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(PERCHE') A QUALCUNO (NON) PIACE (PIU' IL) CAL...CIO

Post n°562 pubblicato il 09 Ottobre 2014 da mrjbigmat

Abbandoniamo Cet e le sue avventure perchè anche caricarle tutte non porterebbe a una fine e sarebbero solo altre 50 pagine (quelle di ieri erano quasi una quarantina) in cui si mescolano complotti planetari, briganti locali, amici che tradiscono, geni informatici, vecchi professori e ovviamente Cet e Laura.

Passiamo invece a un altro abbozzo (i miei sono quasi tutti abbozzi perchè romanzieri non si diventa: o si è o non c'è niente da fare. O si ha il talento di fare una cosa o è inutile sprecarci tutta la vita). Qualcosa l'ho finita però (dei racconti brevi), ma non so se vale la pena pubblicarli.

Come al solito, una premessa, anzi due: la prima è che, come sempre, alla ricerca delle giusta soluzione "narrativa", ho fatto diverse stesure (così tante che alla fine mi sono incasinato) quindi è richiesto uno sforzo supplementare di chi legge per non perdere il filo; la seconda è il motivo stesso per il quale pubblico questo e non altro e che vado a spiegare. L'uomo è per sua natura giudice, una delle capacità che distingue l'uomo dagli animali è proprio quella di analizzare e trarre delle conclusioni. Tutti lo facciamo. Ma, a parte che c'è chi è più portato a tenersele per sè e chi invece non vede l'ora di spifferarle a tutti, con aggiunta anche di particolari inventati e di valutazioni basate sul nulla, ci sono giudici parziali, corrotti, interessati, imparziali, giusti, insomma tutta la gamma. La mia opinione è che il requisito minimo per essere un buon giudice è studiare le carte, conoscere i fatti, tutti e alla perfezione. Solo dopo aver fatto questo lavoro, ci si può esprimere, altrimenti è meglio tacere. Nessuno è tenuto a sapere i motivi che portano a essere in un certo modo e fare determinate cose, ma se non le si vuole sapere, per disinteresse, per mancanza di tempo o per qualsiasi altra cosa, è meglio astenersi. Soprattutto se ci si dichiara amici e si viene trattati da tali.


Nessuno conosce i Miss Fraulen. Solo mio figlio e i suoi amici  . È da Roma che Jacopo mi sta bombardando con il loro CD di esordio, che poi è anche l’unico. Nei pochi secondi di attenzione che mi rivolge, tenta di spiegarmi che i Miss Fraulen fanno post-rock, più precisamente sono un gruppo stoner e che sono una band emergente e che fra qualche anno saranno più famosi dei Pearl Jam. Mi viene la tentazione di dirgli che non conosco nemmeno i Perljem per smorzargli il suo entusiamo, ma non mi crederebbe . Cerco di venire a patti con lui, ma su questo è irragionevole. Solo Miss Fraulen; niente rock, niente jazz, niente blues, non oso accennare alla classica. È come se una lobotomia, o delle radiazioni elettromagnetiche, avesse distrutto nella sua testa ogni interesse per qualsiasi altro tipo di musica che non siano i Miss Fraulen

Ne è fiero perché li ha scoperti lui nell’ultimo viaggio in Calabria, due anni fa. Ha conosciuto il chitarrista, poi, ritornato a Roma li ha sottoposti al giudizio del maestro, un certo Poldino, che li ha “sdoganati”, facendo crescere il peso di Jacopo nel gruppo. ‘Sto Poldino ha il potere insindacabile di decidere quale gruppo è degno di loro e quale no. Loro sarebbero gli “indie”, una specie di comunità eterogenea composte di tribù molto diverse fra loro. Gli appartenenti alle varie tribù, oltre ad ascoltare la stessa musica, vestono allo stesso modo e parlano usando lo stesso gergo. La solita storia di chi si  atteggia a diverso e poi è un clone di altri cento, mille e chi sa quanti altri. La parola più usata è musica “alternativa”.????????.  

Cerco di aggirare il muro con qualche domanda sull’argomento: “Ma “indie” sta per indiani?”

Mi guarda con aria quasi schifata, credo per la mia ignoranza, comunque infastidito: “no, per indipendenti”.

“Peccato, sarebbe stato più bello, non so, più romantico, avrebbe dato l’idea di una riserva della buona musica. E indipendenti da che cosa?”.

“Da tutto, dalle grandi case discografiche, dai grandi organi di stampa che pubblicizzano merde pagate dalla case discografiche, da tutto quello che c’è dietro un disco commerciale…”.

Ovviamente, Jacopo ha proferito questa frase con l’indignazione che non si aspetta repliche perché unica proprietaria della verità. Si sorprende, infatti, quando arriva la mia risposta. “Mah, mi sembra un programma impegnativo. E poi come fate a stabilire quale musica ascoltare, non correte il rischio di ascoltare solo musica di sfigati, chiamandola alternativa, solo perché non fa parte dei grandi circuiti? Non pensate che ci possa essere buona musica anche nella musica più commerciale, che avere successo non sia di per sé un requisito di prodotto scadente?”.

Adesso, ha l’espressione che assume quando sta per terminare il tempo e l’attenzione che può tollerare di concedermi.

“Ognuno è libero di scegliersi la musica che preferisce”.

Evito di aggiungere quello che penso e cioè che, più che altro, mi sembrano liberi di fare quello che decide il Poldino di turno, anche perché Jacopo ha infilato le cuffie e si è girato a guardare i peschi in fiore che sembrano confetti nuziali, sembra quasi che le colline circostanti  si stiano preparando per un matrimonio.

Alcune volte mi viene da pensare che cosa farebbe Jacopo se Poldino gli dicesse di eliminare suo padre, magari perché ascolta cattiva musica. Poi penso che forse è meglio non pensarci.

Mio figlio assomiglia molto a zio Fred. Ci sono foto di zio Fred da giovane, ne ricordo una in cui indossa una camicia bianca su dei pantaloni di lino. Doveva avere più o meno l’età che ha Jacopo adesso, e se non fosse per il bianco e nero, per il contesto, i vestiti, insomma per tutto quello che ti fa capire che è una foto vecchia, potresti pensare che si   tratta proprio di Jacopo. Mi dà una sensazione strana questa specie di irruzione, attraverso la somiglianza di Jacopo allo zio, nell’adolescenza di una persona che hai visto solo da adulto, che addirittura è stato il tuo maestro. Capita a tutti di chiedersi come fossero alla propria età, o semplicemente da bambini, le persone con le quali si ha a che fare. Ho sempre pensato che, anche quando si ha davanti una persona di ottant’anni è lui che insegue un pallone e tira calci meglio che può, non il bambino che è stato. Forse è anche questo il compito delle generazioni successive: farti intravedere il passato. Ma è un attimo, che bisogna saper   cogliere. Con la coda dell’occhio, infatti, mentre un addetto dell’Anas con una bandierina arancione mi segnala l’ennesima interruzione, guardo i pantaloni di mio figlio: larghi, informi, le felpacce   di università americane di cui non conosce nemmeno l’esistenza, e mi viene da pensare a quella storia del progresso dell’uomo, alla diatriba fra chi sostiene l’evidenza del progresso umano e chi lo mette in dubbio: nel suo piccolo, Jacopo, con la sua divisa uguale a quella di tutti i suoi amici, potrebbe fornire prove inconfutabili ai sostenitori della seconda tesi    .

La somiglianza fra Jacopo e lo zio mi fa venire in mente un’altra cosa. A casa nostra non si guardavano volentieri le fotografie: un fastidio tramutato nel corso degli anni in un divieto. Una delle tante cose strane. Ricordo però che, quando erano tutti fuori, io e mia sorella ne approfittavamo e prendevamo quel sacchetto nero pieno di foto in bianco e nero, divenuto proibito, in cui era contenuta tutta la storia della nostra famiglia. Quello che mi ha sempre colpito era il fatto che non c’erano foto dei miei nonni paterni. È vero che erano morti entrambi giovani, ma era strano che non si trovasse una loro foto, nemmeno di un passaporto, di un documento.

Tutto contribuiva ad aumentare l’aria di mistero che si respirava nella nostra famiglia. Un’aria pesante, cupa. Una cappa grigia che copriva tutto. Mio padre non l’ho mai sentito cantare, non parliamo di ridere; gli dava fastidio anche se uno fischiettava. Stava fuori tutto il giorno e rientrava la sera tardi. Due mugugni con mamma e poi a letto. Mia madre era la sopportazione che si era incarnata.

Ho sempre avuto la sensazione che fosse successo qualcosa di grave. Qualcosa di cui non si poteva neanche parlare. Solo mezze frasi e segni in un linguaggio convenzionale, affinato in tanti anni di dialogo criptato. Come se la casa fosse di proprietà di fantasmi che non si poteva disturbare.

Un po’ di questa atmosfera si deve essere trasmessa, almeno negli atteggiamenti, perché anche Jacopo se ne sia accorto: non c’è argomento che lo interessi di più delle vicende di famiglia.

Quando aveva due anni, Jacopo correggeva i miei gesti se non riusciva a imitarli. A un anno e mezzo, conosceva i nomi di tutti i quotidiani che giravano per casa: me li rubava come io facevo con zio Fred e si metteva a leggere replicandomi come un mimo. Adesso gli devo chiedere udienza fra una canzone e l’altra.

 E’ un ragazzo intelligente, Jacopo, forse troppo. Molto sensibile e più maturo della sua età, a volte dice delle cose che rimani lì a bocca aperta. Pensa molto e parla poco, due caratteristiche che dovrebbero essere due pregi, ma in lui forse sono un po’ troppo accentuati e finiscono per trasformarsi in difetti. E poi ha la tara di famiglia: spesso si assenta, sembra in un altro luogo, in un’altra dimensione. E sembra sempre fuori posto.  

 Ormai sono all’angolo, fra le interruzioni della Salerno-Reggio Calabria e il post rock, il viaggio di ritorno in Calabria si sta trasformando in un calvario. E pensare che era un viaggio attesissimo, programmato da un paio di mesi: solo io e Jacopo. La mamma e la bambina sono rimasti a Roma, loro non hanno quest’attaccamento per la Calabria che abbiamo noi due; un po’ mi dispiace, ma è normale: non hanno nessun legame con la mia terra. Ce ne siamo andati via che Jacopo aveva 3 anni perché mi trasferirono a Roma; fu una promozione: andavo a vendere pubblicità nella capitale. Non è un gran lavoro, ma si guadagna bene  . Certo il capitalismo fa schifo, è una merda in cui prevale la legge del più forte, ma di meglio, in giro per la storia, non c’è. C’abbiamo provato a cambiare il mondo, ma abbiamo fatto peggio di quelli contro cui combattevamo. Forse li abbiamo solo sostituiti. Vivere bisogna pur vivere e quindi un lavoro vale un altro: vendo pubblicità, quel niente che fa girare tutto.

Appena possiamo, io e Jacopo ne approfittiamo e scendiamo. Il ponte del 1 maggio mi era sembrato un’occasione forse irripetibile, vista l’età di zio Fred, per andarlo a trovare giù a Cosenza. Jacopo aveva accolto con entusiasmo la proposta. Adora viaggiare, adora zio Fred, anche se lo vede poco, e adora la campagna dove vive lo zio.

Purtroppo adora anche il post-rock.

A questo punto, ho un’unica risorsa, ma non volevo ancora   tirarla fuori.

Fino a qualche minuto fa, avevo resistito dando delle risposte un po’ idiote per cavarmela: “un segreto è un segreto proprio perché nessuno lo racconta…”. “Sai che si dice sui segreti? Che un segreto è tale quando sono in tre a saperlo e due sono morti”, ma adesso, stremato dalla musica e dalla Salerno-Reggio Calabria, decido di accontentarlo.

Ho sempre pensato che Jacopo dovesse essere più grande, più responsabile per questa cosa, ma è difficile che si possa ripresentare un’occasione così. In fondo in fondo, sapevo che sarebbe andata a finire così e, forse, lo sapeva anche lui. Comincio a pensare che il martellamento musicale sia la parte principale di una diabolica strategia di sfinimento, volta a ottenere la mia confessione.

“Allora la vuoi conoscere la storia di zio Fred?”

E’ come se gli avessi detto che i Miss Fraulen hanno fatto un altro CD e l’unico ad averlo sono io. Subito, Jacopo spegne la radio e si gira verso di me.

“Quanto tempo abbiamo prima di arrivare?”.

“Mah, considerate le condizioni della strada credo che ci vorranno ancora due ore, sempre che non becchiamo qualche coda chilometrica”.

“Accidenti, un’altra interruzione! Beh, un segreto posso cominciare a raccontartelo”.

“Sì?”

“E’ una storia che abbraccia quasi tutto il secolo scorso e ogni fatto, ogni avvenimento, è caratterizzato come da un sottofondo, più esattamente da un rumore di fondo…”

“Quale?”

Se volevo la prova di quanto Jacopo tenga a sapere il racconto dei fatti di famiglia, l’ho avuta con questa semplice provocazione. Adesso gli potrei anche dire che i Miss Fraulen si sono sciolti e non faranno più un disco in vita loro non gliene importerebbe nulla.

“I lavori della Salerno-Reggio Calabria”.

“Ah ah, non male come battuta”.

“Veramente non era una battuta”.

Per la prima volta durante il viaggio mi guarda e mi sorride. Forse l’unico risultato positivo in quarant’anni di lavori in corso sulla SA-RC.

In realtà, il sottofondo della nostra storia è un altro. Ogni persona, ogni famiglia, ha delle caratteristiche comuni e indelebili, che gli derivano, pare, dal codice genetico e dalle esperienze dei primi anni di vita, dal suo imprinting. Per questo, a grandi linee, tutti ripetiamo sempre le stesse azioni, commettendo sempre gli stessi errori e subendo sempre gli stessi torti. Decido di non dirglielo, voglio che lo scopra da solo.   Anche perché, in alcuni momenti, più che un sottofondo si è trattato di boati assordanti che non potrà non udire anche lui.


 

 

 

 
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