia maggior di voi?
E cosí si nabissava, come se la fante in quell'ora l'avesse voluto cacciare di casa sua.
In questa cosí fatta furia stando il detto Coppo, ed ecco venir li maestri e manovali che uscivano d'opera, e salutando Coppo, domandarono denari, come che molto il vedessino adirato. E Coppo come uno serpente volgesi a costoro, dicendo:
- Voi mi salutate, e io vorrei volentieri essere a casa il diavolo; voi mi chiedete danari delle case che mi acconciate, io vorrei volentieri ch'elle rovinasseno testeso, e rovinassonmi addosso.
Costoro si volgeano l'uno all'altro, maravigliandosi, dicendo:
- Che vorrebb'egli?
E dissono:
- Coppo, se voi avete cosa che vi spiaccia, noi siamo malcontenti; se noi possiamo fare alcuna cosa, che vi levassi dalla noia che avete, ditecelo, e farenlo volentieri.
Disse Coppo:
- Deh, andatevi con Dio oggi al nome del diavolo, ch'io vorrei volentieri non esser mai stato al mondo, pensando che quelle sfacciate, quelle puttane, quelle dolorose, abbiano aúto tanto ardire ch'elle sieno corse al Campidoglio per rivolere gli ornamenti. Che faranno li Romani di questo? ché Coppo, che è qui, non se ne puote dar pace: e se io potessi, tutte le farei ardere, acciò che sempre chi rimanesse se ne ricordasse: andatevene, e lasciatemi stare.
Costoro per lo migliore se n'andorno, dicendo l'uno all'altro:
- Che diavolo ha egli? e' dice non so che di romani: forse da stadera.
E l'altro dicea:
- E' conta non so che di puttane: avrebbegli la donna fatto fallo?
E uno manovale disse:
- A me pare che dica del capo mi doglio ; forse gli duole il capo.
Disse un altro manovale:
- A me pare che si dolga che gli sia versato un coppo d'oglio.
- Che che si sia, - dicon poi - noi vorremmo e' danari nostri, e poi abbia quel vuole.
E cosí deliberarono di non andare piú a lui per allora, ma di tornarvi la domenica mattina; e Coppo si rimase nella battaglia, della quale essendo la mattina raffreddo, e tornandovi e' maestri, diede loro ciò che doveano avere, dicendo che la sera avea altra maninconia.
Savio uomo fu costui, come che nuova fantasia gli venisse; ma ogni cosa considerata, ella si mosse da giusto e virtuoso zelo.


NOVELLA LXVII

Messer Valore de' Buondelmonti è conquiso e rimaso scornato da una parola che un fanciullo gli dice, essendo in Romagna.


Molti sono che viddono e udirono già messer Valore, e sanno, come che fusse reputato matto, quanto fu reo e malizioso. Egli erano poche cose di che non s'intendesse e ragionasse, con uno atto quasi di stolto. Essendo pervenuto a una terra una sera in Romagna, e favellando dov'erano Signori e gentili uomini, o che gli fusse fatto in prova fare, o che da sé lo facesse, venne un fanciullo, il quale era d'età forse di quattordici anni, e accostandosi a messer Valore, il cominciò a guatare in viso, dicendo:
- Vo' siete un grande calleffadore.
Messer Valore con la mano pignendolo da sé, dice:
- Va', leggi.
Costui fermo; e messer Valore dicendo per sollazzo con costoro dicea:
- Quale avete voi che sia la piú preziosa pietra che sia?
Chi dicea il balascio, chi 'l rubino, e chi l'elitropia di Calandrino, e chi una, e chi un'altra.
Dice messer Valore:
- Voi non ve ne intendete; la piú preziosa pietra è la macina del grano; e s'ella si potesse legare e portarla in anello, ogni altra pietra passerebbe di bontà.
Dice il fanciullo (e tira messer Valore per lo gherone):
- Mo qual volete voi piú, e qual val piú, o un balascio, o una macina?
Messer Valore guata costui, e scostagli la mano da sé, e dice:
- Vanne a casa, pisciadura.
E que' fermo. La brigata comincia a ridere e sí della macina da grano, e sí del detto del fanciullo. Messer Valore dice:
- Voi ridete? Io vi dico tanto, che io ho trovato esser maggior virtú in un piccolo sasso che non è macina da grano, che io non ho trovato né in pietre preziose, né in parole, né in erbe, e pur l'altro dí ne feci la sperienza, e sapete che si dice che in quelle tre cose lasciò Dio la virtú, e udite come, e credo che voi stessi il confesserete. Egli era l'altro dí un giovanetto su uno mio fico, e facevami danno, cogliendo que' fichi che v'erano su. Io cominciai a provar la virtú delle parole, dicendo: "Scendi giú, vanne"; e infine minacciando quanto potei, e' non si mosse mai per le mie parole. Veggendo che le parole non valeano, cominciai a cogliere dell'erbe, e facendo di quelle mazzuoli, le gittava, e davagli con esse alcuna volta, e le furono novelle, che mai si partisse. Veggendo che ancora non mi valevano l'erbe, misi mano alle pietre, e cominciai a gittare verso lui, dicendo: "Scendi giú". Com'egli vedde pur ricorre la seconda pietra, avendo gittata la prima, subito scese a terra del fico, e andossi con Dio. Questo non averebbe fatto quanti rubini e quanti balasci furono mai.
La brigata tutta con grande sollazzo dissono messer Valore aver ragione, e dire il vero; e 'l fanciullo guarda messer Valore con un atto malizioso, e dice:
- In fé di Dio, questo gentiluomo è molto amico delle pietre, e ne deve avere piena la scarsella.
E pongli mano a un carniere ch'egli avea. Messer Valore si volge, e dice:
- Vanne col malanno; chi diavol è questo fanciullo? Serebb'egli Anticristo?
Dice il fanciullo:
- Io non so che Anticristo; s'io potessi far quello che possono gli signori di Romagna, in fé di Dio, che io vi darei tante di queste pietre, che hanno sí gran virtú che portandole in Toscana voi ne andreste ben fornito.
Messer Valore quasi tutto scornato, udendo le parole di questo fanciullo, dice verso la brigata:
- E' non fu mai nessun fanciullo savio da piccolino che non fusse pazzo da grande.
Il fanciullo, udendo questo, disse:
- In fé di Dio, gentiluomo, voi dovest'essere un savio fantolino.
Messer Valore, strignendosi nelle spalle, disse:
- Io te la do per vinta.
E rimase quasi tutto smemorato, dicendo:
- Non trovai mai nessun uomo che mi mattasse, e uno fanciullo m'ha vinto, e matto.
Il piacere che quelli dattorno ebbono di ciò non è da domandare; e quanto piú ridevano, messer Valore piú imbiancava. Nella fine disse messer Valore:
- Chi è questo fanciullo?
Fugli detto come era figliuolo d'un uomo di corte, chiamato o Bergamino, o Bergolino. Disse messer Valore:
- E' m'ha sí bergolinato, che io non ho potuto dir parola, che non m'abbia rimbeccato.
Dice alcuno:
- Messer Valore, menatelo con voi in Toscana.
Dice messer Valore:
- Non che io lo meni in Toscana, io fuggirei di stare là, quando egli vi fusse: fatevi con Dio, e bastivi questo, ché se gli altri Romagnuoli sono della razza di questo fanciullo, e' non ne fia mai nessuno ingannato.
E cosí a Firenze si tornò scornato e beffato da uno fanciullo colui che tutti gli altri beffava.


NOVELLA LXVIII

Guido Cavalcanti, essendo valentissimo uomo e filosofo, è vinto dalla malizia d'un fanciullo.

La passata novella mi fa venire a mente questa che seguita, la quale fu in questa forma. Giucando a scacchi uno d'assai cittadino, il quale ebbe nome Guido de' Cavalcanti di Firenze, uno fanciullo con altri facendo lor giuochi, o di palla o di trottola come si fa, accostandosegli spesse volte con romore, come le piú volte fanno, fra l'altre, pinto da un altro questo fanciullo il detto Guido pressò; ed egli, come avviene, forse venendo al peggiore del giuoco, levasi furioso e dando a questo fanciullo, disse:
- Va', giuoca altrove.
E ritornossi a sedere al giuoco delli scacchi. Il fanciullo tutto stizzito piagnendo, crollando la testa s'aggirava, non andando molto da lunga, e fra sé medesimo dicea: "Io te ne pagherò." E avendo uno chiovo da cavallo allato, ritorna verso la via con gli altri, dove il detto Guido giucava a scacchi; e avendo un sasso in mano, s'accostò drieto a Guido al muricciuolo o panca, tenendo in su essa la mano col detto sasso, e alcuna volta picchiava; cominciando di rado e piano, e poi a poco a poco spesseggiando e rinforzando, tanto che Guido voltosi disse:
- Te ne vuoi pur anche? Vattene a casa per lo tuo migliore, a che picchi tu costí cotesto sasso?
E quello dice:
- Voglio rizzare questo chiovo.
E Guido agli scacchi si rivolge, e viene giucando.
Il fanciullo a poco a poco, dando col sasso, accostatosi a un lembo di gonnella o di guarnacca, la quale si stendea su la detta panca dal dosso di detto Guido, su essa accostato il detto chiovo con l'una mano, e con l'altra col sasso conficcando il detto lembo, e con li colpi rinforzando, acciò che ben si conficcasse e che 'l detto Guido si levasse; e cosí avvenne come il fanciullo pensò; ché 'l detto Guido essendo noiato da quel busso, subito con furia si lieva, e 'l fanciullo si fugge, e Guido rimane appiccato per lo gherone. Sentendo questo, e quel tutto scornato si ferma, e con la mano minacciando verso il fanciullo che fuggiva, dicendo:
- Vatti con Dio; che tu ci fusti altra volta!
E volendo spastoiarsi, e non potendo, se non volea lasserare il pezzo della guarnacca, gli convenne cosí preso aspettare tanto che venissono le tanaglie.
Quanto fu questa sottil malizia a un fanciullo, che colui che forse in Firenze suo pari non avea per cosí fatto modo fusse da un fanciullo schernito e preso e ingannato!


NOVELLA  LXIX

Passera della Gherminella, credendo trovare gente grossa per arcare, ne va in Lombardia, e trovandoli piú sottili che non volea, ritorna a fare il suo giuoco a Firenze.

Passera della Gherminella fu quasi barattiere, e sempre andava stracciato e in cappellina, e le piú volte portava una mazzuola in mano a modo che una bacchetta da Podestà, e forse due braccia di corda come da trottola, e questo si era il giuoco della gherminella, che tenendo la mazzuola tra le due mani e mettendovi su la detta corda, dandogli alcuna volta, e passando uno grossolano dicea:
"Che l'è dentro, che l'è di fuori?", avendo sempre grossi in mano per metter la posta.
Il grossolano veggendo che la detta corda stava, che gli parea da tirarla fuori, dicea di quello "che l'è di fuori", e 'l Passera dicea: "E che l'è dentro".
Il compagno tirava, e la corda, come che si facesse, rimanea e fuori e dentro come a lui piacea; e spesse volte si lasciava vincere per aescare la gente e dar maggior colpo. Quando con questo giuoco ebbe consumato quasi ogni uomo, e spezialmente sul canto de' Marignolli dove si vende la paglia, gli disse un dí uno che di questa sua arte con lui alcuna volta si trovava alla taverna:
- Passera, io m'ho pensato che, se tu vai in Lombardia, la gente v'è grossa, tu guadagnerai ciò che tu vorrai, e spezialmente a Como e Bergamo, che vi sono gli uomini che paiono montoni, sí sono grossi; e se tu vuogli, me ne verrò con teco.
Disse il Passera:
- Sie fatto; quando vogliamo?
- Andiamo in tal dí.
Venuto el dí posto, el Passera col suo consigliere si mosse, e giugnendo a Bologna, dove dall'albergo di Felice Ammannati erano molti e Fiorentini e Bolognesi, come Felice il vede, dice:
- Buon buono! Legatevi le borse, brigata, che ecco il Passera.
Il Passera si partí da giuoco il meglio che poté, e non gli parve di stare in Bologna, né di perdersi la fatica. L'altro dí pervenne a Ferrara; là fu ancora sí conosciuto che non vi approdò alcuna cosa. Andossene a Modona, e quivi in su la piazza tese la rete, là dove non pigliò alcuna cosa. Come va, o come sta, inteso che aveano el giuoco, ciascun s'andava con Dio. Andò a Reggio, e quivi misse innanzi il giuoco, e chiamando a sé gente.
- Che volete voi dire? Guardate questo giuoco.
L'uno tirava una reggiaria e l'altro un'altra: e 'l Passera si volge al consigliero e dice:
- Tu m'hai pur condotto bene.
E quel dice:
- Non ti sgomentare; andiamo pur oltre a Parma.
Provorono; chi dicea:
-E'tira quella cordella.
L'altro dicea:
- E' se la tiri, ché io non voglio apparare testeso giuoco nuovo.
E cosí o peggio a Piacenza, che ben lo piagentavano, dicendo:
- O barba, e che giuoco è questo?
E' poteva assai dire, ch'egli era quivi uccellato. A Lodi su la piazza lodavono il giuoco, e domandovonlo onde egli era. Giunto a Melano, dov'erano le buone borse, gli era detto:
- Mo guarda chi crede arcare li Melanesi!
E in tutte le terre passate non guadagnò soldi venti, che gli scotti gli erano costati piú di cento novanta.
Andaronsene a Como tosto tosto, credendo trovar quelli Comasini grossissimi; e là in su la piazza cacciò il Passera fuori la mazzuola e la cordella.
- Chi mette? e che l'è dentro?
Giugne l'uno e dice:
- A mi che fa?
E quel dice:
- E che l'è di fuori?
E un altro giugne, e dice:
- E che fa a mi?
Mai non gli fu fatta altra risposta.
Andaronsene a Bergamo, a Brescia, a Verona, a Mantova, a Padova e in molte altre terre, e non trovorono chi dicesse, se non: "A me che fa?" e "Che fa a mi?" o peggio tanto che, tornati a Firenze, il Passera trovò aver guadagnato lire quattro e soldi otto, e trovò avere speso in lui e nel consigliero lire quarantasette e soldi. Onde, per rifarsi, cominciò a tender la trappola in Firenze al luogo usato. Il primo dí che vi fu, correvano le genti come se mai non l'avessino veduto, credendo che 'l Passera fusse morto, e ciascuno gli facea festa; e chi piú era caduto alle sue reti per li tempi passati, piú di nuovo vi cadea, e guadagnò co' fatappi in pochi dí ciò ch'egli avea in Lombardia messo al di sotto: dicendo con assai poi questa novella, affermando che tra quanti luoghi avea cerchi, e in Lombardia e altrove, mai non avea trovata gente paolina come là dov'egli era nato.


NOVELLA LXX

Torello del Maestro Dino con uno suo figliuolo si mettono a uccidere dua porci venuti da' suo' poderi, e in fine, volendogli fedire, li porci si fuggono e vanno in un pozzo.


Nella nostra città fu uno pratico e avvisato uomo chiamato Torello del maestro Dino, al quale essendo venuto per le feste di Pasqua due porci da' suo' luoghi da Volognano, che pareano due asini di grandezza; e convenendo che cercasse chi gli uccidesse, acconciasse e insalasse, pensò che ciò non si potea fare senza buon costo; e pertanto disse al figliuolo:
- Ché non uccidiàn noi questi porci noi, e conciànli? noi abbiamo il fante, e risparmierenci i danari che vorrebbe chi gli acconciasse; e credo che noi farèn bene come loro.
E dice al figliuolo:
- Che di'?
E que' risponde:
- Dico che noi il facciamo.
- Or bene, troviamo due invoglie e uno coltellino bene appuntato, e metteremo l'uno in terra; e io - disse Torello - l'ucciderò, e voi lo terrete che non fugga.
Risposono che ben lo farebbono. Torello, recatosi in concio che era gottoso e debole, si mette il grembiule, e chinasi e fa chinare gli altri a pigliare il detto porco per le gambe, e fannolo cadere in terra: come gli è in terra, Torello che avea attaccato il coltellino alla coreggia, se lo reca in mano, e volendo fedire il porco per ucciderlo, e standoli col ginocchio addosso e senza brache, e 'l figliuolo essendo andato per un catino per la dolcia, appena era il ferro entrato nella carne un'oncia, che 'l porco cominciò a gridare; l'altro che era sotto una scala, sentendo gridare il compagno, corre e dà tra' calonaci di Torello. Come il ferito sente il compagno venuto alla riscossa, furiosamente dà un guizzo sí fatto che caccia Torello in terra. In questo giugne il figliuolo, e Torello dice:
- Tu se' stato tu che non torni mai.
- Anzi tu.
- Anzi tu.
E con questa tenzione, il porco uscito lor tra le branche, corre per uno androne, e l'altro porco drietoli, e dànno su per una scala. Torello levatosi, e 'l figliuolo, dicono:
- Ohimè! male abbiamo fatto.
Dànno su per la scala dietro a' porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di qua, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria tra bicchieri e orciuoli, per forma e per modo che pochi ve ne rimasono saldi.
Alla perfine il porco s'accostò al pozzo ch'era su la sala e gittòvisi dentro, e l'altro porco drietogli.
Quando Torello vede questo, dàssi delle mani su l'anche dicendo:
- Oimè, or siàn noi diserti -; e fassi alle sponde guardando nel pozzo. - Che faremo e che diremo?
Alla per fine voltosi al suo fante, il pregò per amor di Dio che si collasse nel pozzo, e togliesse un buon coltello appuntato e una fune, e o vivi o morti pensasse di legarli; ed egli e 'l figliuolo tirerebbon su la fune del pozzo, alla quale accomandasse li detti porci. Il fante bestia volle servire Torello, e preso il detto fornimento s'attaccoe alla fune del pozzo, e còllavisi entro. Come fu giunto giuso, e 'l porco ferito gli dà di ciuffo alla gamba, e quanto ne prese tanto ne levò.
Sentendo il fante il dolore del morso, comincia a gridare: "Accorr'uomo, oimè, oimè!" a sí alte voci che la vicinanza trasse, e truovano cosí fortunoso caso; e saputo come il fatto era ito, dicono a Torello:
- In buona fé, tu hai fatto un bel risparmio; quando tu riaverai questi porci, fara'celo assapere, e peggio è ch'egli averanno morto questo buon uomo che v'entrò dentro.
E fassi alcuno alla sponda dicendo:
- Se' tu vivo?
E quello dice:
- Oimè, per Dio! tirate la fune e io m'atterrò a essa per uscire di qui.
E 'l porco in quell'ora anco l'assanna; ed egli si volge in su:
- Oimè, tirate, ché, se voi non tirate, io son morto.
Alla fine tirarono la fune, come se attignessero acqua; ed eccoti il tristo su con una gamba guasta e tutta stracciata, che piú mesi ne penò a guarire, e gridava:
- Oimè! Torello, a che partito me avete messo? io non serò mai piú uomo.
Torello dicea:
- Sta' cheto; io ti farò medicare al maestro Banco che è molto mio amico, ma de' porci come si fa?
Dice il fante:
- Il pensiero sia vostro, che volete tòr l'arte a' tavernai.
Alla per fine e' s'andò per due beccai che desseno e consiglio e aiuto: e dissono voleano d'ogni porco fiorini uno a trargli del pozzo. Torello, veggendosi mal parato, disse:
- Sie fatto.
E domandorono se gli volea uccidere, però che laggiú convenía s'uccidessino. Disse di sí:
- Fate tosto, e fate come voi volete.
Allora l'uno s'armò come se andasse a combattere, e con uno coltello appuntato a spillo andò giuso, e brieve, dopo gran pena, gli uccise, e legati prima l'uno e poi l'altro alle funi del pozzo, gli tirorono fuori: dell'acconciatura poi gli pagò quello se ne venía, che fu forse un altro fiorino. L'acqua del pozzo rossa di sangue umano e di sangue porcino, convenne che in poco tempo si rimondasse, e lavasse il pozzo piú di otto volte, e costò bene fiorini tre. I porci non ebbono dolce, la carne fu tutta livida e percossa, e fu assai di peggio. Or questo risparmio fece questo valente uomo ch'e' porci valeano forse dieci fiorini ed egli ne spese poi forse altrettanti, senza le beffe che furono via piú.
La novella detta, per alcuno giovane fu già scritta, e molto piú lungamente, però che mette ch'e' porci andorono in cucina e in quella tempestorono ciò che v'era. E questo non fu vero; però che quello della cucina avvenne a uno gentiluomo de' Cerchi, vicino di Torello, che, sentendosi piú giovane e meglio in gambe di lui, volle provare d'uccidere un suo porco; il quale da lui fedito, come questo, sí gli uscí tra mani, e correndo su per la scala, imbrattando ogni cosa col sangue, n'andò in cucina, e là fece gran danno, tempestando ciò che v'era. Questi porci mi fanno ricordare d'alcun'altra novella, per lo serrarsi insieme, quando sono offesi, la quale racconterò qui da piede.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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