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Messaggi del 10/03/2017

Una stravagante cena

Ben 107 code, per un totale di 335 versi, compongono il seguente sonetto caudato che, forse, potrebbe essere il più lungo sonetto mai scritto. Il sonetto di Lazzero Migliorucci è tratto da "Poemetti Giocosi tratti dalle note del Biscioni al Malmantile", Bologna 1823, presso i Fratelli Masi. Con approvazione.

Descrizione d'una stravagante cena

Al Prior di Settignano - Sopra una cena statali fatta
Sonetto caudato

Io ho più volte una cosa osservata,
Che mai la sorte prospera mi dura:
Perchè se oggi avrò qualche ventura,
Doman m'è la disgrazia apparecchiata.

Alla buona fortuna accompagnata
Sempre mai mi succede una sciagura;
Il dì di San Martino alla sua Cura
Ebbi una giocondissima giornata.

Sarebbe stato uno straordinario,
Signor Priore, se il giorno seguente
Non m' avveniva poi tutto il contrario.



Un certo Tessitor mio conoscente,
Che si tosa da me per ordinario,
Quando i capelli lunghi aver si sente;

Venne improvvisamente
Dove io stava in bottega scioperato,
E salutommi con modo garbato;

Io subito rizzato
Gli voleva da dosso il mantel torre,
E in seggiola a seder lo volea porre.

Ma egli: Non occorre,
Disse, stasera non vengo al Barbiere,
Ma perchè mi facciate un gran piacere.

Io subito a temere
Cominciai da paura sopraggiunto,
Che esser pensai d'una frecciata giunto;

E m'era messo in punto
Per far che il colpo non avesse effetto;
Quand'egli mi cavò d' ogni sospetto,

Dicendomi: Io v'aspetto
Che voi pigliate meco ora la via,
E ne venghiate a cena a casa mia;

Dove una compagnia
V' aspetta quivi d'uomini galanti
Amicissimi vostri tutti quanti.

A me, che m'era avanti
Una povera cena preparata
Per goder lieto colla mia brigata,

Non fu tal cosa grata,
E stetti in dubbio d' ire, o ricusare
Alfin non me ne seppi liberare.

Avemmo a camminare
Un miglio, e più, che sta di là dal fiume
Senz'aver pur non ch'altro, un po'di lume.

Giunti all'uscio al barlume
Innanzi che n'entrassimo al coperto
Noi lo picchiammo dieci volte al certo.

Ma poi che ci fu aperto
Entrammo dentro come due ladroni
Tastando del terren tutti i cantoni.

Me n' andava tentoni
E m' atteneva a lui; ch'avea sospetto
Di non cadere in qualche trabocchetto.

Per un andito stretto
Sento tirarmi, dove sull'entrata
Io battei una sudicia stincata.

La scala alfin trovata
Cominciammo a salir su certi gradi,
Che non vi si sarebber fermi i dadi;

Mobili, stretti, e radi
D'assacce mal confitte, e mal puliti
Che le camozze non gli avrian saliti.

Domeneddio m'aiti
Dicea, quando metteva un piede in fallo,
E sopra a uno scalin casco a cavallo.

Al corpo di cristallo,
Che mai non detti alla mia vita crollo,
Dov' io credeva più rompere il collo.

Al romor del tracollo
Che rimbombò dal tetto al fondamento
Comparve un lumicin che parea spento,

Si facea lume a stento;
Una lucciola fa lume maggiore,
Ed un gatto ha negli occhi più splendore;

Ma pur col suo favore
Riebbi un piè che avea di già fallito
E mi parve d'averne un buon partito.

M'era fatto spedito
E per salvare il resto io mi ricordo
Che una gamba averei data d'accordo.

Così mezzo balordo,
Prima mi resi in colpa, e mi segnai,
E poi dietro a colui m' arrampicai

Il qual si dolse assai
Meco, pietoso della mia disgrazia,
Ed io diceva: egli è per vostra grazia.

Almanco fosse sazia
Qui la fortuna; ma per quel ch'io veggio
Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio;

Nè dico da motteggio
Perchè da un lato il muro dell'ospizio
Mi vedeva, e dall' altro un precipizio.

Mi valse aver giudizio
Ed il sapermi ben contrappesare:
Alla fine finimmo di montare.

Ed eccoci arrivare
In una stanza grande, come un'aia,
A prima giunta ingombra di telaia,

Con puntelli a migliaia
Calcole, e subbj, e stromenti sì fatti,
Dove passar non puoi se tu non batti.

Sebbene in sala intatti
Mercè passammo della guida accorta,
Senza trovar però tramezzo o porta.

Quivi da me fu scorta
N'un guardo sol di quella Palagina
Bottega, sala, camera, e cucina.

In guisa di cortina
Una stoia n' un canto ciondolava,
Apponetevi ciò, ch' ella turava.

Accanto a questa stava
Poco lontano il letto sulle panche,
Che invitava a posar le genti stanche;

E la madia eravi anche:
Seguitavano poi casse e predelle
E sull'armario pentole, e scodelle.

Romaioli, e padelle
Pendevano dal muro in ordinanza,
Mestole, e mestolini in abbondanza.

Vedendomi la stanza
L'ospite mio guardar minutamente
Disse: Me ne sto qui colla mia gente.

Va bene unicamente
Gli rispos'io, l'è casa di stupore
Da poterci abitare ogni Signore.

Intanto a farmi onore
Tre si rizzaron, ch'erano al caldano
Uno de' quali presemi per mano.

Quest'era uomo sovrano,
Per lavorar girandole da seta,
Bevon famoso, e poi mezzo Poeta.

Egli con faccia lieta
Mi fece festa, ed io ne feci a lui,
E dopo salutai quegli altri dui.

Mentre che con costui
Le cerimonie faceva, il Padrone
Che noi ci risciacquiam le mani impone.

Ivi dentro un secchione
Comun coll'insalata la lavanda.
Avemmo (poichè lui così comanda)

Poi due da una banda,
E tre dall'altra ci ponemmo al desco,
Lontan dal fuoco, sebben gli era fresco.

Or qui di me fuor esco;
Musa, che fosti a quel pasto presente
Deh raccontalo tu minutamente.

Venne primieramente
L'erba: gli do tal nome generale,
Non d'insalata, che non v'era sale:

E sebbene un boccale
V'era d'aceto, non avea sapore:
Ma l'olio ne sapea quanto un dottore.

Io son di quest'umore
Che fosse olio di sasso, o laurino,
Si stomachevol era, ed assassino.

Quel che pel mio bambino
Quando gli ha i bachi, mi danno a Badia
Sì spiacevole al gusto non saria.

Io per la parte mia
Presi una foglia, ma da quella in su
Ebbi il mio conto, non ne volli più.

Dopo questa ci fu
Di salsiccia un tegame innanzi posto,
Non so, s'ella era lessa, o l'era arrosto;

In guazzetto piuttosto,
Che nuotavano i rocchii nel lardume,
Siccome i pesci nuotano nel fiume.

Io, che sempre ho costume
Di rosolargli, le spalle ristrinsi,
E come gli altri pur del pane intinsi;

E in bocca me lo spinsi,
E mi sforzava di mandarlo a basso,
Ma quattro o cinque volte fece un chiasso;

Perchè l'odioso grasso
Non voleva lo stomaco tenere;
E mi fu forza domandar da bere.

Mi fu porto un bicchiere
In fuor che l' orlo molto ben lavato,
Pieno di certo vin nero morato,

Fiorito, come un prato,
E con disgusto la bocca vi porsi,
E chiusi gli occhi, e fecine due morsi;

Voleva dir due sorsi,
Oimè! che non fu prima entrato dentro,
Che ricercommi dagli estremi al centro.

S'io n'esco, mai più c'entro,
Diceva; intanto un rocchio sopra il tondo
Mi veggo, e il vo' trinciar, per dargli fondo,

E levarlo dal mondo;
Ma non potetti mai con un coltello
Passar l'impenetrabile budello.

Credo certo che quello
Fosse fatato dal capo alle piante,
Come era Orlando già Signor d'Anglante.

Per questo in uno istante
Me lo bisognò sciorre, e poi votarlo,
E come morsellato masticarlo

Non avendo a tagliarlo
Coltel temprato all' infernal fucina
Come la spada già di Fallerina.

O che rara guaina
Sarebbe stata! oh che stupendo astuccio,
Poichè fu rotto l'incantato buccio!

Al corpo di San Puccio,
Quando lo diedi al gatto mi ricordo,
Per rovella le man sempre mi mordo.

Fui pure il gran balordo,
Che per borsa serbar me lo doveva
E metterci i quattrin quando ne aveva:

Che sicuro poteva
Da mariuoli e tagliaborse stare,
Che non l'avrian potuta mai tagliare.

Lasciatemi tornare
A dirvi quel, che gli trovai nel seno;
State a sentir Signor: di quel ripieno

La carne era la meno,
Se un pepe stato fossevi, o curiandolo
Era per certo qualche grande scandolo.

Trovai ben' io cercandolo
Ossi, e in gran copia poi nervi, e lardelli,
Ma sopra tutto brucioli, e fuscelli.

Credo che ginocchielli
Vi fossero, e cotenne, e piedi, e ugna,
E carne secca vecchia, e sego, e sugna.

Che maladette pugna,
S' io avessi avuto quello sciagurato
Che l' avea fatta, gli averei donato.

Io tutto stomacato
Ne feci un dono a quella stessa micia,
Che prima aveva avuta la camicia.

Sulla tavola sbricia
Vennero intanto l' ultime vivande,
Dentro ad un piatto grande, grande, grande,

Che da tutte le bande
Vi s'arrivava con comoditade;
A riguardarlo era una dignitade.

Parea d'una cittade,
O di qualche Fortezza il baloardo
Tutto ripien di cavolo bastardo.

Fissando allor lo sguardo
Vidi tra foglia, e foglia, di quel cavolo
Una branca scappar fuori di Diavolo.

Mentr' io così guardavolo
Disse il Padron di casa: è quello un pollo
Al qual tre ore son tirato ho il collo.

Com' egli sarà frollo
Lo sentirete; chi me l'ha venduto
Dice, che egli è cappon vecchio canuto.

Io che gli avea veduto
In quella zampa sei deta di sprone,
Non me lo volli ber per un cappone.

Quest'era un gallione,
Ch'aveva innanzi al mattutino albore
Cantato almanco cinquant'anni l'ore.

Ma prima con furore,
Il compar gallo lasciando da sezzo,
La demmo addosso al cavol verde mezzo.

Mi valse essere avvezzo
Gli sparagi a mangiar, perchè in quel modo
Il tenero mangiai, lasciando il sodo.

Non vi rimase il brodo:
In breve la bigutta fu spedita
Da cinque mani, e venticinque dita.

Nell'ultimo ghermita
Quella bestiaccia di casa il Messere
La pose per tagliar sopra il tagliere.

Poi con quel gran potere,
Col qual tagliar suol macellaro il bue,
Così con un coltel vi dette sue.

Ma del cucchiricue
Non divide però la pelle, o sconcia,
Nè l' intacca, non che ne tagli un oncia.

Che come nella concia
Il cuoio suol per cuocersi indurire,
Tal' avea fatto egli per bollire.

Nol potendo ferire
Lascia il coltello, (tant' ira l'accese)
E col crudo animal venne alle prese.

Dopo mille contese,
E mille stenti, ne fe tanti brani,
Appunto quanti n'eramo Cristiani.

Alzando poi le mani
Facemmo al tocco, dove che al contare
Il primo fui, ma l'ultimo al pigliare.

Credetti spiritare,
Quando alla mia pietanza posi cura,
Ch'era a vederla cosa orrenda, e scura.

Mi toccò per sciagura,
Il capo che pareva di dragone
Orribil più che il teschio del Gorgone.

Temetti, ed a ragione:
E di toccarlo punto non ardivo;
Canchero! Mi parea che fosse vivo,

E facesse motivo;
La cresta intirizzata tentennava,
Apriva il becco, e gli occhi stralunava;

Tal ch'io tutto tremava
Per lo timor che non mi s'avventasse
N'un tratto al viso e non mi bezzicasse

E mordesse e storpiasse;
Però con un piattel subitamente
Coprii quel brutto capo di serpente.

Tengo sicuramente
Che un ciurmator la testa spaventosa
Avria pagato qualsivoglia cosa.

Ch' alla gente curiosa
Pubblicamente l'avrebbe mostrato
Per qualche basilisco avvelenato.

E mi fu poi levato
Dinanzi tal ch'io non lo vidi più:
Della qualcosa ringraziai .....

Questa la fine fu
Signor Prior d'un splendido banchetto,
Del quale ogni minuzia non v'ho detto.

Quivi sopra un deschetto
Sedei, che quanto fu lunga la cena
Non restò mai di fare all'altalena.

Ma questa fu la pena,
Che della spesa si fece il conto
Ed una lira ad isborsar fui pronto.

Con tutto quest' affronto
Ebbi a dar loro ancor trattenimento
Improvvisando malamente, e a stento.

Al fine io presi vento,
E dal trespolo zoppo mi rizzai,
Poi dalla compagnia mi licenziai.

E per non tornar mai
Di quella casa con un crocione
Benedissi ogni sasso, ogni mattone,

Con mala intenzione
Che se colui a radersi più viene,
Vo' che del tutto mi paghi le pene.

Lasciate fare a mene:
Voglio, che si ricordi di chiamare
La gente a cena, e poi farla pagare.

Lazzero Migliorucci
(vissuto probabilmente a cavallo tra il 1600 ed il 1700: vedi "Notizie di medici, maestri di musica e cantori, pittori, architetti, scultori ed altri artisti italiani in Polonia e Polacchi in Italia, raccolte de Sebastiano Ciampi, R. Corrispondente attivo di scienze e lettere in Italia pel Regno di Polonia. Con appendice degli artisti italiani in Russia, ecc" di Sebastiano Ciampi, Tip. di J. Balatresi, 1830 - 159 pagine).

Più precise notizie sul Migliorucci, denominato "Maestro Lazzero Barbiere" è possibile trovarle in "Le veglie piacevoli, ovvero Notizie de' più bizzarri e giocondi uomini toscani, le quali possono servire servire di utile trattenimento", Negozio Zatta, 1762. In base alle notizie qui riportate, Maestro Lazzero sarebbe vissuto nella prima metà del XVII Secolo.

 
 
 

Le scorregge da naso solo

Le scorregge (1a) da naso solo

Che odor de puzza! Puhf! Loffe (vd. n. 1a) ariposte!
Avvisi sordi de scorreggia (vd. n. 1a) muta!
Senti si (1) cche pprofumi d'ovatoste!
E pporti st'acqua de melissa, eh Tuta?

Ner cul de 'na piluccia ggiú dall'oste,
fatte pistà un tantin d'erba fottuta,
co 'na pera spadona in de le coste,
seme de tuttocazzo, ojjo, ajjo e rruta.

Sò mmano-sante (2) puro (3) un manganello,
una stanga de porta de cantina,
o una cavola presa a un caratello.



La prima tù a ssentí sta cantarina (4)
sei stata? A cquesto c'è un proverbio bbello,
che disce: Cunculina cunculina ... (5)

Nun fà (6) l'innocentina:
quanno dereto a nnoi tôna o llampeggia,
se (7) dice chiaro: ho ffatto una scorreggia.

Note:
1a Peti.
1 Se.
2 Rimedi miracolosi.
3 Pure.
4 Cantaro, per «fetore».
5 Concolina, concolina chi la fa, la sente prima.
6 Non fare.
7 Si.

Giuseppe Giaochino Belli
Terni, 5 ottobre 1831 - De Pepp'er tosto
(Sonetto 176)

 
 
 

Le nonne

Le nonne

I


Pe' nonna mia, quann'ero regazzino
che l' annavo a trovà, pareva festa!
Era er cocchetto suo, 'sto nipotino
co' quarche grillo e capriccetto in testa.

Io j' areggevo la matassa insino
che ignommerava er filo lesta lesta,
j'attizzavo la brace a lo scardino
che se teneva lì sott'a la vesta.

E mentre piano piano sferruzzava
e faceva la maja a l'uncinetto,
je guardavo la mano che tremava.

- Nonna, ma dimme un po': quant'anni ciài? -
je domannavo; e lei co' un sorisetto:
- Fijo, noonetta è vecchia, è vecchia assai!

II

Mo le nonne so' tutta 'n' antra cosa:
se vesteno a la moda, impimprinate
de verde, giallo, rosso, bianco e rosa,
co' le zinne de gomma brevettate.

Studieno le mezz' ombre, stanno in posa
co' li capelli corti, imbellettate
pe' coprisse la bocca stommicosa
e le crespe e le pelli sconquassate.

La nonna nun c'è più, c'è la maliarda
che fuma, gioca a brigge a perfezzione
e cerca ancora er micco che la guarda.

Sta sur mazzolo, fa l'occhio de trija,
e più è bacucca e più cià protenzione
de passà pe' sorella de la fija.

Francesco Possenti
Strenna dei Romanisti,1959, pag. 227

 
 
 
 
 

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