Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

Messaggi del 14/03/2015

La fattucchiera

Post n°1366 pubblicato il 14 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La fattucchiera

Abbita in Borgo, in un bucetto scuro,
pieno de ragni che te fa spavento:
c'è 'na scanzìa, du' sedie, un letto a vento
e quarche santo appiccicato ar muro.

Tra le pile e le carte ce tiè puro
un sacco de barattoli d'inguento,
erbe e noce pijate a Benevento,
bone pe' fa' qualunquesia scongiuro.

Benanche che 'sto sito è così infame,
in certi giorni c'è de le giornate
ch'è sempre pieno zeppo de madame.

E ce ne vanno nun se sa se quante!
Tutte signore oneste, maritate,
che vonno le notizzie de l'amante.

II

Appena ch'entrai drento, un gatto rosso,
che stava a sgnavolà su la scanzìa,
invetri l'occhi drento a quelli mia,
arzò er groppone e diventò più grosso.

— Parla, — fece la strega — tira via:
t'ha piantato l'amico? Sputa l'osso.
Vôi scoprì un ladro? Ah, questo qui nun posso:
io fo la strega, mica fo la spia! —

Perché 'sta fattucchiera è un po' curiosa:
se ce vai p'interessi o per amore
lei t'indovina subbito la cosa;

se invece, viceversa, tu ce vai
pe' scoprì un ladro, è peggio der questore:
nun so perché, nun c'indovina mai

III

Io ce provai. Je dissi: — L'antra sera
hanno arubbato una catena d'oro
a 'na famija a vicolo der Moro,
la quale stava drento a 'na peschiera...

— Benone: — disse — e in cammera chi c'era? —
Dico: — Un commennatore amico loro...
Poi venne un capo-mastro a fa' un lavoro...
— E chiaro! — barbottò la fattucchiera —

Senza che cerchi tanto, sposa mia,
la robba che te manca l'ha rubbata
er capo-mastro prima d'annà via. —

Defatti fu arestato er muratore...
e la catena d'oro fu trovata
ne le saccocce der commennatore.

 
 
 

Monte Gennaro ...

Post n°1365 pubblicato il 14 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Monte Gennaro un sabato pomeriggio

Dove potrò trovare
un ruscello,
un prato verde
che mi parlino;
dove potrò capire
di essere anch'io
una creatura?

Dietro casa mia,
in lontananza,
distinguo
una sottile catena di monti
attraverso la foschia.
Intravedo
dei pennacchi bianchi,
forse la neve;
più che vedere,
immagino,
là in fondo,
lontano,
su quelle cime
dietro casa mia.

Da un impercettibile tepore
sulle mie guance
intuisco
la luce del sole.
E' inverno;
tra poco
le luci dei lampioni,
per strada,
si accenderanno
ed il sole se ne andrà,
senza lasciare in me
tracce di rimpianto.

Per un istante
i banchi del mercato,
sotto il mio balcone,
sono rimasti in silenzio;
ora ricominciano
a vociare,
a muoversi,
a vivere della stessa vita
che intuisco agitarsi
dentro i palazzi
che circondano la mia casa.
Ma tutto
è così lontano;
come i monti
che intravedo
là in fondo, lontano.

Sento il fischio di un treno,
in quella direzione;
dalla ferrovia
vedo alzarsi un filo di fumo.
Guardando, dal mio balcone,
vedo solo palazzi,
fumo,
ancora palazzi, poi,
all'orizzonte,
una foschia sempre più densa;
dietro ancora, non li vedo più,
i monti innevati,
i ruscelli, i prati che ora, per me,
sono muti.

Lentamente il sole
si lascia ingoiare
dalla casa di fronte alla mia.

Valerio Sampieri
16 novembre 1970 

 
 
 

Il Trecentonovelle 81-84

Post n°1364 pubblicato il 14 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXXXI

Uno Sanese, stando da casa i Rossi in Firenze, avendo prestato danari a uno di loro, va dov'e' giuoca e colui, veggendolo, e avendo vinto, comincia a biastemare, e 'l Sanese dice che non gli de' dar nulla.

Nel tempo che molti gentiluomini, avendo perduta la signoria di Siena, furono confinati molti di loro chi qua e chi là, fu confinato tra gli altri uno Nastoccio o Minoccio de' Saracini, il quale tolse una casa a pigione da casa i Rossi; e là dimorando, era usante, come sono li Sanesi, ed era giucatore di tavole bonissimo. Aveva prestato costui a un Borghese de' Rossi circa fiorini dieci, ed era passato ben due mesi che riavere non gli potea. Ora questo Sanese, essendo da alcuni vicini invitato di bere, dice l'uno:

- Io ho fatto venire un fiasco di vino di villa, andianne a bere.

Dice il Sanese:
- Per lo santo sangue di Dio, che non potrebbe esser buono Iddio, se fusse in fiasco; e ancora si laverebbe prima un ventre che un bicchiere casereccio: andiàncene alla taverna, ché è qui presso un buon vino al Canto a' quattro paoni.

La brigata, udendo li piacevoli motti del Sanese, non seppono disdire. Andarono a bere con lui alla taverna; e avendo quasi beúto quello che piacea loro, venne un suo compagno a dirli che colui che gli dovea dare dieci fiorini giucava a tavole da casa i Gucciardini, e che avea vinto ben trenta fiorini. Udendo il Sanese questo, disse a' compagni:
- Deh, andiamo di quassú dal pozzo Toscanegli, e torneremo in giú verso il ponte, ché m'è detto che 'l tale giuoca, e ha vinto; forse mi renderà dieci fiorini.
Mossonsi, dicendo:
- Fa' la via a tuo senno, e noi seguiremo.

E cosí andando, come costui si venne appressando, e Borghese, veggendolo, comincia adirarsi e percuotere le tavole, come se mai non avesse vinto; e come il Sanese gli fu presso, piú mostrava Borghese l'ira, volgendo il viso al cielo, e biastemando tutta la corte del paradiso.
Giunto il Sanese, e veggendo gli atti dolorosi di Borghese, e immaginando che ciò facea ad arte, per non aver materia di pagare, dice a Borghese:
- Ciòe, non biastemare, tu non mi dee dare cavelle.

Borghese col busso delle tavole, e col furore, fece orecchi di mercatante, onde il Sanese s'andò con Dio, con intenzione di non addomandarli e di non averli mai.
Avvenne da ivi a certi dí che Borghese, giucando e avendo perduto, volea accattare denari, ed essendovi il Sanese, lo richiese di prestanza, dicendo:
- Io ti debbo dare dieci fiorini; prestamene cinque, e fieno quindici.
Il Sanese risponde:
- A me non déi tu dar cavelle.

Dice Borghese:
- Come? Io ti debbo pur dar dieci fiorini; al corpo e al sangue, che io te gli darò domane.
Il Sanese dice:
- Io ti dico che non debbo avere da te nulla.
E colui pur rimettesi. E 'l Sanese mai non disse altro, che:
- A me non déi tu dare cavelle.
E cosí si rimase la cosa; e non credo che mai gli riavesse; ché se quel gentiluomo de' Rossi avesse aúto conoscimento, se non gli dovesse mai aver renduti al Sanese, gli dovea rendere, per la piacevolezza delle parole usate verso lui.

 

NOVELLA LXXXII

Uno Genovese quasi uomo di corte per una festa che si fa a Melano, giugne dinanzi a messer Bernabò, il quale, volendo vedere come sostiene al bere, il fa provare con un gran bevitore suo famiglio; e 'l Genovese il vince.

Quando messer Marco Visconti primogenito di messer Bernabò menò la donna sua che avea nome madonna Isabetta della casa di Baviera, o di quelle maggiori della Magna, capitò a questa corte, com'è d'usanza, uno Genovese piacevolissimo, ed era come uno uomo di corte, bevitore era grandissimo e mai il vino non gli facea noia. Avvenne che costui andò a vicitare messer Bernabò, e stando dinanzi a lui inginocchioni, e dicendo sue novelle, e messer Bernabò, considerando, come colui che conoscea gli uomini all'alito, il lasciò star piú d'un'ora, che mai non disse che si levasse. Alla per fine, dolendo al Genovese le ginocchia, da sé stesso si levò, dicendo:
- Signor mio, io non posso piú stare inginocchioni.
Il signore guarda costui, e dice:
- Tu déi essere uno obbriaco.
Dice il Genovese:
- Io non sono obbriaco, Signore; ma beo volentieri.
Dice messer Bernabò:
- Se tu bei cosí volentieri, vuo' tu bere a prova con un mio famiglio?
Dice il Genovese:
- Utinam, Domine.
Dice messer Bernabò:
- Aspetta un poco -; e fa chiamare il bevitore suo.
Il qual, subito fu dinanzi a lui, dice il signore:
- Vien za; vuo' tu fare a prova di bere con costui?
E quegli risponde:
- Signore, volentiera.
- Or mo via, - dice il signore, - qualunche vincerà, io gli farò un dono com'io crederrò che lo meriti; e colui che perderà, converrà che bea dodici tratti della mia malvasía.
- Sia con Dio, - dissono i bevitori.

Allora il signore dice a' servi:
- Andà addurre uno boccale d'Orlando.
E vanno, e recono uno quarto di un vino bianco, o di Creti, o donde che si fosse, che era sí grande che pochi uomini erano che n'avessono beúto tre volte che non rimanesseno ammazzati. E perché questo vino era cosí grande, e cosí vincea ciascuno, e però il signore il chiamava Orlando. Ora, apparecchiato il vino, e molti bicchieri lavati, dice il signore:
- Pigliàve per la mano, e cominciate a ballare.
E quelli cosí fanno. E 'l signore gli chiama, e dice:
- Date bere a ciascuno tre muiuoli.
E cosí feciono; poi gli facea ballare. Il Genovese ballava molto piú destro.
Chiamatigli la seconda volta, dice:
- Date sei bicchieri a bere a ciascuno.
E cosí beono: poi fa loro ripigliare il ballo.

Il Genovese salta, che parea un beccherello. Il bevitore di messer Bernabò comincia a innaspare da piede. Sono chiamati la terza volta, e dato nove bicchieri per uno; ripigliano il terzo ballo. Il Genovese fa scambietti, lanciandosi in alto piú destro che se fosse stato una lontra; il bevitore del signore non si poteva azzicare, e andava a onde, come se fosse in fortuna. La quarta volta beve il Genovese dodici bicchieri; quel del signore, che era nell'altro mondo, appena gli poté bere; pur gli bevve, sforzandosi quanto poteo.

Ed entrando nel quarto ballo, nel quale il Genovese facea cose maravigliose, l'altro ogni passo era per cadere, e nella fine cadde in terra disteso. Com'elli cadde, il Genovese a cavalcioni li salí addosso; e pregò il signore che lo dovesse far cavaliere in sul corpo di quello obbriaco; e 'l signore disse che lo meritava bene, e fecelo cavaliere in su l'ubbriaco.

Fatto cavaliere, il Genovese guarda il signore, e dice:

- Con vostra licenza, volete voi che io facci lui cavaliere bagnato sí come merita?

Dice il signore:

- Fa' ciò che tu vuogli.

Il Genovese mette mano alle brache, e scompisciò l'obbriaco con piú orina che non avea beúto malvagía, che ne avea bevuto trenta bicchieri; e scompisciato che l'ebbe, col mazzapicchio gli dié tale in su la gota che s'udí come se fussi stata una gran gotata, e disse:

- Questa è la gotata ch'io ti do; e voglio che per mio amore tu abbi nome messer Cattivo.

E cosí fu sempre chiamato.

Quando messer Bernabò ebbe assai di queste cose riso, fece portare il corpo di messer Cattivo dal cortile, dov'erano le stalle de' cavalli suoi, e feciolo gittar su un monte di letame, dicendo:

- Tu l'hai fatto cavalier pisciato, e io lo farò cavalier sconcacado; e te, che meriti d'avere onore, voglio che sia a mia provvisione per quello che tu domanderai (e fa venire due bellissime robbe, e donògliele), e come tu hai battezzato lui messer Cattivo, e io voglio battezzar te messer Vinci Orlando.

E cosí fu sempre chiamato.

A cui vien fatta una cosa o bella o laida, dinanzi a un signore, quando è ben disposto, li vien ben fatto, come venne a questo Genovese: ma a molti è incontrato già il contrario, perché l'animo d'un signore parrà talora cheto, e tra sé medesimo combatte con diverse genti e in diverse parti. Piú sicuro saria, a chi 'l può fare, di non s'impacciare, e non sarà impacciato.

 

NOVELLA LXXXIII

A Tommaso Baronci, essendo de' Priori, sono fatte da' Priori tre piacevoli beffe.

Essendo de' Priori ne' loro tempi Marco del Rosso degli Strozzi, e Tommaso Federighi, e Tommaso Baronci, e altri, avvenne, come spesso interviene, che volendo pigliare il detto Marco e Tommaso Federighi alcuno piacere d'alcuno de' compagni, ebbono procurato Tommaso Baronci esser quello di cui gran piacere si potea pigliare. Essendo il detto Tommaso Baronci Proposto, uno suo paio di scarpette co' becchetti grosse (essendo andato al letto) gli arrovesciorono una sera; e la mattina, levandosi, e sonando in fretta a' collegi, mettendosi le dette scarpette al buio, essendo sollecitato, n'andò nella udienza; e là postosi a sedere, statovi gran pezza, tanto che tutti i collegi v'erano, Marco guardando a' pie' di Tommaso, disse:

- Che è questo Proposto? Vuo' tu andare a cacciare con coteste scarpette?

Quelli guatale e dice:

- Come! che mala ventura è questa? Elle non paiono le mia, benché io non le veggo bene, se io non ho gli occhiali.

E cavossi gli occhiali da lato, e misseseli, e con essi si chinava quanto potea, facendosi verso la finestra; ciascun guatava che scarpette son quelle.

Dicea Tommaso:

- Elle non sono le mie, ch'ell'aveano i becchetti, e queste non l'hanno.

Alla per fine se n'andò alla camera sua, e là se le cavò, e guata e riguata; il Toso famiglio, che v'era presente, disse:

- Tommaso, queste scarpette sono state arrovesciate -; e mostrògli i becchetti, ch'erano dentro.

Dice Tommaso:

- Toso, tu di' vero; che serebbe stato questo?

Quel rispose:

- Io non so; il meglio che ci sia è dirizzarle.

E tra egli e 'l Toso ebbono che fare, anzi che l'avessino addirizzate, ben insino a terza; e pur si passò Tommaso senza darsi piú briga. Marco e Tommaso il dí medesimo feciono un altro giuoco, che gli fororono l'orinale, dove, stando in sul letto ritto, orinava la notte, e riposonlo nel luogo suo; e la sera a cena, essendo su la mensa di molti capponi arrosto, Tommaso Baronci, come Proposto, diede uno cappone al Toso, e disse:

- Va', mettilo nella cassa mia; e domattina il porterai alla Lapa, - cioè alla moglie.

Toso cosí fece. Marco, e Tommaso Federighi, veduto questo, quando ebbono cenato, segretamente feciono pigliare una gatta di quelle della casa, e tolto il cappone, che era nella cassa, vi missono la gatta, e dentro ve la serrarono. E cosí disposto e l'orinale e la gatta, aspettarono il tempo che la detta loro faccenda ordinata venisse a quel fine che desideravono.

Andatisi al letto tutti li signori, su la mezza notte e Tommaso si rizza sul letto, pigliando l'orinale, facendo quello che era usato. Marco, che era desto, dice:

- O Proposto, tu ci desti ogni notte con questo tuo orinare.

Tommaso stillava su per lo letto, e fece orecchi da mercatante, e appiccando l'orinale s'avvide ogni cosa esser ita su per lo letto, e colicandosi, appena trovò un poco d'asciutto. Levandosi la mattina, venendo il Toso ad aiutarlo vestire, dice Tommaso:

- Toso mio, io sono vituperato, e non so che mi fare; la cotal cosa m'è intervenuta; l'orinale mostra che sia rotto; istanotte, orinandovi entro, com'io soglio, tutta l'orina è ita per lo letto, e se i miei compagni veggono, diranno v'abbia pisciato.

Disse il Toso:

- Io v'ho detto piú volte che sarebbe meglio uscire un poco fuore del letto, però che 'l vetro scoppia molte volte, e spezialmente per l'orina, e ciò che v'è dentro s'esce di fuori.

Dice Tommaso:

- Ben la pisceremo! o perché terre' io l'orinale, s'io dovesse uscir del letto?

Dice il Toso:

- E' mi pare che ci sia pisciato troppo: - e stende il copertoio - ecco, io porterò le lenzuola a casa vostra, e dirò che me ne dia un altro paio.

Dice Tommaso:

- Non fare; se la Lapa le vedesse cosí conce, io non arei poi pace con lei; ma fa' com'io ti dirò: portera'le a casa tua, e da'le a qualche feminetta, che le lavi in acqua fresca e asciughile, e non dire di cui siano, e poi le porterai a casa, ma fa' che oggi siano asciutte, e poi le porterai, e allora vorrò che porti il cappone.

E Toso cosí fece, che portò le lenzuola, e fecele lavare, e subito le pose ad asciugare, e asciutte che furono, el Toso le rapportò a Tommaso, il quale el commendò della sollecitudine che aveva aúta, di far fare un bucato senza fuoco, e disse:

- Vie' qua, andiamo per quel cappone, che la Lapa è una donna diversa, e s'ella dicesse nulla delle lenzuola, veggendo il cappone, si rattempererà un poco.

E cosí ragionando Tommaso col Toso, giunsono alla camera, e Tommaso aprendo la cassa, dov'era il cappone, e la gatta schizza fuori, e dàgli nel petto; il quale impaurito lascia cadere il coperchio, e fuggesi fuori tutto smarrito, che quasi era per perdersi affatto. Marco, e l'altro Tommaso, passeggiavano di rincontro per vedere a che la novella dovesse riuscire, e giunti dov'era Tommaso, dicono:

- Che avesti, che tu fuggisti fuor della camera?

Dice Tommaso:

- Io credo che fusse il nimico di Dio; e serà stato quello che m'arrovesciò le scarpette.

Disse il Toso:

- A me parve egli una gatta.

Disse Tommaso:

- Ben, che fu gatto maschio: e' mi parve tre cotanti che una gatta.

Disse il Toso:

- Andiamo alla cassa, e datemi il cappone, ch'io il porti.

E tornano ad aprirla; e apertala, sul tagliere non era alcuna cosa.

Dice Tommaso:

- Oimè! che 'l Toso arà detto il vero, ch'ella s'ha manicato il cappone.

Dice Marco e 'l compagno:

- Onde v'entrò la gatta? ha la cassa gattaiuola?

E 'l Baroncio trae fuora le masserizie, e guatando dice:

- Io non ci veggo né gattaiuola, né buca.

Dice Tommaso Federighi:

- E' m'avvenne una volta, ch'io fui de' signori, com'ora, simil caso; e brievemente, quando io mandai il famiglio col tagliere, che 'l mettesse nella cassa, una gatta v'era entro a dormire: e' non se n'avvedde, e mangiossi quello ch'era sul tagliere, e poi se n'uscí in questa forma che questa.

- Mala ventura, che cosí nuova fortuna non m'avvenne mai piú, e credo che da ieri in qua sia dí ozíaco per me. Or ecco, io non credo mai compiere questo officio che io ritorni alla Lapa mia, che con lei non ho mai paura; e qui ci starò oggimai con gran temenza, però che io credo che tra queste camere sia qualche mala cosa.

Vo' dite pur: gatta, gatta: arrovesciommi la gatta le scarpette, e anco altro, che fu peggio?

Dice Marco:

- E' può ben essere: a cotesto vagliono molte orazioni e paternostri; abbine consiglio con questi maestri in teologia.

E mandò tre dí per certi teologhi, li quali li dierono consiglio ch'egli orasse e dicesse paternostri otto dí dalle quattro ore insino a mattutino; e questo consiglio fu fattura de' due compagni.

Il detto Tommaso, come invilito dalla paura, cosí fece che otto notti quasi non dormí, armandosi con molti paternostri, acciò che 'l nimico non entrasse piú nella cassa, e scemato quaranta libbre, finí l'officio, e tornossi alla Lapa, nelle cui braccia prese gran sicurtà, dicendole che non volea mai piú esser de' Priori, però che 'l demonio era in quelle camere, e a lui avea fatto le cose scritte di sopra, raccontandogliele a una a una: e con questa credenza stette finché visse, che fu poco.

Per le simplicità di molti si muovono spesso de' savi a fare cose da trastulli, per passar tempo; ché benché gli uomini siano signori, perché spesso hanno malinconie, pare che non si disdica fare simili cose per sollazzare la mente.

 

NOVELLA LXXXIV

Uno dipintore sanese, sentendo che la moglie ha messo in casa un suo amante, entra in casa e cerca dell'amico, il quale trovando in forma di crocifisso, volendo con un'ascia tagliarli quel lavorío, il detto si fugge, dicendo: "Non scherzare con l'ascia".

Fu già in Siena uno dipintore, che avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana, ed era assai bella, la quale un Sanese buon pezzo avea vagheggiata, e anco avea aúto a fare con lei, e alcuno suo parente piú volte gliel'avea, detto, e quel nol credea. Avvenne un giorno che, essendo Mino uscito di casa, ed essendo per alcuno caso andato di fuori per vedere certo lavorío, soprastette la notte di fuori. L'amico della donna, di ciò avvisato, la sera andò a stare con la moglie del detto dipintore a suo piacere. Come il parente sentí questo, che avea messo le spie per farnelo una volta certo, subito andò di fuori dove Mino era, e tanto fece che, dicendo per certa cagione dovere andare e tornare dentro, fu mandato uno con le chiavi dello sportello: e questo parente, uscendo fuori, lasciò quello delle chiavi dello sportello che l'aspettasse, e andò a Mino, el quale era a una chiesa presso a Siena; e giunto là disse:

- Mino, io t'ho detto piú volte della vergogna che mogliera fa a te e a noi, e tu non l'hai mai voluto credere; e però, se tu ne vuogli esser certo, vienne testeso e troverra'loti in casa.

Costui subito fu mosso e intrò in Siena per isportello; e 'l parente disse:

- Vattene a casa, e cerca molto bene, però che, come ti sentirà, l'amico si nasconderà, come tu déi credere.

Mino cosí fece, e disse al parente:

- Deh, vienne meco; e se non vuogli entrare dentro, statti di fuori.

E quel cosí fece.

Era questo Mino dipintore di crocifissi piú che d'altro, e spezialmente di quelli che erano intagliati con rilevamento; e aveane sempre in casa, tra compiuti e tra mani, quando quattro e quando sei; e teneagli, com'è d'usanza de' dipintori, in su una tavola, o desco lunghissimo, in una sua bottega appoggiati al muro l'uno allato all'altro, coperti ciascuno con uno sciugatoio grande; e al presente n'avea sei, li quattro intagliati e scolpiti, e li due erano piani dipinti, e tutti erano in su uno desco alto due braccia, appoggiati l'uno allato all'altro al muro, e ciascuno era coperto con gran sciugatoi o con altro panno lino. Giugne Mino all'uscio della sua casa, e picchia. La donna e 'l giovane, che non dormiano, udendo bussare l'uscio, subito sospettano che non fosse quello che era; e la donna, senza aprire finestra o rispondere, cheta cheta va a uno piccolo finestrino, o buco che non si serrava, per vedere chi fosse; e scorto che ebbe essere il marito, torna allo amante, e dice:

- Io son morta: come faremo? il meglio ci sia è che tu ti nasconda.

E non veggendo ben dove, ed essendo costui in camicia, capitorono nella bottega dov'erano li detti crocifissi.

Disse la donna:

- Vuo' tu far bene? sali su questo desco e pònti su uno di quelli crocifissi piani con le braccia in croce, come stanno gli altri, e io ti coprirrò con quel panno lino medesimo, con che è coperto quello; vegna cercando poi quanto vuole che io non credo che in questa notte e' ti truovi, e io ti farò un fardellino de' panni tuoi e metterògli in qualche cassa, tanto che vegna il dí; poi qualche santo ci aiuterà.

Costui, come quello che non sapea dove s'era, sale sul desco e leva lo sciugatoio, e in sul crocifisso piano si concia proprio, come uno de' crocifissi scolpiti, e la donna piglia el panno lino e cuoprelo, né piú né meno, com'erano coperti gli altri, e torna a dirizzare un poco il letto che non paresse vi fusse dormito se non ella; e tolto le calze, e scarpette, e farsetto, e gonnella e l'altre cose dello amante, subito n'ebbe fatto un assettato fardellino e mettelo tra altri panni. E ciò fatto, ne va alla finestra, e dice:

- Chi è?

E que' risponde:

- Apri, io son Mino.

Dice quella:

- O che otta è questa? - e corre ad aprirli.

Aperto l'uscio, e Mino dice:

- Assai m'ha' fatto stare, come colei che se' stata molto lieta che io ci sia tornato.

Disse quella:

- Se tu se' troppo stato, è defetto del sonno, però che io dormiva e non t'udía.

Dice il marito:

- Ben la faremo bene.

E toglie uno lume e va cercando ciò che v'era insino a sotto il letto.

Dice la moglie:

- O che va' tu cercando?

Dice Mino:

- Tu ti mostri nuova; tu 'l saprai bene.

Dice quella:

- Io non so che tu ti di': sapera'tel pur tu.

Andando costui cercando tutta la casa, pervenne nella bottega, dov'erano li crocifissi. Quando il crocifisso incarnato lo sente ivi, pensi ciascuno come gli parea stare; e gli convenía stare come gli altri che erano di legno; ed egli avea il battito della morte. Aiutollo la fortuna, ché né Mino né altri mai averebbe creduto essere in quella forma colui che era nascoso. Stato che Mino fu nella bottega un poco, e non trovandolo, s'uscí fuori. Era questa bottega con una porta dinanzi, la quale si serrava a chiave di fuori, però che uno giovene che stava col detto Mino, ogni mattina l'apriva come s'aprono l'altre, e dalla parte della casa era uno uscetto là, donde il detto Mino entrava nella bottega; e quando ne uscía della bottega e andavane in casa, serrava il detto uscetto a chiave, sí che il vivo crocifisso non se ne poteva uscire, se avesse voluto.

Essendosi combattuto Mino il terzo della notte, e non trovando alcuna cosa, la donna s'andò al letto, e disse al marito:

- Va' tralunando quantunche tu vuogli; se tu ti vuogli andare al letto, sí ti va'; e se no, va' per casa come le gatte, quanto ti piace.

Dice Mino:

- Quand'io arò assai sofferto, io ti darò a divedere che io non sono gatta, sozza troia, che maladetto sia il dí che tu ci venisti.

Dice la moglie:

- Cotesto potre' dir'io: è bianco, o vermiglio quello che favella?

- Io tel farò bene assapere innanzi che sia molto.

Dice quella:

- Va' dormi, va', e farai il tuo migliore, o tu lascia dormir me.

Le cose per istracca si rimasono per quella notte; la donna s'addormentò, e ancora egli andò a dormire. Lo parente, che di fuori aspettava come la cosa dovesse riuscire, standovi insino passata la squilla, se n'andò a casa, dicendo: "Per certo, in tanto che io andai di fuori per Mino, l'amante se ne sarà andato a casa sua".

Levatosi la mattina Mino molto per tempo, e ancora ragguardando per ogni buco, nella fine, avendo assai cercato, aprí l'uscetto e venne nella bottega: e 'l suo garzone aperse la porta di fuori da via della detta bottega.

E in questo, guardando Mino questi suoi crocifissi, ebbe veduto due dita d'uno piede di colui che coperto stava.

Dice Mino fra sé stesso: "Per certo che quest'è l'amico". E guardando fra certi ferramenti, con che digrossava e intagliava quelli crocifissi, non vidde ferro esser a lui piú adatto che un'ascia che era tra essi. Presa quest'ascia, e accostatosi per salire verso il crocifisso vivo, per tagliargli la principal cosa che quivi l'avea condotto, colui, avvedutosi, schizza con un salto, dicendo:

- Non ischerzar con l'asce.

E levala fuori dell'aperta porta; Mino drietoli parecchi passi, gridava: "Al ladro, al ladro"; colui s'andò per li fatti suoi.

Alla donna, che tutto avea sentito, capitò un converso de' frati predicatori che andava con la sporta per la limosina per lo convento. Andato su per le scale, come talora fanno, disse:

- Frate Puccio, mostrate la sporta, e io vi metterò del pane.

Quegli la diede. La donna, cavato il pane, vi misse il fardellino che l'amante avea lasciato, e sopra esso gittò suso il pane del frate e quattro pani de' suoi, e disse:

- Frate Puccio, per amor d'una donna che recò qui questo fardellino dalla Stufa, dove pare che il tale ier sera andasse, io l'ho messo sotto il pane nella vostra sporta acciò che nessuno male si potesse pensare; io v'ho dato quattro pani; io vi priego (ché egli sta presso alla vostra chiesa) quando n'andate, che voi glielo diate a lui, che 'l troverrete a casa; e ditegli che la donna della Stufa gli manda i suoi panni.

Dice Fra Puccio:

- Non piú! lasciate far me.

E vassi con Dio; e giugnendo all'uscio dell'amante, mostrando chieder del pane, domandava:

- Ècci il tale?

Colui era nella camera terrena; udendosi domandare, si fece all'uscio, e dice:

- Chi è là?

Il frate va a lui, e dàgli i panni, dicendo:

- La donna della Stufa ve li manda.

E colui gli dié duo pani, e 'l frate partissi. E l'amante considera bene ogni cosa, e subito ne va al campo di Siena, e fu quasi de' primi vi fusse quella mattina, e là facea de' suoi fatti, come se mai tal caso non fusse avvenuto. Mino quando ebbe assai soffiato, essendo rimaso scornato del crocifisso, che s'era fuggito, ne va verso la moglie dicendo:

- Sozza puttana, che di' che io sono gatta, e che io ho beúto bianco e vermiglio, e nascondi i bagascioni tuoi in su' crocifissi; e' convienne che tua madre il sappia.

Dice la donna:

- Di' tu a me?

Dice Mino:

- Anche dico alla merda dell'asino.

- E tu con cotesta ti favella, - disse la donna.

Dice Mino:

- E anche non hai faccia, e non ti vergogni? che non so ch'io mi tegno che io non ti ficchi un tizzon di fuoco nel tal luogo.

Dice la donna:

- Non saresti ardito, s'io non ho fatto l'uomperché; ché alla croce di Dio! stu mi mettessi mano addosso non facesti mai cosa sí caro ti costasse.

Costui dice:

- Deh, troia fastidiosa, che facesti del bagascione uno crocifisso, che cosí gli avess'io tagliato quello che io volea com'egli s'è fuggito.

Dice la donna:

- Io non so che tu ti beli: qual crocifisso si poté mai fuggire? non sono egli chiavati con aguti spannali? e se non fusse stato chiavato, e tu te ne abbi il danno, se s'è fuggito però che egli è tua colpa, e non mia.

Mino corre addosso alla donna e cominciala a 'ngoffare:

- Dunque m'hai tu vituperato e anco m'uccelli?

Come la donna si sente dare, che era molto piú prosperevole che Mino, comincia a dare a lui; da' di qua, da' di là, eccoti Mino in terra e la donna addossoli, e abburattalo per lo modo. Dice la donna:

- Che vuoi tu dire? Pigliala comunche tu vuoi, che vai inebbriando di qua e di là, e poi ne vieni in casa e chiamimi puttana; io ti concerò peggio che la Tessa non acconciò Calandrino: che maladetto sia chi mai maritò nessuna femina ad alcuno dipintore, ché siete tutti fantastichi e lunatichi, e sempre andate inebbriando e non vi vergognate.

Mino, veggendosi mal parato, priega la donna che lui lasci levare, e ch'ella non gridi, acciò che i vicini non sentino, che, traendo al romore, non trovassino la donna a cavallo. Quando la donna udí questo, dice:

- Io vorrei volentieri che tutta la vicinanza ci fosse.

E levossi suso, e cosí si levò Mino col viso tutto pesto; e per lo migliore disse alla donna che gli perdonasse, ché le male lingue gli avevano dato a creder quello che non era, e che veramente quello crocifisso s'era fuggito per non essere stato confitto. E andando il detto Mino per Siena, era domandato da quel suo parente che l'avea indotto a questo:

- Come fu? come andò?

E Mino gli disse che tutta la casa avea cerco e che mai non avea trovato alcuno; e che, guatando tra' crocifissi, l'uno gli era caduto sul viso, e avealo concio come vedea. E cosí a tutti e' Sanesi che domandavano: "Che è quello?" dicea che uno crocifisso gli era caduto sul viso.

Ora cosí avvenne, che per lo migliore si stette in pace dicendo fra sé medesimo: "Che bestia son io? io avea sei crocifissi e sei me n'ho: io avea una moglie e una me n'ho; cosí non l'avess'io! a darmi briga, potrò arrogere al danno, come al presente m'è incontrato; e s'ella vorrà esser trista tutti gli uomini del mondo non la potrebbono far esser buona"; se non intervenisse già come intervenne a uno nella seguente novella.

 
 
 

La bontà provvisoria

Post n°1363 pubblicato il 14 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La bontà provvisoria

L'Agnello disse a un Lupo: — Me so' accorto
che la notte t'imbocchi piano piano
pe' sgranfignà li broccoli dell'orto:
e da quant'è che sei veggetariano?
— Da quanno m'è rimasto un osso in gola,
— rispose er Lupo — magno l'erba sola...

Sto a reggime, capischi? E, dato questo,
nun è più er caso che te zompi addosso... —
L'Agnello disse: — Già: ma come resto
er giorno che guarischi e sputi l'osso?
Prima devo trovà chi m'assicura
come la penserai doppo la cura.

Trilussa

 
 
 

Il Trecentonovelle 76-80

Post n°1362 pubblicato il 14 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXXVI

Matteo di Cantino Cavalcanti stando su la piazza di Mercato con certi, uno topo gli entra nelle brache, ed egli tutto stupefatto se ne va in una tavola, dove si trae le brache, ed è liberato dal topo.

E' non è molt'anni, che in casa Cavalcanti fu un gentiluomo chiamato Matteo di Cantino, il quale io scrittore e molti altri già vedemmo. Era stato il detto Matteo di Cantino ne' suoi dí e giostratore e schermitore; e ogni altra cosa com'altro gentiluomo seppe fare; era sperto e pratico com'altro suo pari e costumato. Essendo d'età di settant'anni, e molto prosperoso, ed essendo il caldo grande (però che era di luglio), e avendo le calze sgambate, e le brache all'antica co' gambuli larghi in giuso, dicendosi novelle in un cerchio, dov'erano e gentiluomini e mercatanti in su la piazza di Mercato Nuovo; e 'l detto Matteo essendo nel detto cerchio, venne per caso che una brigata di fanciulli di quelli che servano a' banchieri, che là sono, con una trappola, dove aveano preso un topo, e con le granate in mano si fermano in sul mezzo della piazza e pongono la trappola in terra, e quella posta in terra, aprono la cateratta; aperta la cateratta, il topo esce fuori, e corre per la piazza: li fanciulli con le granate menando, correndogli dietro per ucciderlo, ed egli volendosi rimbucare, e non veggendo dove, corre nel cerchio, dov'era il detto Matteo di Cantino, e accostatoglisi alle gambe, salendo su subito verso il gambule, entrò nelle brache. Sentendo ciò Matteo, pensi ciascuno come gli parve stare. Egli uscí tutto fuor di sé, li fanciulli l'aveano perduto di veduta:
- Ov'è? dov'è?
L'altro dicea:
- E' l'ha nelle brache.
La gente trae; le risa son grandi. Matteo, come fuori della memoria, se ne va in una tavola; gli fanciulli con le granate drietogli, dicendo:
- Caccial fuori; e' l'ha nelle brache.
Matteo agguattasi dietro all'appoggio del banco, e cala giú le brache. De' fanciulli erano dentro con le granate, gridando:
- Caccial fuori, caccial fuori.
Giunte le brache in terra, il topo schizza fuori. Li fanciulli gridano:
- Eccolo, eccolo: al topo, al topo: e' l'avea nelle brache; alle guagnele! E'mandò giú le brache.
Gli fanciulli uccidono il topo, Matteo rimane che parea un corpo morto; e piú dí stette, che non sapea dove si fosse. E' non è uomo, che non fosse scoppiato di risa, che l'avesse veduto, com'io scrittore che 'l vidi. Brievemente e' si botò alla Nunziata di non portare mai in tutta la sua vita piú le calze sgambate, e cosí attenne.
Che diremo de' diversi casi che avvengono? Per certo che mai non credo n'avvenisse nessuno cosí nuovo, né cosí piacevole. Starà l'uomo con gran pompa e superbia, e una piccola cosa il metterà a dichino; anderà sgambato per le pulci, e uno sorgo l'assalisce in forma che esce di sé. E' non è sí piccola ferucola che non dea che fare all'uomo: e l'uomo anco le vince tutte, quando si dispone.


NOVELLA LXXVII

Due hanno una quistione dinanzi a certi officiali, e l'uno ha dato all'un di loro un bue, e l'altro gli ha dato una vacca, e l'uno e l'altro s'ha perduta la spesa.

In una città di Toscana, la quale per onestà non dirò qual fusse né ancora dirò quali officiali, né in tutto né in parte, fu già, e forse ancor dura, un grande officio di valenti cittadini, i quali aveano grandissima balía e di ragione e di fatto a terminar le questioni che interveniano e tra' cittadini, e tra' contadini; avvenne per caso che due ricchi uomini mercatanti di bestie aveano quistione di lire trecento o piú tra loro; e venne la quistione dinanzi a questo officio: e non terminandosi tosto a modo che l'uno di loro volea, e avendo paura non gli fusse fatto torto, pensò fare qualche dono a uno di quelli del detto officio, il quale fusse da piú e meglio il potesse aiutare. Ebbe considerato quello che egli immaginava. Aveva una possessione, la quale era bella e buona, ma l'uomo non era addanaiato sí che di buoi la tenesse ben fornita; e pensò di scoprirglisi, e andare a lui, e raccomandandosi perché lo mantenesse e favellasse nelle sue ragioni, e donargli un bue, ché molti n'avea; e come ebbe pensato, cosí fece. E l'amico non si fece molto dire, che si tolse il detto bue.
L'altro, che avea la quistione con questo che avea donato il bue, non sapiendone alcuna cosa, gli fu venuto un medesimo pensiero, dicendo: "Il tale è il maggior uomo dell'officio; io gli vorrei fare qualche bel dono, acciò che mi sostenesse nelle mie ragioni"; e pensò lo stato suo, e ch'egli avea un luogo bello da tener bestie grosse; e per non essere abbiente di danari, non ve le tenea. E però andò a raccomandarsi a lui, e donògli una vacca, dicendo:
- Io voglio che voi la tenghiate per mio amore nel vostro luogo.
Costui se la tolse, e ha avuto il bue e la vacca, e niuno non sa dell'altro alcuna cosa: se non che da ivi a pochi dí essendo li due boattieri con la quistione dinanzi al detto officio, e rovesciandosi quasi la cosa addosso a quello che avea donato il bue; e li compagni diceano a quello da piú dell'officio:
- Ciò che te ne pare, quello parrà a noi.
E quelli stava cheto, e non facea parola. Colui che avea dato il bue a costui, che stava mutolo, aspettando da lui avere soccorso, e vedea che non dicea parola, esce fuori con la voce, e dice:
- O che non favelli, bue?
E quei risponde:
- Perché la vacca non mi lascia.
L'uno si volge di qua e l'altro di là.
- Che vuol dire quello che costui ha detto?
E domandandolo, e' diede loro a credere che dicea a sé medesimo; e l'officiale, che avea detto della vacca, disse loro che gli era uno proverbio, che sempre questi mercatanti di bestie usavano quando aveano quistione, ponendo nome a chi avea il migliore della quistione, bue, e a chi avea il peggiore, vacca.
Avvenne poi, come che s'andasse, che quello della vacca vinse il piato; forse ne fu cagione che la vacca, quando fu donata, era pregna, e in quel tempo che si diede la sentenzia, fece un vitello.
Ora cosí spesse volte gli animali inrazionali sottopongono quelli che sono razionali, a confusione di molti comuni, dove non si può aver ragioni, se lepri, o capriuoli, o porci salvatichi non compariscono. E io per me, veggendo questa gelosa consuetudine, farei innanzi un mio figliuolo cacciatore, che legista. E non dirò quello che seguita, per vantarmi d'averlo detto per grandissima virtú, ma averlo detto come uomo, aiutato da maggiore signore; ché la parola non fu mia, ma sua. Io era podestà d'una terra dov'io descrissi le predette novelle; e venendo uno terrazano di quella a domandare di grazia alcuna cosa, la quale, avendola fatta, era e mia disgrazia e mia vergogna, io gliela negai, e non la feci.
Partitosi costui da me, disse alcuno:
- Messer lo Podestà, voi avete perduta una lepre; però che colui che non avete servito in quella sua domanda, è uno buon cacciatore, e avea disposto di mandarve una lepre, se voi l'aveste servito.
E io risposi:
- Se mi avesse data la lepre, io l'arei mangiata e patita; ma la vergogna non si sarebbe mai patita.
E cosí è veramente, come che io mi confesso essere in ciò peccatore come gli altri; ma egli è una gran miseria che una piccola cosa, che all'appetito diletti e dura un attimo, e subito è corrotta, sottoponga e vinca la ragione d'onore, che dura sempre. Ora ne cogliesse e incontrasse a tutti, come incontrò a quel mercatante che donò il bue: e a chi o per avarizia o per gola sottopone la ragione, giú pel palato fusse saziato con quello fu saziato Crasso.


NOVELLA LXXVIII

Ugolotto degli Agli si lieva una mattina per tempo, ed essendoli poste le panche da morti all'uscio, domanda chi è morto égli risposto che è morto Ugolotto, onde ne fa gran romore per tutta la vicinanza.

E' non è vent'anni che fu un Ugolotto degli Agli nella città di Firenze, il quale era magro, asciutto e grande, e avea bene ottant'anni; e sempre, perché era uso nella Magna, volea favellar tedesco; e sempre gli dilettò tenere sparviere, ed era pauroso della morte piú che altro uomo. E come spesso avviene, che nelle gran terre è di nuovi uomini, cosí fra gli altri uno, che avea nome... del Ricco, vocato Ballerino di Ghianda, andò una notte, ché spesso andava attorno, e picchiò l'uscio d'Ugolotto. Ugolotto, che avea la camera sopra l'uscio, si destò, e levatosi, si fece alla finestra. Ballerino tirasi a drieto, e Ugolotto dice:
- Chi è la?
Dice Ballerino:
- Sete voi Ugolotto, voi?
Dice Ugolotto:
- Sí, sono.
Dice Ballerino:
- Sia col malanno, e con la mala pasqua, che Dio sí vi dia.
Dice Ugolotto:
- Aspetta un poco, aspetta un poco -; e piglia una sua spada rugginosa e antica, e scende giú per la scala, percotendo sí la detta spada che Ballerino l'udisse, acciò che si fuggisse.
Ballerino, che ogni cosa udía, e sentiasi bene in gambe, si ferma, e aspetta quello che Ugolotto dee fare. E cosí Ugolotto apre l'uscio, e stropiccia la spada al muro.
- Chi è la? ove se', ladroncello?
Ballerino comincia a latrare, o baiare come un cane, e fare come quando al cane sono tirati gli orecchi. Ugolotto fassi innanzi, e dice:
- Aspetta un poco, aspetta -; e colui fassi in drieto, e continuo l'aizzava, tanto facendo cosí che la famiglia d'uno esecutore, giunto di poco in officio, sopravvenne. Ballerino, che era bene in gambe, levala; e Ugolotto con la spada riman preso, ed ènne menato a furore. E giunto a Palagio l'esecutore domanda; la famiglia dice che 'l trovorono fuori con la spada gnuda. Parve all'esecutore una nuova cosa, e subito il volea mettere alla colla, se non che uno gli disse:
- Costui è vecchio, come vedete; lasciatelo stare di qui domattina, e saprete la verità.
E cosí fece, e con tutto che lo esecutore udisse quello per che Ugolotto era uscito di casa con la spada, non c'era modo (però che egli era de' grandi, e 'l detto esecutore è sopra loro con gli ordini della Justizia) che non lo volesse condennare per turbare il pacifico stato. Alla per fine con molte preghiere se ne levò e fece pagare al detto Ugolotto per la spada lire cinquantadue e mezzo; e tornossi a casa, rammaricandosi, quando in latino e quando in tedesco, di questa noia a lui fatta e della sventura che gli era occorsa. Ma egli stette poco che gl'intervenne peggio che peggio.
L'altra mattina seguente fu andato alla campana da casa Tornaquinci, dove sempre stanno beccamorti alla bottega d'uno speziale, e appena che si vedesse lume, fu bussato, e detto che mandassino a casa gli Agli, che era morto Ugolotto; quanto io, credo che costui fusse anco Ballerino di Ghianda, o Pero del Migliore, che con lui usava.
Come i beccamorti sentirono questo, subito furono presti, e mandorono a spazzare a casa gli Agli e porre le panche.
Ugolotto, levandosi per tempo, però che non potea dormire per la malenconia delle lire cinquantadue e mezzo che avea pagate, giugne all'uscio per uscir fuori, e veggendo queste panche poste, dice a quelli che le poneano:
- O chi è morto?
E que' rispondono:
- E morto Ugolotto degli Agli.
E Ugolotto dice:
- Come, diavol, morto Ugolotto degli Agli! ècci piú Ugolotto di me?
- Noi non ne sappiamo nulla, - rispondono coloro, - né conosciamo Ugolotto; noi facciamo quello che c'è detto.
Ugolotto grida:
- Portate via le panche, che siate mort'aghiado.
Costoro senza toccarle se ne vanno, e diconlo a' beccamorti; li quali, ciò udito, ne vanno là, e come veggono Ugolotto nella via, tutti spaventano:
- Che vuol dir questo?
E Ugolotto fassi incontro a loro, e dice:
- Qual Ugolotto è morto, che siate tagliati a pezzi? per lo corpo di Dio, s'io fussi giovane, come già fui, che voi non faresti mai metter piú panche ad uomo che morisse.
Quelli diceano:
- Voi avete ragione; se colpa ci è, ell'è di chi cel venne istamane a dire.
- O chi fu? - dice Ugolotto.
Dicono coloro:
- Egli era sí per tempo che noi non lo potemmo scorgere.
Dice Ugolotto:
- Serà stato un ladroncello, che mi fece pagare ieri lire cinquantadue e soldi dieci.
Dicono quelli:
- E se voi il sapete, non ne riputate noi.
Dice Ugolotto:
- Io non lo so, chi fosse non posso sapere; ma io me n'andrò testeso all'esecutore -; e messosi in via, cosí fece.
I beccamorti, che aveano tese le panche per beccare, sanza alcun utile se le riportorono a casa; ed Ugolotto si dolse allo esecutore, e del primo caso e del secondo. L'esecutore, avendo la cosa scorta, fra sé medesimo ne cominciò a pigliar diletto; e voltosi a Ugolotto, disse:
- Gentiluomo, avvisiti tu di nessuno che queste cose ti faccia?
Dice Ugolotto:
- Io non mi posso immaginare chi sia.
Disse l'esecutore:
- Pensaci suso, e se nessuno indizio mi darai, lascia fare a me.
Ugolotto disse di farlo, e partissi, pensando e ripensando, tanto che per lo pensare e la vecchiezza e' stette buon pezzo che parea tralunato; e nella fine si diede pace, e innanzi che passassino quindici mesi, le panche si posono da dovero, e fussene fuori.
Perché questo Ugolotto era ubbioso di temer la morte, però trassono nuovi uccelli aver diletto di lui. E veramente ella fu cosa da un suo pari, da darsene e pena e fatica; e a quelli che 'l feciono, fu il contrario; ché se fussi stato un uomo paziente dovea lasciare andare e ridersene, e al pagare de' beccamorti se n'avrebbe riso anco elli.


NOVELLA LXXIX

Messer Pino della Tosa, essendo a uno corredo in casa di messer Vieri de' Bardi, ha una quistione con uno cavaliere, e messer Vieri l'assolve e fa rimanere il cavaliere contento.

Al tempo che messer Vieri de' Bardi vivea a un suo corredo andorono a mangiar con lui molti notabili cittadini cavalieri, tra' quali fu messer Pino della Tosa, uomo grandissimo della nostra città. Il quale messer Pino con un altro cavaliere vennono a ragionare de' fatti di Firenze; ed è vero che 'l detto messer Pino sempre cavalcava una mula, la quale avea tenuta gran tempo. E cosí, ragionando, di parole in parole, vennono in una questione, che 'l cavaliere dicea:
- Con quante barbute si correrebbe Firenze?
Dicea messer Pino:
- Correrebbesi con duecento.
Dicea il cavaliere:
- Non si correrebbe con cinquecento.
E messer Pino ridea, e dicea:
-  E'mi darebbe cuore di correrla con centocinquanta.
E l'altro se ne facea beffe, e dicea cose assai, volendo tener fermo el numero suo. Abbattessi messer Vieri alla detta questione, e dice:
- Di che contendete voi?
- Contendiamo cosí e cosí.
Dice messer Vieri:
- Che dice messer Pino?
Risponde il cavaliero:
- Dice che correrebbe Firenze con centocinquanta barbute.
Dice messer Vieri:
- Io l'ho molto per certo, che correrebbe Firenze, e con assai minor quantità, però che egli ha fatto via maggior fatto, che l'ha signoreggiata con una mula già fa cotant'anni -; e contò un gran numero.
Gli altri cavalieri, che questo udirono, dissono veramente che messer Vieri avea dato buon judizio, e che egli credeano che per la ragione che messer Vieri avea detta, non che messer Pino corresse con centocinquanta lance Firenze, ma che la correrebbe con un asino, quando elli volesse.
E oggi si può molto piú credere questa novella, però che sono assai, che senza cavallo, o asino, e senza correrla, la signoreggiano; e ancora dirò una cosa piú forte, che la signoreggiano senza fare iustizia.


NOVELLA LXXX

Boninsegna Angiolini, essendo in aringhiera bonissimo dicitore, su quella ammutola come uomo balordo, e tirato pe' panni, mostra agli uditori nuova ragione di quello.

Anticamente nella città di Firenze si ragunava il consiglio in San Piero Scheraggio, e ivi si ponea o era di continuo la ringhiera; di che, essendo nel detto luogo ragunato una volta il consiglio ed essendo fatta la proposta, com'è d'usanza, Boninsegna Angiolini, savio e notabile cittadino, si levò, e andò su la ringhiera, e cominciando il suo dire bene e pulitamente, com'era uso, come fu a un passo dove conchiudere dovea quello ch'egli avea detto, e quel subito, com'uomo aombrato, non dice piú; ma sta su la ringhiera buona pezza, e alcuna cosa non dicea. Maravigliandosi gli uditori, e spezialmente gli signori Priori che erano di rincontro a lui, mandorono un loro comandatore a Boninsegna a dirli che seguisse il suo dire; e 'l comandatore subito va appiè della ringhiera, e tirando Boninsegna pel gherone, dice per parte de' Signori, che segua il suo dire. E Boninsegna, un poco destatosi, dice:
- Signori miei, e savi consiglieri, io venni in questo luogo per dire il mio parere su le vostre proposte, e cosí avea fatto insino che io giunsi al passo dov'io ammutolai. E dicovi, Signori, che non che io mi ricordi di cosa che io dovessi dire, ma io sono quasi uscito di me medesimo, veggendo i goccioloni che in quello muro che m'è dirimpetto sono dipinti; ché per certo e' sono i maggiori goccioloni che io vedessi mai. E ancora c'è peggio, che morto sia a ghiado il dipintore che gli dipinse, che dovett'esser forse Calandrino che fece loro le calze vergate e scaccate; sappiate, Signori, chi mai portò calze cosí fatte? di che io vi dico, Signori, che mi si sono sí traversati nel capo, che se non escono, né ora né mai non potrò dire cosa che io voglia.
E scese della ringhiera.
A' Signori e a quelli del consiglio parve questa nuova cosa, e ciascuno ridendo guatava quelli goccioloni. Chi dice:
- O bene! non è egli una nuova cosa a vederli?
L'altro dicea:
- Io non vi posi mai piú mente; chi sono elli?
L'altro dicea:
- E' si potrebbe dire di quelle, che disse una volta uno Sanese sul campo di Siena. Passando uno, che era vestito mezzo bianco e mezzo nero, tutto da capo infino a piede, eziandio coreggia e scarpette; e l'uno disse: "Chi è quello?", e 'l Sanese rispose: "E' tel dice"; io non so chi costoro siano, ma e' tel dicono.
L'altro dicea:
- E' sono profeti.
E l'altro dicea:
- E' sono patriarchi
Come che si sia, e' sono lunghissimi, come ancora oggi si vede, dallo spazzo insino al tetto; e considerandogli ciascuno, come gli considerò Boninsegna, forse che quello che intervenne a lui interverrebbe a molt'altri, e spezialmente veggendogli con le calze vergate e scaccate.
E però veramente al dicitore, che ha a dire bene alcuna cosa, non gli conviene avere l'animo né il pensiero se non solo a quello che dé' dire, però che ogni piccola cosa, che viene alla mente fuori della sua diceria, lo impedisce per forma che spesse volte rimane in su le secche, ed è incontrato già a perfetti dicitori.

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

frank67lemiefoto0giorgio.ragazzinilele.lele2008sergintprefazione09Epimenide2bettygamgruntpgmteatrodis_occupati3petula1960mi.da2dony686giovanni.ricciottis.danieles
 
 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963