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Messaggi del 09/10/2014

 

(PERCHE') A QUALCUNO (NON) PIACE (PIU' IL) CAL...CIO 4

Post n°565 pubblicato il 09 Ottobre 2014 da mrjbigmat

VI RISPARMIO ALTRE PAGINE CHE NON AGGIUNGEREBBERO NULLA. VOGLIO SOLO PUBBLICARE QUELLA CHE SAREBBE DOVUTA ESSERE LA FINE.

Ci sono persone così, baciate dalla grazia e dal dolore. Non sono adatte a vivere una vita normale. Sono come quei fiori bellissimi che danno frutti immangiabili. Bisogna evitare che diventino frutti, devono rimanere fiori. Apparentemente inutili. L’apparente inutilità della bellezza fine a se stessa. Se maturano diventano come tanti altri, peggio di tanti altri. Quello che sto dicendo farebbe rabbrividire tanti,  ma io penso che non sia giusto, che sia un errore, provare a cambiarli.

Qualcuno se ne deve occupare, si deve far carico di loro, non deve farli guastare perché non riusciranno mai a diventare come gli altri e perderanno il dono che li rende unici. Quello di essere bambini per sempre, quello di essere “Idioti”. Chi ha la fortuna di incontrarne uno, non si chieda perché lo deve fare.

Lo faccia e basta.

 
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(PERCHE') A QUALCUNO (NON) PIACE (PIU' IL) CAL...CIO 3

Post n°564 pubblicato il 09 Ottobre 2014 da mrjbigmat

D’accordo con mia moglie, avevo deciso prima di partire, che Riccardo avrebbe dovuto sapere, per la delicatezza e la gravità di quello che era successo, tutto sotto forma scritta. Avere il tempo e il modo di usare le parole giuste, senza possibilità di errore avrebbero più che compensato la mancanza di un contatto diretto al momento. Decido allora, anche per combattere la Salerno-Reggio Calabria, di dargliela in quel momento.

Quando gli dico di che si tratta, butta i Miss Fraulein metaforicamente, ma nemmeno tanto, nel cesso, mi strappa la lettera dalle mani e comincia a leggere.

(AGGIUNTO ADESSO. ALTRIMENTI VI SARESTE PERSI)

 

“Adorato Riccardo,

prima o dopo avresti conosciuto il segreto, l’ignoranza del quale tanto ti tormenta. Sei un ragazzo intelligente e sensibile. Era normale che non ti bastassero, non ti convincessero le spiegazioni che ti sono state finora fornite. Ho deciso di scriverti per due motivi. Innanzitutto, voglio essere io, tua madre, a farti sapere quello che è successo nella tua famiglia. Per questo motivo, nell’eventualità che mi succeda qualcosa prima, lascerò scritto dove potrai trovare queste righe.

Non voglio, poi, che ci siano parole inopportune o omissioni, che sempre ci sono in un racconto orale. Troppe parole dannose e inutili si sono fatte sull’avvenimento.

Gli avvoltoi dallo stomaco vuoto e dalla vita piena solo di noia e frustrazione ci si sono buttati da par loro. Può bastare.

Io non c’ero, ma è come se ci fossi stata. Puoi immaginare, in un paesino come P., un fatto come quello che ti sto per raccontare fece parlare per mesi e mesi, per anni. Quando conobbi tuo padre erano passati quattordici anni da quel giorno, ma quando arrivai per la prima volta in paese mi accorsi che persino i muri gridavano di dolore e volevano raccontare una storia. Ed era quella.

L’ho sentita tante di quelle volte, ma ogni volta era diversa. Come tutte le cose, si arricchisce di particolari, involontari o voluti, immaginati o solo sognati. Alla fine credo che sia andata così.

 Era una giornata perfetta, una domenica di maggio del 1935. Non c’era una nuvola in cielo, i ciliegi erano in fiore, la natura straripava, accecando con i suoi colori. Sembrava che Dio stesse dicendo: godete, ballate, amate. Di più non so darvi.

Ma forse qualcuno non regge a tanta bellezza. O chi lo sa che cosa.

La tavola era imbandita, non erano molte le occasioni di festa in quei tempi, la guerra era prossima e il regime di lì a poco si sarebbe preso anche l’oro delle mamme. Ma quello era un giorno speciale, era il compleanno di tua nonna Lisa, faceva 40 anni ed era una contadina solare e piena di vita. Era felice e orgogliosa dei suoi figlioli, che le giocavano attorno e ogni tanto correvano a abbracciarla. Attorno, seduti, c’erano tutti i parenti e gli amici. Per cominciare, si aspettava solo tuo nonno, che, stranamente, tardava.

Finalmente arrivò. Era strano. Accigliato, lui che sorrideva sempre.

Si diresse verso la moglie, la baciò, poi indietreggiò di qualche passo e le sparò tre colpi in pieno petto. Puntò il fucile verso i suoi due figli, tuo padre e tuo zio, ma non ce la fece a sparare; si mise la canna del fucile in bocca e si tolse la vita.

Alcuni dei presenti dissero di aver sentito un boato come se il cielo stesso ne fosse stato ferito e poi le gocce violente di un acquazzone. Le lacrime di Dio.

Ma, in realtà, non una sola goccia cadde quel giorno dal cielo, le uniche gocce furono di sangue. Fred le guardava scivolare nel bicchiere in cui l’acqua, come nella parabola, diventava vino.

Gli occhi di Mike diventarono di cenere. Fu come se la vita di tuo padre si fosse bruciata in quell’istante. Dalle parole che ho ascoltato, ho capito un’altra cosa: i due fratelli, abbracciati nel sangue della mamma, si scambiarono una parte di se stessi, diventando due parti complementari di uno stesso uomo. Ognuno dei due rubò all’altro una parte, la meno accentuata, che andò a aggiungersi a quella più sviluppata, creando due uomini a una sola dimensione, due pezzi omogenei, due monoliti, incapaci di cambiare.  

Tuo padre e tuo zio, quel giorno, diventarono una sola persona  . Sono il bianco e il nero, due facce di una stessa medaglia. Sono gli elementi contrari che ogni essere umano ha dentro di sé e che, in situazioni normali, si mescolano agli altri elementi, venendone così stemperati e rimanendo abbozzati o latenti. La disgrazia ha reso ognuno dei due l’esasperazione assoluta di quello che l’altro gli ha trasferito in quel momento. Poi, certo, anche gli eventi successivi sono stati determinanti, ma sono convinta che sia nato tutto là. Qualcuno dice di aver visto una luce quando i due si sono stretti la mano, ma io penso che sia stata la suggestione del momento.

La morte li ha uniti una prima volta, la morte li ha separati momentaneamente e la morte li ricongiungerà per sempre  .

Quando cadde a terra, dalla tasca di tuo nonno, riverso a terra, scivolò via una moneta da 5 cents  , sfiorò appena la pozza di sangue che si era formata vicino al cadavere e si mise a girare su se stessa come una trottola. Tuo padre la lasciò scorrere, non la vide o non la volle vedere. La moneta girò per attimi che sembrarono eterni e in tutta la campagna si sentiva solo il tintinnio del metallo e dell’aria smossa dalla rotazione della moneta. Tutti gli occhi si incollarono su quei 5 cents che sembravano non volersi fermare mai e che ruotando avanzavano lasciando una scia rossa di sangue. Si fermarono solo quando arrivarono fra i piedi di Fred che la raccolse e la mise in tasca. Qualcuno fece in tempo a notare che la moneta aveva unito nel suo cammino il sangue del nonno a quello della nonna.

Questo è tutto.

Vedo Jacopo improvvisamente cresciuto. Come se avesse aspettato da sempre questa notizia per lasciare la sua prima adolescenza.

“E poi che successe?”

“E’ la stessa domanda che feci io a tua nonna. Tuo nonno e zio Fred si trasferirono dalla sorella della nonna, zia Vera. Erano due ragazzi, uno di 14 anni e l’altro di 12. Avevano appena assistito alla cosa più tremenda che a un bambino possa capitare: l’adorato papà che uccide la tua mamma. Cosa ci può essere di peggio?

Gli zii erano brava gente, tutta lavoro e casa. Li accolsero benissimo, ma erano diversi: nulla che non fosse materiale aveva importanza. Tuo nonno non fece fatica ad assimilare quella mentalità, sentiva oltretutto di non poter fare diversamente. Abbandonò presto la scuola e si mise a lavorare con una determinazione feroce: voleva diventare subito indipendente e sentiva la responsabilità del fratello Alfredo, come lo chiamava lui. La tragedia aveva sbattuto fuori dalla realtà, il più piccolo dei due. La protezione di papà permise a zio Fred di diventare quello che poi è diventato, ma allo stesso tempo lo condannò a rimanere fuori dal mondo.

Papà non ne parlò mai con nessuno. Come nessuno per tanto tempo ha mai saputo che, di nascosto, si recava in un centro di igiene mentale dove conobbe tua nonna, che lì lavorava come psicologa. Mamma mi disse che papà le fece immediatamente l’impressione dell’ostrica, che nasconde dentro la conchiglia il gioiello. Ma nessuno riuscì ad aprire mai quella conchiglia. Solo lei riuscì a intravedere per pochi attimi la perla  .

Nemmeno zio Fred ne parlò mai, ma per lui era diverso. Per zio Fred non era successo niente. I genitori erano morti in un incidente stradale dopo la più bella giornata della loro vita: il compleanno dei 40 anni della nonna.

Una volta cercai di saperne di più da lui, gli chiesi di questa giornata speciale. Zio Fred mi disse più o meno le stesse cose che tu hai appena letto, poi al momento tragico me la raccontò così.

“Arrivò mio padre, bello e sorridente come sempre, noi gli corremmo incontro e lui ci abbracciò forte. Ci fece vedere il suo fucile, ci disse che potevamo stare tranquilli che era scarico. Poi ci baciò come sempre e andò a sedersi vicino a mia madre. Baciò anche lei e iniziammo a mangiare. Alla fine del pranzo le regalò un anello per il suo compleanno”.

 
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()PERCHE') A QUALCUNO (NON) PIACE (PIU' IL) CAL...CIO 2

Post n°563 pubblicato il 09 Ottobre 2014 da mrjbigmat

2 capitolo

Quello che mi è sempre risultato incomprensibile è come era possibile     che lo stesso evento, all’epoca non sapevo quello che era successo, ma l’atmosfera mi rendeva sicuro che qualcosa di terribile era accaduto, gli stessi genitori, il medesimo ambiente, avessero prodotto mio padre e zio Fred, vale a dire due fratelli senza niente in comune, come se fossero uno il negativo dell’altro. Era qualcosa che mandava all’aria anni di teorie sull’importanza del codice genetico nello sviluppo di un essere umano, ma nello stesso tempo anche quelle sull’importanza dell’ambiente in cui si sviluppa la personalità. Era un mistero.

Che mio padre fosse il figlio maggiore e quindi portato ad assumersi tutte le responsabilità quando morirono nell’incidente   stradale i nonni, all’epoca questo era quello che mi veniva risposto alle mie domande insistenti, e loro due furono affidati agli zii, a questo ancora ci arrivavo. Ma non bastava. Non bastava a spiegare una diversità così totale, quasi matematica. Come se uno fosse un numero pari e l’altro un numero dispari. I dispari sparigliano ciò che i pari hanno l’illusione di mettere in ordine.

Zio Fred aveva un modo sarcastico quando si rivolgeva al fratello, ma la verità era, lo capii molto tempo dopo, che nutriva per lui un amore e un rispetto sconfinati. Lo considerava una specie di eroe silenzioso, uno di quelli che sacrificano la vita, quello che zio Fred considerava degno di essere considerato vita, per la sopravvivenza di chi gli sta vicino. Era un esempio troppo grosso per lui, per imitarlo, e poi non c’era bisogno di un altro come papà. E, soprattutto, non ne sarebbe stato capace. Anche mio padre adorava zio Fred, penso lo vedesse come un cucciolo indifeso, inadatto a schivare gli agguati della vita.

Zio Fred viveva con noi. Era una persona splendida. Aveva il cuore di un bambino, ma il cervello di un genio  .

Era strano vedere quest’uomo così colto, di un’intelligenza acutissima, perdersi completamente quando si trovava alle prese con elementari problemi pratici. Non era raro vedergli abbozzare un sorriso quando avrebbe dovuto irritarsi o viceversa prenderla male a sproposito. Non perché era sciocco, assolutamente no, ma aveva difficoltà a rapportarsi agli altri; non teneva conto dei rapporti di forza, degli atti dovuti, per lui non esistevano: esisteva solo l’atto puro, da fare o no indipendentemente dall’interlocutore. Tendeva ad accettare tutto quello che gli si diceva negli argomenti che lo interessavano poco, anche quando sapeva di avere di fronte un mentecatto, ma non mollava un millimetro sulle questioni che gli stavano a cuore.

Sulle questioni pratiche aveva l’ingenuità che devono aver avuto gli indigeni davanti ai primi conquistadores.

Ricordo di aver letto che in una lingua africana esiste una parola intraducibile nelle altre lingue con un solo termine e che significa più o meno: uomo che lascia correre (perdona) le prime due offese, ma non la terza. Ecco, zio Fred è così. Solo che le volte che lasciava  correre erano più di tre, a volte anche decine. Poi, però, quando arrivava l’ultima si allontanava senza dire niente, semplicemente perché non gli andava più di frequentare quella persona. Non era un giudizio parte sua, è che non ci sarebbero state più le “condizioni di verità”, come le chiamava lui. In realtà, zio Fred non chiudeva mai, non era in grado di chiudere, di troncare qualcosa  , e allora si allontanava perché sapeva che non si sarebbe riuscito a comportare come avrebbe richiesto la situazione. A volte, chi lo vedeva colloquiare con uno di quelli da cui si era allontanato, lo giudicava falso. Ma non era così: la verità è che zio Fred era incapace di non essere gentile con chi era gentile con lui. Era un aspetto del suo carattere che odiava, per lui era solo vigliaccheria.

Parlo al passato perché sono tutte cose che appartengono al passato: zio Fred, adesso, si è isolato, vive in campagna con i suoi cani; due volte a settimana va una donna a fare le pulizie. Insieme al postino che gli porta i giornali è l’unico contatto che ha con il mondo. A parte quando scendiamo noi ovviamente. La sua famiglia.

 Mi insegnò l’importanza della lettura. “La grandezza di un libro, di un bel libro, è che tu hai la possibilità di parlare con i migliori. O meglio, i migliori parlano a te.

L’essere “autenticamente splendido dostoevskjano”, che fa accadere le cose senza la minima coscienza di essere lui a provocarle, che parla senza capire perché, dopo averlo fatto, tutti lo guardano con stupore. Un alieno.

Era diverso da tutti, dotato di una sensibilità speciale, disinteressato alle cose materiali, ingenuo, capace, come tutti i timidi, di improvvise e pericolose aperture verso gli altri. Aperture di cui si sarebbe pentito dopo qualche tempo perché pochi, anzi nessuno poteva capire l’Idiota di Dostoeveskij. Estraneo alla vita, la vita gli era estranea. Inadatto ecco. Viveva come una persona capitata sulla terra per caso, privo di un qualsiasi senso pratico, anche minimo.

Le uniche cose che teneva in conto erano la libertà e la lealtà, anche se ammetteva di non aver risolto la contraddizione fra le due.



 

 
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(PERCHE') A QUALCUNO (NON) PIACE (PIU' IL) CAL...CIO

Post n°562 pubblicato il 09 Ottobre 2014 da mrjbigmat

Abbandoniamo Cet e le sue avventure perchè anche caricarle tutte non porterebbe a una fine e sarebbero solo altre 50 pagine (quelle di ieri erano quasi una quarantina) in cui si mescolano complotti planetari, briganti locali, amici che tradiscono, geni informatici, vecchi professori e ovviamente Cet e Laura.

Passiamo invece a un altro abbozzo (i miei sono quasi tutti abbozzi perchè romanzieri non si diventa: o si è o non c'è niente da fare. O si ha il talento di fare una cosa o è inutile sprecarci tutta la vita). Qualcosa l'ho finita però (dei racconti brevi), ma non so se vale la pena pubblicarli.

Come al solito, una premessa, anzi due: la prima è che, come sempre, alla ricerca delle giusta soluzione "narrativa", ho fatto diverse stesure (così tante che alla fine mi sono incasinato) quindi è richiesto uno sforzo supplementare di chi legge per non perdere il filo; la seconda è il motivo stesso per il quale pubblico questo e non altro e che vado a spiegare. L'uomo è per sua natura giudice, una delle capacità che distingue l'uomo dagli animali è proprio quella di analizzare e trarre delle conclusioni. Tutti lo facciamo. Ma, a parte che c'è chi è più portato a tenersele per sè e chi invece non vede l'ora di spifferarle a tutti, con aggiunta anche di particolari inventati e di valutazioni basate sul nulla, ci sono giudici parziali, corrotti, interessati, imparziali, giusti, insomma tutta la gamma. La mia opinione è che il requisito minimo per essere un buon giudice è studiare le carte, conoscere i fatti, tutti e alla perfezione. Solo dopo aver fatto questo lavoro, ci si può esprimere, altrimenti è meglio tacere. Nessuno è tenuto a sapere i motivi che portano a essere in un certo modo e fare determinate cose, ma se non le si vuole sapere, per disinteresse, per mancanza di tempo o per qualsiasi altra cosa, è meglio astenersi. Soprattutto se ci si dichiara amici e si viene trattati da tali.


Nessuno conosce i Miss Fraulen. Solo mio figlio e i suoi amici  . È da Roma che Jacopo mi sta bombardando con il loro CD di esordio, che poi è anche l’unico. Nei pochi secondi di attenzione che mi rivolge, tenta di spiegarmi che i Miss Fraulen fanno post-rock, più precisamente sono un gruppo stoner e che sono una band emergente e che fra qualche anno saranno più famosi dei Pearl Jam. Mi viene la tentazione di dirgli che non conosco nemmeno i Perljem per smorzargli il suo entusiamo, ma non mi crederebbe . Cerco di venire a patti con lui, ma su questo è irragionevole. Solo Miss Fraulen; niente rock, niente jazz, niente blues, non oso accennare alla classica. È come se una lobotomia, o delle radiazioni elettromagnetiche, avesse distrutto nella sua testa ogni interesse per qualsiasi altro tipo di musica che non siano i Miss Fraulen

Ne è fiero perché li ha scoperti lui nell’ultimo viaggio in Calabria, due anni fa. Ha conosciuto il chitarrista, poi, ritornato a Roma li ha sottoposti al giudizio del maestro, un certo Poldino, che li ha “sdoganati”, facendo crescere il peso di Jacopo nel gruppo. ‘Sto Poldino ha il potere insindacabile di decidere quale gruppo è degno di loro e quale no. Loro sarebbero gli “indie”, una specie di comunità eterogenea composte di tribù molto diverse fra loro. Gli appartenenti alle varie tribù, oltre ad ascoltare la stessa musica, vestono allo stesso modo e parlano usando lo stesso gergo. La solita storia di chi si  atteggia a diverso e poi è un clone di altri cento, mille e chi sa quanti altri. La parola più usata è musica “alternativa”.????????.  

Cerco di aggirare il muro con qualche domanda sull’argomento: “Ma “indie” sta per indiani?”

Mi guarda con aria quasi schifata, credo per la mia ignoranza, comunque infastidito: “no, per indipendenti”.

“Peccato, sarebbe stato più bello, non so, più romantico, avrebbe dato l’idea di una riserva della buona musica. E indipendenti da che cosa?”.

“Da tutto, dalle grandi case discografiche, dai grandi organi di stampa che pubblicizzano merde pagate dalla case discografiche, da tutto quello che c’è dietro un disco commerciale…”.

Ovviamente, Jacopo ha proferito questa frase con l’indignazione che non si aspetta repliche perché unica proprietaria della verità. Si sorprende, infatti, quando arriva la mia risposta. “Mah, mi sembra un programma impegnativo. E poi come fate a stabilire quale musica ascoltare, non correte il rischio di ascoltare solo musica di sfigati, chiamandola alternativa, solo perché non fa parte dei grandi circuiti? Non pensate che ci possa essere buona musica anche nella musica più commerciale, che avere successo non sia di per sé un requisito di prodotto scadente?”.

Adesso, ha l’espressione che assume quando sta per terminare il tempo e l’attenzione che può tollerare di concedermi.

“Ognuno è libero di scegliersi la musica che preferisce”.

Evito di aggiungere quello che penso e cioè che, più che altro, mi sembrano liberi di fare quello che decide il Poldino di turno, anche perché Jacopo ha infilato le cuffie e si è girato a guardare i peschi in fiore che sembrano confetti nuziali, sembra quasi che le colline circostanti  si stiano preparando per un matrimonio.

Alcune volte mi viene da pensare che cosa farebbe Jacopo se Poldino gli dicesse di eliminare suo padre, magari perché ascolta cattiva musica. Poi penso che forse è meglio non pensarci.

Mio figlio assomiglia molto a zio Fred. Ci sono foto di zio Fred da giovane, ne ricordo una in cui indossa una camicia bianca su dei pantaloni di lino. Doveva avere più o meno l’età che ha Jacopo adesso, e se non fosse per il bianco e nero, per il contesto, i vestiti, insomma per tutto quello che ti fa capire che è una foto vecchia, potresti pensare che si   tratta proprio di Jacopo. Mi dà una sensazione strana questa specie di irruzione, attraverso la somiglianza di Jacopo allo zio, nell’adolescenza di una persona che hai visto solo da adulto, che addirittura è stato il tuo maestro. Capita a tutti di chiedersi come fossero alla propria età, o semplicemente da bambini, le persone con le quali si ha a che fare. Ho sempre pensato che, anche quando si ha davanti una persona di ottant’anni è lui che insegue un pallone e tira calci meglio che può, non il bambino che è stato. Forse è anche questo il compito delle generazioni successive: farti intravedere il passato. Ma è un attimo, che bisogna saper   cogliere. Con la coda dell’occhio, infatti, mentre un addetto dell’Anas con una bandierina arancione mi segnala l’ennesima interruzione, guardo i pantaloni di mio figlio: larghi, informi, le felpacce   di università americane di cui non conosce nemmeno l’esistenza, e mi viene da pensare a quella storia del progresso dell’uomo, alla diatriba fra chi sostiene l’evidenza del progresso umano e chi lo mette in dubbio: nel suo piccolo, Jacopo, con la sua divisa uguale a quella di tutti i suoi amici, potrebbe fornire prove inconfutabili ai sostenitori della seconda tesi    .

La somiglianza fra Jacopo e lo zio mi fa venire in mente un’altra cosa. A casa nostra non si guardavano volentieri le fotografie: un fastidio tramutato nel corso degli anni in un divieto. Una delle tante cose strane. Ricordo però che, quando erano tutti fuori, io e mia sorella ne approfittavamo e prendevamo quel sacchetto nero pieno di foto in bianco e nero, divenuto proibito, in cui era contenuta tutta la storia della nostra famiglia. Quello che mi ha sempre colpito era il fatto che non c’erano foto dei miei nonni paterni. È vero che erano morti entrambi giovani, ma era strano che non si trovasse una loro foto, nemmeno di un passaporto, di un documento.

Tutto contribuiva ad aumentare l’aria di mistero che si respirava nella nostra famiglia. Un’aria pesante, cupa. Una cappa grigia che copriva tutto. Mio padre non l’ho mai sentito cantare, non parliamo di ridere; gli dava fastidio anche se uno fischiettava. Stava fuori tutto il giorno e rientrava la sera tardi. Due mugugni con mamma e poi a letto. Mia madre era la sopportazione che si era incarnata.

Ho sempre avuto la sensazione che fosse successo qualcosa di grave. Qualcosa di cui non si poteva neanche parlare. Solo mezze frasi e segni in un linguaggio convenzionale, affinato in tanti anni di dialogo criptato. Come se la casa fosse di proprietà di fantasmi che non si poteva disturbare.

Un po’ di questa atmosfera si deve essere trasmessa, almeno negli atteggiamenti, perché anche Jacopo se ne sia accorto: non c’è argomento che lo interessi di più delle vicende di famiglia.

Quando aveva due anni, Jacopo correggeva i miei gesti se non riusciva a imitarli. A un anno e mezzo, conosceva i nomi di tutti i quotidiani che giravano per casa: me li rubava come io facevo con zio Fred e si metteva a leggere replicandomi come un mimo. Adesso gli devo chiedere udienza fra una canzone e l’altra.

 E’ un ragazzo intelligente, Jacopo, forse troppo. Molto sensibile e più maturo della sua età, a volte dice delle cose che rimani lì a bocca aperta. Pensa molto e parla poco, due caratteristiche che dovrebbero essere due pregi, ma in lui forse sono un po’ troppo accentuati e finiscono per trasformarsi in difetti. E poi ha la tara di famiglia: spesso si assenta, sembra in un altro luogo, in un’altra dimensione. E sembra sempre fuori posto.  

 Ormai sono all’angolo, fra le interruzioni della Salerno-Reggio Calabria e il post rock, il viaggio di ritorno in Calabria si sta trasformando in un calvario. E pensare che era un viaggio attesissimo, programmato da un paio di mesi: solo io e Jacopo. La mamma e la bambina sono rimasti a Roma, loro non hanno quest’attaccamento per la Calabria che abbiamo noi due; un po’ mi dispiace, ma è normale: non hanno nessun legame con la mia terra. Ce ne siamo andati via che Jacopo aveva 3 anni perché mi trasferirono a Roma; fu una promozione: andavo a vendere pubblicità nella capitale. Non è un gran lavoro, ma si guadagna bene  . Certo il capitalismo fa schifo, è una merda in cui prevale la legge del più forte, ma di meglio, in giro per la storia, non c’è. C’abbiamo provato a cambiare il mondo, ma abbiamo fatto peggio di quelli contro cui combattevamo. Forse li abbiamo solo sostituiti. Vivere bisogna pur vivere e quindi un lavoro vale un altro: vendo pubblicità, quel niente che fa girare tutto.

Appena possiamo, io e Jacopo ne approfittiamo e scendiamo. Il ponte del 1 maggio mi era sembrato un’occasione forse irripetibile, vista l’età di zio Fred, per andarlo a trovare giù a Cosenza. Jacopo aveva accolto con entusiasmo la proposta. Adora viaggiare, adora zio Fred, anche se lo vede poco, e adora la campagna dove vive lo zio.

Purtroppo adora anche il post-rock.

A questo punto, ho un’unica risorsa, ma non volevo ancora   tirarla fuori.

Fino a qualche minuto fa, avevo resistito dando delle risposte un po’ idiote per cavarmela: “un segreto è un segreto proprio perché nessuno lo racconta…”. “Sai che si dice sui segreti? Che un segreto è tale quando sono in tre a saperlo e due sono morti”, ma adesso, stremato dalla musica e dalla Salerno-Reggio Calabria, decido di accontentarlo.

Ho sempre pensato che Jacopo dovesse essere più grande, più responsabile per questa cosa, ma è difficile che si possa ripresentare un’occasione così. In fondo in fondo, sapevo che sarebbe andata a finire così e, forse, lo sapeva anche lui. Comincio a pensare che il martellamento musicale sia la parte principale di una diabolica strategia di sfinimento, volta a ottenere la mia confessione.

“Allora la vuoi conoscere la storia di zio Fred?”

E’ come se gli avessi detto che i Miss Fraulen hanno fatto un altro CD e l’unico ad averlo sono io. Subito, Jacopo spegne la radio e si gira verso di me.

“Quanto tempo abbiamo prima di arrivare?”.

“Mah, considerate le condizioni della strada credo che ci vorranno ancora due ore, sempre che non becchiamo qualche coda chilometrica”.

“Accidenti, un’altra interruzione! Beh, un segreto posso cominciare a raccontartelo”.

“Sì?”

“E’ una storia che abbraccia quasi tutto il secolo scorso e ogni fatto, ogni avvenimento, è caratterizzato come da un sottofondo, più esattamente da un rumore di fondo…”

“Quale?”

Se volevo la prova di quanto Jacopo tenga a sapere il racconto dei fatti di famiglia, l’ho avuta con questa semplice provocazione. Adesso gli potrei anche dire che i Miss Fraulen si sono sciolti e non faranno più un disco in vita loro non gliene importerebbe nulla.

“I lavori della Salerno-Reggio Calabria”.

“Ah ah, non male come battuta”.

“Veramente non era una battuta”.

Per la prima volta durante il viaggio mi guarda e mi sorride. Forse l’unico risultato positivo in quarant’anni di lavori in corso sulla SA-RC.

In realtà, il sottofondo della nostra storia è un altro. Ogni persona, ogni famiglia, ha delle caratteristiche comuni e indelebili, che gli derivano, pare, dal codice genetico e dalle esperienze dei primi anni di vita, dal suo imprinting. Per questo, a grandi linee, tutti ripetiamo sempre le stesse azioni, commettendo sempre gli stessi errori e subendo sempre gli stessi torti. Decido di non dirglielo, voglio che lo scopra da solo.   Anche perché, in alcuni momenti, più che un sottofondo si è trattato di boati assordanti che non potrà non udire anche lui.


 

 

 

 
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