Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

 

Violenza di genere

Post n°4064 pubblicato il 13 Settembre 2024 da namy0000
 

2024, Avvenire, 12 settembre

Fatou: io, sopravvissuta ora lotto contro il “taglio”

Fatou Baldeh: due premi prestigiosi ricevuti a Washington e a Ginevra. E lei, attivista contro le mutilazioni genitali femminili, sopravvissuta al “taglio” (così lo chiama, the cut) subìto a 8 anni, ad Avvenire dice che è orgogliosa di tanta visibilità, per sé stessa e il suo lavoro, ma soprattutto perché le ragazze del suo Paese, il Gambia, che non hanno opportunità e pensano di non poter far altro della propria vita che sposarsi molto giovani e aver molti figli, guardando lei potranno capire che sì, anche una donna può cambiare il mondo.

Un modello di ruolo, dice parlando su Whatsapp dal suo ufficio a Brusubi, località sulla costa atlantica a pochi chilometri da Banjul, la capitale di questo piccolo Paese dell’Africa occidentale, 2,5 milioni di abitanti, tutto stretto dentro il territorio del
Senegal. Fatou Baldeh, appena superati i 40 anni, sorriso aperto, inglese sciolto e velocissimo, una gran massa di capelli scuri che le incorniciano il volto affilato, è la fondatrice e la presidente di Will, Women in Liberation & Leadership. «Siamo in 8, tutte “tagliate” (infibulate, ndr): giriamo per villaggi e comunità rurali a parlare con gli abitanti per spiegare che le mutilazioni non sono un bene per le donne, che provocano malattie fisiche e mentali e che tradizione e abitudini si possono cambiare».

Un lavoro difficile, in un Paese che detiene il record mondiale del 75% di ragazze e donne sottoposte a mutilazioni genitali (Fgm) nonostante dal 2015 esista una legge che le vieta. «Io stessa, quando da ragazza sono andata in Scozia per procurarmi un’istruzione, pensavo che la mia situazione fosse normale. Ho dovuto leggere e studiare molto per capire che è una tortura, deleteria per la salute fisica e psichica. Sono tornata in Gambia con l’obiettivo di aiutare il mio Paese a svilupparsi, a crescere. Nessuno può farlo per noi, dobbiamo impegnarci noi gambiani. Ma il “taglio” ha radici profonde nella nostra società, nelle credenze e nelle superstizioni, è parte della nostra identità, considerato un rito di passaggio all’età adulta e spesso sono le nonne che lo impongono alle nipoti.

Talvolta mi trattano come se fossi una traditrice dei valori tradizionali, mi accusano di essermi fatta corrompere dall’ideologia occidentale. Serve tempo e soprattutto educazione».

Quando è accaduto a lei, non sapeva cosa stesse succedendo, c’erano altre 10 bambine, furono stese a terra e una donna iniziò a inciderle gli organi genitali, senza farmaci, senza antidolorifici, solo con un coltellino affilato. «Può immaginare quanto è stato traumatico», dice. Fu trattata per diversi giorni con acqua e sale e impacchi di erbe, lei non smetteva di piangere dal dolore. Quando la ferità si rimarginò, ci fu una grande cerimonia, una festa. Era diventata grande. Le mutilazioni genitali femminili sono talmente radicate in Gambia che lo scorso luglio per un soffio non è stato abrogato il divieto del 2015, rendendo nuovamente legale ciò che ancora viene praticato ma perlomeno fuorilegge.

«È stata la prima volta che ho visto le donne del mio Paese lottare per se stesse», racconta. «Per fortuna la legge non è passata e il bando alle Fgm è rimasto. Ero contenta, ma anche arrabbiata: un Parlamento di soli uomini (58 i seggi, solo 5 le donne, ndr) ha messo a repentaglio la salute e la vita delle ragazze del Gambia».

La donna a cui Fatou si ispira – racconta - è la madre, che prima si opponeva al suo lavoro e oggi è la sua prima supporter, tanto da aver salvato una nipote, la prima della famiglia a non essere stata “tagliata”. Ma non sono solo le Fgm a rendere inquieta e nello stesso tempo combattiva Fatou: la violenza di genere è così endemica in Gambia che «le donne pensano di meritarsi le botte dai mariti se escono senza il loro permesso. E purtroppo nel Paese non esistono case di accoglienza, strutture che possano salvarle. Vengono da noi, facciamo il possibile, ma non riusciamo a dare sufficiente protezione. Questo mi rende tristissima». Fatou è sposato e ha due figli maschi. E questa è la sfida della sua vita: «Crescere ragazzi che rispettino le donne e le diversità. Da qui inizia il vero cambiamento».

 
 
 

Coraggio di resistere

2024, don Maurizio, Avvenire, 12 settembre

Luigi, l’imprenditore che resiste alla camorra. Pagando di persona

Tra i tanti amici laici che rendono ricca la mia vita scelgo l'industriale napoletano che ha mostrato come si tiene testa al mostro che vuole succhiarci la vita. Una lezione di libertà e di coraggio

Gesù inviò i discepoli a due a due perché uno potesse sostenere l’altro quando la giornata pesa, le forze scemano, la tentazione avanza. Ma, soprattutto, quando la gioia – prepotente – irrompe. Non è bene che l’uomo sia solo. La solitudine - da ricercare e salvaguardare - non è mai fuga dagli altri ma esigenza di stare con te stesso per meglio incontrarli e servirli dopo.
L’amico è dono e impegno. Presenza di Dio nei giorni feriali, specchio in cui ti guardi, spalla su cui ti appoggi. E se – può succedere, e succede – qualcuno viene meno e ti delude, non scoraggiarti, ma fermati, aguzza lo sguardo, scruta l’orizzonte, tieniti pronto: qualcosa di nuovo sta avanzando.

I miei amici: discepoli e maestri, sentinelle discrete e cercatori d’oro. I miei amici laici, un mondo in continua espansione. Li cerco, mi cercano, quando la tempesta infuria e quando il cuore canta. Senza di loro non sempre scorgerei le trappole che mi insidiano il cammino; e così anche senza di me qualcuno si sarebbe già smarrito nei meandri della vita. Dio stesso mi ordina di essere amico e di fare affidamento sugli amici. “È rischioso”, borbotta qualcuno. È vero, ma in questo mondo tutto è rischioso, finanche bere un sorso d’acqua o fare un tuffo in mare.

Cari compagni del mio pellegrinaggio in questa unica e irripetibile avventura della vita, bella da morire, ma anche tanto tragica e spietata, con umiltà vi dico – ma lo sapete già – che ho bisogno di voi, del vostro affetto, dei vostri consigli, dei vostri stimoli, della vostra intelligente e garbata ironia. Per essere uomo, per essere prete; per non essere un uomo squallido, un prete meschino. Per non illudermi, non gonfiarmi, non deprimermi. E – lo so – voi avete bisogno di me, del mio celibato, della mia caparbietà, del mio sacerdozio. Dell’Eucaristia che, indegnamente, vi dono e mi dono.

I miei amici laici. Le nostre vocazioni si sono intrecciate. Avanzano insieme. S’illuminano a vicenda. Vi chiedo perdono se dovendo raccontare ai lettori di “Avvenire” una storia, ho scelto quella di Luigi. Sono certo che farà piacere anche a voi. So quanto gli volete bene. Ci conoscemmo – per caso? esiste il caso? – a uno dei tanti convegni sulla legalità, una dozzina di anni or sono. Non lo sapeva, non potevamo saperlo, ma aveva bisogno di noi. Ce ne accorgemmo, allargammo la tenda, lasciammo fare alla Provvidenza.

Era un giovane industriale napoletano, felice di dare lavoro a decine di famiglie. La vita gli sorrideva. Gli affari andavano a gonfie vele. Grandi progetti per il futuro. Tutto procedeva per il meglio, fino a quando non arrivarono “loro”, le iene fameliche, i camorristi nostrani, che affossano l’economia e condannano a morte il territorio. “Se vuoi continuare a produrre – gli dissero con fare spocchioso e tracotante – devi pagare. Dobbiamo vivere tutti. Non puoi pensare solo a te stesso. E guai a te e alla tua famiglia se solo tenti di fare il furbo”. E se ne andarono facendo rombare i motori delle potenti moto sulle quali erano montati.

Che fare? Pagare? Pagano tutti. Ribellarsi? Gli scaltri dicono che non conviene, è inutile, pericoloso. “Quelli” non guardano in faccia a nessuno; sono vigliacchi, si vendicano, ti rovinano, ti ammazzano. Luigi si piega. A malincuore, obbedisce. La gallina dalle uova d’oro ha fatto il suo ingresso nel pollaio maledetto. “Loro” alzano continuamente il tiro. Non si accontentano mai. Chiedono. Chiedono. Vogliono di più, sempre di più. Arroganti. Invidiosi. Blasfemi. Stupidi. Sanguinari. Il pizzo viene pagato a scadenze settimanali. I ritardi non sono tollerati. Denaro contante per non lasciare tracce, quelle stesse tracce che, nei processi, invano, vanno cercando i giudici per poterli condannare.

A ogni pur minimo tentativo di ribellione partono le intimidazioni. Dalle minacce agli schiaffi in pieno viso, il passo è breve. Luigi viene sequestrato. Rinchiuso in uno scantinato puzzolente alle porte di Secondigliano. Soldi. Vogliono i soldi. Tanti. Ma che razza di vita è questa? Basta! Luigi si ribella. Ne parla in famiglia. Chi gli vuole bene, trema. Lo sconsiglia. Piange. Lo invoca di non farlo. Lui va avanti. Denuncia. Gli bruciano i locali. Denuncia ancora. Lo inseguono. Gli tagliano la strada. Finisce all’ospedale. In coma.
La vita di questo giovane è in pericolo. Trasloca in continuazione. Lo Stato gli corre incontro. Arriva la scorta. Vita blindata. La via del calvario è lunga e tortuosa. Tribunali. Processi. Condanne. Assoluzioni. Rabbia. Burocrazia pedante. Pianti. Carte. Avvocati. Paura. Speranza. Un’esistenza stravolta. La ricchezza di una volta è ormai un ricordo. Dove passano “costoro” avanza il deserto. Il giardino profumato lascia lo spazio alla discarica. Si combatte. Ognuno con le armi che ha a disposizione. A nessuno è consentito di tirarsi indietro. Unica certezza: il male non vincerà. Anche se nessuno può prevedere il tempo in cui la camorra sarà relegata solo nei libri di storia.

Luigi è entrato nelle nostre vite e noi nella sua. Aveva bisogno di noi, della nostra amicizia, della nostra lealtà, della nostra fede, della nostra comunità parrocchiale. E noi di lui, delle sue lacrime, del suo dolore, del suo grido di rabbia, del suo coraggio, delle sue paure, della sua sete di giustizia. La sua storia, raccontata nel libro “La paura non perdona”, è una lucida e drammatica testimonianza di come la vita di un giovane industriale napoletano è stata devastata dalla camorra maledetta.

Luigi, un giovane che ha pagato un prezzo altissimo ai nemici dello Stato ma che ha tenuta alta, per noi tutti, la bandiera della dignità e della libertà. Un uomo al quale vorrei che l’Italia e gli italiani tutti dicessero semplicemente “grazie”.

 
 
 

Voglio ringraziarti

Post n°4062 pubblicato il 07 Settembre 2024 da namy0000
 

“Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita. Ho letto, da qualche parte, che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati.

A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che anche Tu abbia un’ala soltanto. L’altra la tieni nascosta, forse per farmi capire che anche Tu non vuoi volare senza di me. Per questo mi hai dato la vita: perché io fossi tuo compagno di volo. Insegnami allora a librarmi con Te. Perché vivere non è ‘trascinare la vita’, non è ‘strappare la vita’, non è ‘rosicchiare la vita’. Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’ebbrezza del vento. Vivere è assaporare l’avventura della libertà. Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te!

Ti chiedo perdono per ogni peccato contro la vita. Anzitutto, per le vite uccise prima ancora che nascessero. Sono ali spezzate. Sono voli che avevi progettato di fare e Ti sono stati impediti. Viaggi annullati per sempre. Sogni troncati sull’alba.

Ma Ti chiedo perdono, Signore, anche per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi. Per i voli che non ho saputo incoraggiare. Per l’indifferenza con cui ho lasciato razzolare nel cortile, con l’ala penzolante, il fratello infelice, che avevi destinato a navigare nel cielo. E Tu l’hai atteso invano, per crociere che non si faranno mai più.

Aiutami ora, a planare, Signore. A dire, terra terra, che l’aborto è un oltraggio grave alla Tua fantasia. È un crimine contro il Tuo genio. È un riaffondare l’aurora nelle viscere dell’oceano. È l’antigenesi più delittuosa. È la ‘decreazione’ più desolante. Ma aiutami a dire, anche, che mettere in vita non è tutto. Bisogna mettere in luce. E che antipasqua non è solo l’aborto, ma è ogni accoglienza mancata. È ogni rifiuto del pane, della casa, del lavoro, dell’istruzione, dei diritti primari. Antipasqua è la guerra, ogni guerra. Antipasqua è lasciare il prossimo nel vestibolo malinconico della vita, dove ‘si tira a campare’, dove si vegeta solo. Antipasqua è passare indifferenti vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine. E si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con Te. Soprattutto per questo fratello sfortunato, dammi, oh Signore, un’ala di riserva!” (don Tonino Bello, vescovo nato ad Alessano-LE, 1935-1993, pastore e profeta del secolo scorso,  da “Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo”ha scritto, fra l’altro, “Le mie notti insonni”).

 
 
 

Dire Grazie

2024, Avvenire, 4 settembre

Il prete cardiologo. Don Carraro: quando il grazie ha una dimensione comunitaria

La gratitudine costruisce e rafforza i legami belli della vita, quei legami che disegnano la trama forse invisibile ma certo indistruttibile della storia. Della gratitudine e del suo lavoro dialoga con Avvenire don Dante Carraro, cardiologo, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, Ong-Onlus che svolge una straordinaria opera di promozione e tutela della salute delle popolazioni africane ed è presente in nove Paesi dell’Africa sub-sahariana: Angola, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania, Costa d’Avorio, Uganda.

In ordine al senso di gratitudine ravvisa differenze tra le persone africane e quelle europee?

Sì. Quando le persone, come accade in Europa, vivono in un contesto ricco di risorse, di possibilità, di strutture, corrono il forte rischio di dare tutto per scontato, di sentirsi padrone della vita, di pensare che tutto dipenda da loro. E quindi corrono il forte rischio di pensare di non dover ringraziare nessuno. Le popolazioni africane, che invece vivono in contesti di grande povertà, sono molto meno esposte a questo rischio e molto più portate a ringraziare. Porto due esempi: molti in Italia danno per scontato che esista il servizio del 118, che basti una telefonata per ricevere assistenza. E dunque, non pensano di dover essere grati per questo. In Africa un servizio nazionale paragonabile al nostro 118 esiste solo in Sierra Leone, grazie al Cuamm. Nel nostro Paese molti danno per scontato che una mamma possa agevolmente raggiungere un ospedale e partorire in condizioni di sicurezza. In Africa, invece, moltissime donne non riescono neppure a raggiungere l’ospedale per partorire o per far curare il loro bambino. Quando lo raggiungono e ricevono assistenza mostrano una gratitudine davvero commovente.

C’è un episodio che ricorda in particolare?

Ricordo una mamma: era partita dal suo villaggio prima dell’alba, a piedi, per portare in ospedale il suo bambino. Arrivò al mattino: il piccolo era affetto da una grave malaria cerebrale. Lo curammo e guarì: quando lo dimettemmo, la mamma, che non parlava inglese, mi fissò a lungo, con uno sguardo delicato, pieno di gratitudine profonda, che non ho più dimenticato. Ancora oggi, quando sono stanco, quando la fatica mi opprime ripenso agli occhioni di quella mamma e mi dico: “forza, vai avanti!”. Sono convinto che in Europa dovremmo recuperare la verità essenziale della vita e della storia: ciascun essere umano è ciò che è grazie all’aiuto, al sostegno, alle capacità degli altri. E dovremmo, di conseguenza, essere più disposti a ringraziare, con letizia.

In Africa ha osservato un modo peculiare di esprimere la gratitudine?

Sì. In Africa è molto presente la dimensione comunitaria della gratitudine. Ad esempio, capita che le donne con problemi seri legati al parto vengano accompagnate in ospedale da tanti familiari che restano pazientemente seduti fuori ad aspettare. Quando il parto va a buon fine, i familiari esprimono la loro riconoscenza intonando canti gioiosi fuori dal reparto. E poi, appena possono, invitano il medico al villaggio e organizzano una festa con balli, musica, buon cibo: è un’esplosione di gratitudine. È così che dicono grazie alla vita e anche al medico, che considerano parte della comunità. E poi c’è l’esperienza delle celebrazioni eucaristiche: in tanti Paesi dell’Africa sono molto vive, per certo aspetti travolgenti. I fedeli esprimono la lode, il rendimento di grazie a Dio  che provano e che vogliono condividere – con tutto il loro essere, con la musica, il canto, il ballo. Sono celebrazioni piene di letizia, umiltà, senso della comunità.

La gratitudine manifestata in Africa ai medici del Cuamm come influisce sul loro modo di lavorare?

La gratitudine rafforza potentemente la motivazione e fa comprendere più in profondità la ricchezza della professione medica. E aiuta a essere coscienti che esistono differenze tra Italia e Africa: dunque aiuta a esercitare pazienza con le persone che, nel nostro Paese, sono portate a dare tutto per scontato. Allo stesso tempo la gratitudine ricevuta rende desiderosi di raccontare le esperienze vissute in Africa per far comprendere quanta bellezza, forza e grazia ci sono nell’atto di ringraziare.

La povertà può anche storcere l’anima, indurire il cuore soffocando la gratitudine. Come la si riaccende?

Con la bontà, la fedeltà, la perseveranza. Penso a un episodio accaduto anni fa in Sud Sudan. Un giorno incontrammo il nuovo ministro della salute di una regione del Paese e lui fu aspro e aggressivo verso il Cuamm e verso di me: ci attaccò con parole offensive. Ne soffrii perché ci stavamo spendendo tanto per la popolazione di quell’area. Nonostante quelle offese, naturalmente noi continuammo la nostra opera di cura in quella zona. E tenemmo i contatti con quel ministro che, con il tempo, capì il nostro lavoro e la nostra dedizione gratuita. Oggi è uno dei nostri più cari amici. La sua durezza  nata da anni di umiliazioni e di dolore a causa della povertà estrema della sua gente – piano piano è venuta meno grazie alla nostra fedeltà e alla bontà dei nostri interventi.

A chi desidera rivolgere parole di gratitudine?

Anzitutto a Dio, per la sua fedeltà: capisco che non mi ha mollato in mezzo ai tanti tornanti e ai sentieri scoscesi che ho percorso nella vita. Ogni volta mi ha offerto un “gancio” al quale ho potuto aggrapparmi. Gratitudine profonda nutro anche per i miei genitori che mi hanno insegnato la concretezza dell’esistenza. Un pensiero va, in particolare, a mia mamma che, con la sua fede schietta, discuteva e mi provocava aiutandomi a capire che sacerdote avrei voluto essere. Un sentito grazie lo rivolgo poi a don Bernardo, che non ha mai avuto paura dei dubbi e dei travagli della fede, li ha condivisi con me facendomi comprendere che la fede è impastata con la vita e non cancella amarezze e delusioni. Infine, il mio grazie va al dottor Zanetti, un neurologo che mi ha insegnato la sapiente arte di ascoltare, di comprendere i problemi fisici dei pazienti ma anche i moti più intimi della loro anima.

 
 
 

La Speranza non delude

Post n°4060 pubblicato il 01 Settembre 2024 da namy0000

La Speranza non delude”.

La Speranza. Cos’è questa certezza nel futuro, che si realizza solo perché il presente è carico di significato, pieno di una presenza che rende la realtà sempre una possibilità.

In tante occasioni mi è capitato di trovarmi ad affrontare circostanze per me nuove, di doverle affrontare io. Responsabilità verso delle persone, responsabilità economiche, e circostanze che accadono e di fronte alle quali devi decidere se starci o abbandonare. Sempre e solo il sapere di non essere solo, di avere la certezza di amici ai quali raccontare, con i quali confrontarmi, fino a trovare il perdono di Dio per ricominciare, ti permette non solo di imparare, ma di scoprirti capace. Solo Cristo presente, perché “La realtà a volte non ci risparmia nulla, però abbiamo un metodo per affrontarla: Cristo presente attraverso alcuni volti di umanità imperfette”, questo messaggio ricevuto da una giovane amica qualche tempo fa, dice bene del cammino di scoperta che possiamo fare quest’anno – don Fabio, 1 sett. 2024

 
 
 
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