Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Novembre 2017

Sono Elisa

Post n°2436 pubblicato il 30 Novembre 2017 da namy0000
 

“Sono Elisa, figlia del dottor Giancarlo R., ex medico condotto. Mio papà è partito per il Cielo sabato 21 ottobre scorso. Era pronto. Il giorno prima, quando è venuto il nostro parroco a dargli la santa Unzione, la Comunione e l’assoluzione, l’ha ringraziato e gli ha detto che ora era tranquillo. Quante persone gli hanno voluto e gli vorranno per sempre bene. Tre paesi interi erano presenti alla sua festa per la partenza verso il Cielo. Sguardi pieni di lacrime e affetto che solo in parte sono arrivati a noi familiari. Si respirava tanto amore, tanta pace e tanta gratitudine, oltre che tanta malinconia per non averlo più qui tra noi. Un uomo di Dio, che ha tanto amato e che ha portato a termine la sua missione come meglio non avrebbe potuto… Le scrivo il ricordo che ho letto durante la sua festa. ‹‹Caro papà, stavo guardando l’ultima foto che abbiamo fatto assieme. Eri già tanto sofferente, ma avevi comunque la forza di sorridere e ironizzare, soprattutto su te stesso. Mi avevi detto di non farla vedere in giro perché se qualcuno avesse visto quegli occhiali storti e quella faccia così sbattuta si sarebbe spaventato e avrebbe smesso di pregare per te. Grazie, papà, di avere aspettato di partire dopo che io sono tornata dai due anni di lontananza, grazie di avermi lasciata prendere il volo, pur aspettandomi sempre con fiducia e fatica, grazie per avermi voluto sempre bene e per la fiducia che hai sempre riposto in me nonostante le tante volte che l’ho delusa. Grazie per tutto quello che mi hai insegnato, anche con il tuo silenzio, per la tua pazienza, la tua forza, il tuo coraggio, la tua determinazione. Grazie per il tuo cuore così grande e con tanta voglia di amare ed essere amato. Grazie per aver speso la tua vita ad amare, pur avendo sofferto già così tanto fin da piccolo. Quanto hai sofferto, caro papà, ma mi consola tanto sapere che ora sei nella Gioia piena, stai gustando già l’Amore vero. Continua a vegliare su di noi come già hai iniziato a fare in queste prime e lunghe giornate senza la tua presenza fisica, ma ricolme di benedizioni e di grazie. Ti voglio tanto bene, papà, ti vogliamo tanto bene e stiamo davvero sperimentando come l’Amore sconfigga la morte! Ringrazio per il dono della tua vita e per il dono di averti avuto come papà terreno. Nella certezza che sei finalmente felice davvero, infinitamente grata, tua Elisa››” (FC n. 48 del 26 nov. 2017). 

 
 
 

Riprendendo la battaglia

Post n°2435 pubblicato il 29 Novembre 2017 da namy0000
 

William Barber, riprendendo la battaglia di Martin Luther King, un pastore protestante vuole unire gli emarginati per sfidare Donald Trump, gli evangelici e “l’eresia dell’avidità”. Il reverendo William Barber, 54 anni, pastore del North Carolina, è in piedi sul pulpito da cui 50 anni fa predicava Martin Luther King. Pronuncia un’appassionata chiamata alle armi. La sua voce profonda e baritonale riempie la chiesa. ‹‹È il momento della svolta››, tuona con il sudore che gli gronda dalla fronte, mentre un organista lo accompagna con accordi frenetici. ‹‹Dobbiamo superare il silenzio. Dobbiamo superare l’odio. Dobbiamo andare avanti fino a quando ogni persona povera avrà un reddito garantito››. … ‹‹Dobbiamo andare avanti finché il diritto di voto sarà assicurato, fino a quando saremo davvero una sola nazione››, insiste… Barber combina la teologia della liberazione con i principi costituzionali e i valori biblici di amore e carità. Ascoltarlo fa venire la pelle d’oca. Barber vuole lanciare quello che nelle sue intenzioni dovrebbe diventare un movimento nazionale per portare a termine l’opera di Martin Luther King. … Chicago è l’ottava tappa di un viaggio in 14 stati con cui il pastore vuole porre le basi per una nuova “Poor people’s campaign”, come si chiamava l’ultima campagna del movimento per i diritti civili, che si concluse con la morte di Martin Luther King. La campagna del 1968 aveva cercato di convincere il congresso ad approvare una legge sui diritti economici che comprendesse il reddito garantito, case popolari e finanziamenti per le comunità più povere. L’obiettivo della campagna appena lanciata è ancora più ambizioso: unire i diversi gruppi di emarginati degli Stati Uniti in una causa comune, superando le differenze di genere e di colore della pelle. ‹‹Dobbiamo ricordarci che il movimento per i diritti civili non si è esaurito da solo››, spiega Barber, ‹‹Il movimento è stato ucciso assassinando i suoi leader, è stato ucciso dalle divisioni. Nel nostro viaggio ci stiamo rendendo conto che c’è ancora bisogno di quell’unione di cui parlava Martin Luther King nel 1968. Dobbiamo unirci per affrontare i mali del razzismo, del militarismo, della povertà sistematica e della devastazione dell’ambiente››… (Oliver Laughland, The Guardian, Regno Unito, Internazionale n. 1231 del 17 nov. 2017). 

 
 
 

Perché la politica

Post n°2434 pubblicato il 28 Novembre 2017 da namy0000
 

Perché la politica. La sfidante lezione di Sturzo

(Riccardo Maccioni, Avvenire, domenica 26 novembre 2017)

Il deciso passo avanti di don Luigi Sturzo verso la gloria degli altari, di cui abbiamo scritto con ampiezza in questi giorni, è insieme una grazia, una sfida e una provocazione. Significa che la politica non è una cosa sporca, che la santità può abitare anche tra gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama, che per essere felice la vita dev’essere insieme buona e moralmente giusta. No, non è stato facile. Non è mai semplice per un cattolico scegliere l’impegno politico. Devi fare i conti con gli ex amici che ti accusano di carrierismo, con la litania delle infinite mediazioni, con il dovere di agire per il bene di tutti pur appartenendo a un gruppo, con il rischio di evadere la realtà per osservarla dal pulpito dei privilegiati.

Un’impresa difficile, soprattutto per gli apripista, quelli che a giochi fatti chiamiamo «profeti», figuriamoci se sei anche un sacerdote che ha vissuto transizioni storiche complesse, dalla Monarchia alla dittatura fascista fino alla Repubblica. E prete don Sturzo lo è stato sempre, per intero, fino all’ultimo dei suoi giorni. Un concetto risuonato spesso venerdì alla chiusura della fase diocesana della causa che potrebbe portarlo a essere proclamato beato. Prete «ubbidiente ma non sottomesso» come lo definì Jemolo, sacerdote al punto da sentire il dovere dell’impegno diretto, in un Sabato Santo, era il 1895, osservando la miseria di un quartiere romano di periferia. Perché la politica, se traduce il Vangelo in impegno, se è carità autentica, guarda in faccia le persone, scende per strada, si sporca le mani, chiama per nome l’ingiustizia e l’oppressione. Predica bene e vive allo stesso modo.

In Sturzo mai si pose il problema di un dualismo tra attività sociale e scelte private così come la ricerca del bene di tutti mai fu separato dall’esercizio delle virtù individuali. Ampliando il discorso, allargandolo, per il prete calatino etica e impegno pubblico non possono essere in contrasto, e non lo sono Vangelo e società umana. «La politica è per sé un bene - scriveva nel 1925 -, il far politica è, in genere, un atto di amore per la collettività: tante volte può essere anche un dovere per il cittadino».

Ecco la allora la sfida di un messaggio di salvezza che si cala nella storia concreta, capace di leggere e assecondare il cambiamento, che si rivolge a tutti gli uomini e a tutto l’uomo. Non solo un afflato spirituale, per quanto nobile, ma una chiave interpretativa del reale, una lente d’ingrandimento, una luce accesa sulle sfide sociali e sui mali del tempo, alcuni diventati poi triste eredità per i nostri giorni. Sturzo fu tra i primi a vedere i pericoli legati alla persuasività criminale della mafia, a denunciare i rischi della partitocrazia e dello statalismo, fu strenuo e appassionato difensore della Costituzione repubblicana.

Scelte che se allora gli valsero l’emarginazione e l’esilio oggi sono medaglie al merito della giustizia, del bene comune, della fraternità. Valori tuttavia non da enfatizzare come ideali astratti ma che, sull’esempio di Gesù, i cristiani hanno il compito, il dovere di realizzare nel quotidiano. Nella testimonianza di Sturzo, infatti, la fede non può essere separata dalla prassi ma la pervade e abbraccia, se assecondata, la feconda.

La missione del cattolico, allora, in qualsiasi ambito la si indirizzi, non può che essere testimonianza, riflesso, immagine del divino. Se manca, tutto si sporca e si rovina, dal servire si passa al servirsi, la logica del 'noi' facilmente diventa culto narcisistico di sé e dei propri interessi. IlVangelo che diventa vita, dunque, l’attenzione ai poveri come espressione della «fratellanza comune per la divina paternità», il legame inscindibile tra l’amore cristiano e la ricerca della giustizia. L’itinerario umano di don Sturzo si gioca su questi temi, secondo la logica di un sacerdote che non dimenticò mai, neanche per un attimo, di esserlo, che visse l’impegno sociale come chiamata e dovere, che considerò sempre l’attività politica «una conseguenza» di quella religiosa.

«Si può essere di partito diverso – scriveva nel 1942 –, di diverso sentire, anche sostenere le proprie tesi sul terreno politico ed economico, e pure 'amarsi cristianamente'». Un richiamo al rispetto e alla tolleranza che suonano come una sfida per questi nostri tempi sempre arrabbiati, di scontri che facilmente sfociano nell’insulto anche tra fratelli di fede. Una provocazione, un invito all’agire per i credenti che si domandano se impegnarsi. Una grazia per chi crede ancora che la politica sia amore, carità, anzi per dirla con Paolo VI «una delle forme più alte della carità».

 
 
 

Le barriere

Post n°2433 pubblicato il 27 Novembre 2017 da namy0000
 

“Bisogna abolire i confini africani?

Le barriere tra i paesi africani hanno soffocato la tradizionale libertà di circolazione che favoriva il progresso economico e culturale.

Gestire la mobilità delle persone potrebbe essere il problema più importante che il mondo dovrà affrontare nella prima metà del ventunesimo secolo.

La tendenza generale è quella di privare della libertà di movimento il maggior numero di persone possibile o di sottoporre questo diritto a condizioni così dure da rendere oggettivamente impossibile la mobilità. Dove il diritto di movimento è garantito, si è fatto di tutto per rendere più incerto e precario il diritto a restare in un posto. In questo regime segregato della mobilità globale l’Africa è penalizzata due volte, all’esterno e all’interno. Oggi non c’è praticamente nessun paese al mondo che non respinga i migranti provenienti dall’Africa. Al tempo stesso, con le sue centinaia di confini interni, che rendono quasi impossibile spostarsi da un paese all’altro, l’Africa è intrappolata nella corsia più lenta e somiglia sempre di più a un’enorme prigione a cielo aperto.

All’interno del continente, gli stati africani postcoloniali non sono riusciti a formulare chiaramente un quadro legislativo e iniziative politiche comuni per la gestione dei confini, l’aggiornamento dei registri civili, la liberalizzazione dei visti o il trattamento dei cittadini che risiedono legalmente in un altro stato. La fine del dominio coloniale non ha inaugurato una nuova era che ha esteso la libertà di circolazione. I confini coloniali sono diventati intangibili e non si è vista alcuna spinta verso l’integrazione regionale. Con l’eccezione della Comunità economica dell’Africa occidentale, il diritto a spostarsi all’interno e attraverso i confini nazionali e regionali è ancora un sogno. In quest’epoca ad alta velocità, chi ha la pelle di un certo colore non riesce a spostarsi con facilità, e il continente è paradossalmente intrappolato in un movimento al rallentatore.

Le cose non sono andate sempre così. L’Africa pre-coloniale non era certo un mondo senza confini. Dove esistevano, però, erano sempre porosi e permeabili. Come conferma la storia delle rotte commerciali a lunga distanza, la circolazione era fondamentale nella produzione di espressioni culturali, politiche, economiche e sociali. La mobilità, il più importante veicolo di trasformazione e cambiamento, era il principio che guidava la delimitazione e l’organizzazione dello spazio e dei territori. Reti, flussi e incroci erano molto più importanti dei confini. Era di fondamentale importanza il fatto che i flussi incrociassero altri flussi.

I confini politici definivano alcune persone come gradite e altre come straniere o ultime arrivate. La ricchezza demografica, però, ha sempre superato quella materiale, e c’erano forme di appartenenza per tutti. Costruire alleanze attraverso il commercio, i legami matrimoniali o la religione e integrare i nuovi arrivati, i profughi e i richiedenti asilo in sistemi di governo preesistenti era la norma. La forma statale non era altro che una delle tante forme che il governo delle persone poteva assumere.

La divisione dei territori per mezzo di confini politici è un’invenzione coloniale. Istituendo un rapporto conflittuale tra la circolazione delle persone e l’organizzazione politica dello spazio, il governo coloniale inaugurò una nuova fase nella storia della mobilità del continente africano. adottando il modello statocentrico, con nazioni delimitate dal punto di vista territoriale da frontiere chiuse e ben custodite, gli stati africani post-coloniali hanno rinnegato antiche tradizioni che avevano da sempre rappresentato il motore dinamico del cambiamento nel continente.

Diventare una vasta area all’interno della quale c’è libertà di movimento è di sicuro la sfida più grande che l’Africa dovrà affrontare nel ventunesimo secolo. Il futuro del continente non dipende dalle politiche migratorie restrittive e dalla militarizzazione dei confini. L’Africa deve aprirsi a sé stessa, dev’essere trasformata in un vasto spazio di libera circolazione. È l’unico modo per diventare centro di sé stessa in un mondo multipolare” (Achile Mbembe, Mail & Guardian, Sudafrica, Internazionale n. 1231 del 17 nov. 2017).
“…L’avversione per le frontiere non può essere sottovalutata, ma l’intervento di Mbembe, per quanto interessante, è vittima di una rappresentazione astorica. Le frontiere sono processi che maturano nel tempo e dipendono da molti fattori. La proposta di Mbembe non è nuova, visto che fu discussa ampiamente negli anni in cui i paesi africani riconquistarono l’indipendenza. Quel profumo di unità panafricana, però, scomparve quando le lotte politiche cominciarono a concentrarsi sui territori delineati durante la colonizzazione. Il processo si concluse con l’adozione dell’intangibilità delle frontiere nel 1963, sancita dalla carta dell’Organizzazione dell’unità africana.

Mbembe sbaglia quando afferma che “dividere i territori con frontiere politiche è un’invenzione coloniale”. Le frontiere precoloniali erano strutturate da rapporti di forza interni ed esterni e chiamavano in causa questioni politiche e geopolitiche. I colonizzatori non divisero i territori di regni o imperi, ma si appoggiarono su frontiere precoloniali o su fratture politiche. In cambio, imposero in Africa la frontiera lineare che inquadra lo stato nazione in modo artificiale e ha contribuito a far diventare una cosa concreta la mappa geopolitica africana. Crearono territori di sfruttamento dove furono messe insieme popolazioni che non avevano necessariamente la vocazione a convivere o a diventare stati indipendenti secondo quanto stabilito dai colonizzatori. D’altro canto, la prima opposizione al modo in cui erano stati divisi i territori nacque all’interno delle amministrazioni coloniali, nel periodo tra le due guerre mondiali, quando le potenze coloniali non riuscivano a impedire che le popolazioni si spostassero per sfuggire alla riscossione delle imposte o al reclutamento forzato. Le premesse del discorso sull’artificialità delle frontiere furono gettate  in quel periodo. Il geografo Michel Foucher ha dimostrato che l’opposizione tra frontiera naturale e frontiera artificiale si basa su concetti-ostacolo che impediscono di approfondire la storia delle frontiere e i dibattiti che hanno portato alla loro creazione. I conflitti esplosi dopo le indipendenze, d’altronde, sono sorti all’interno degli stati, non tra gli stati.

Mbembe sembra rimpiangere l’epoca precoloniale, quando le frontiere africane erano porose e permeabili, a differenza di oggi. Eppure questi aggettivi continuano a essere usati per definire le frontiere. Il controllo e la sorveglianza dei confini, tanto più se coinvolgono due o addirittura più paesi, continuano a essere inefficaci, poiché gli stati temono che controlli severi facciano scoppiare un incidente diplomatico. È uno dei motivi per cui queste zone sono diventate rifugi per i ribelli.

 

Se è prassi comune denunciare le frontiere ereditate dalla colonizzazione, bisogna però tenere conto del processo di radicamento delle frontiere, che favorisce l’affermazione di un nazionalismo dal basso. Nelle dispute per i terreni agricoli, per esempio, le comunità di frontiera sollecitano spesso l’intervento dei rispettivi governi. In questo modo contribuiscono a consolidare il quadro territoriale dello stato, ma contemporaneamente lo rendono più fragile. In realtà, l’effetto-frontiera perpetua un’economia della sopravvivenza. Questa situazione riflette l’ambivalenza delle frontiere, che sono una barriera ma anche un ponte tra le popolazioni. Governanti e governati consolidano e allo stesso tempo rendono più fragili le basi territoriali, secondo logiche elettorali, politiche o economiche diverse. Mbembe invoca una maggiore mobilità di beni e persone in Africa, ma questa è una questione fortemente politica, e la frontiera è solo uno degli attori della storia” (Caroline Roussy e Kako Nubukpo, Libération, Francia, Internazionale n. 1231 del 17 nov. 2017). 

 
 
 

HHo fatto solo il mio dovere

Post n°2432 pubblicato il 26 Novembre 2017 da namy0000
 

...«Non ho fatto niente di straordinario – spiega sul palco della Leopolda – ho fatto solo il mio dovere». Poi, commosso, ha guardato la sua famiglia a due passi. «Viviamo una vita blindata, però, posso assicurarvi, con la piena consapevolezza, di aver fatto la cosa giusta e di esser stato un uomo libero. Mi consente di guardare la mia famiglia negli occhi e dirgli che gli voglio bene. Di non averli messi in pericolo. Anzi, sono certo di averli salvati dal cattivo esempio»..." (Giornalettismo, 25 nov. 2017).

 
 
 

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