Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

 

Le donne e la libertà

Post n°4115 pubblicato il 16 Aprile 2025 da namy0000
 

2025, Avvenire, 15 aprile

Vite cambiate. Dal carcere al bistrot: le donne e la libertà al sapore di caffè

A Napoli, una cooperativa tutta al femminile, offre lavoro e dignità a donne in esecuzione penale: tra torrefazione, bistrot e cioccolateria, il caffè diventa occasione di riscatto

«Il profumo del caffè appena tostato arrivava fin dentro le nostre stanze. Mi sono chiesta: da dove viene questo profumo? È inseguendo quell’aroma che ho conosciuto le Lazzarelle, e questo è il mio quarto anno di lavoro». Incontro Anna alla Galleria Principe di Napoli, uno dei luoghi simbolo della città - oggi un po’ decaduto - per molto tempo porta d’ingresso al centro storico e ancora oggi luogo di passaggio per i turisti che vanno a visitare il Museo archeologico. Beviamo un caffè seduti a un tavolino del bistrot della cooperativa Lazzarelle, che dà lavoro ad alcune donne detenute nella Casa di reclusione di Secondigliano.

«Quando sono entrata in carcere, dieci anni fa, mai avrei immaginato di avere una possibilità come questa perché la mia vita potesse ripartire - racconta Anna -. Ero proprio depressa, ora mi sento protagonista, ho ritrovato la speranza e sono diventata "contagiosa" verso le altre donne. Mi dicono che sono strana perché vedo sempre il lato positivo delle cose. Non sono strana, sono convinta che Dio ci regala sempre una possibilità anche quando tutto intorno sembra andare male. E allora cambia il modo con cui guardi la vita. È proprio quello che è accaduto a me». Prima di lavorare al bistrot si occupava della torrefazione del caffè nel carcere femminile di Pozzuoli, chiuso dal maggio dell’anno scorso a causa dei ripetuti episodi di bradisismo che da tempo tormentano la zona e hanno causato il trasferimento delle detenute a Secondigliano.

«Il caffè è come il Vesuvio: è l’anima di Napoli, un rito, un’istituzione. Ma per me ha un valore speciale, è stato il trampolino per spiccare il salto verso nuovi orizzonti. Ho ripreso pure a studiare, manca poco alla laurea in Economia e Commercio, quando arrivo a fine pena potrò giocare le mie carte sul mercato del lavoro e stare alla larga dalla tentazione di ricadere nei brutti giri che mi hanno portato alla detenzione». Da un anno Anna ha ottenuto la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere: è in affidamento, di giorno lavora al bistrot e la sera dorme a casa dei genitori. «I chicchi del nostro caffè parlano di riscatto, di vite cambiate, come la mia. Il carcere me lo sono meritato, non lo nego, ma proprio quel luogo di sofferenza è diventato l’occasione per una svolta, grazie all’incontro con persone che mi hanno accompagnato a prendere atto dei miei errori e a riscattarmi: educatrici, psicoterapeuti e Imma che mi ha assunto alle Lazarelle, di cui sono pure diventata socia».

Anche per Katia l’incontro con le Lazzarelle - un nome partenopeo-doc scelto per la cooperativa sociale tutta al femminile fondata da Imma C. - è diventata una tappa importante lungo un percorso di cambiamento dopo un’esistenza complicata. Cresciuta in un contesto malavitoso, la madre e i due fratelli in galera, due figli da mantenere, finisce anche lei in carcere dodici anni dopo avere commesso un reato che la Cassazione aveva riconosciuto come associativo. Ma intanto nel carcere di Pozzuoli aveva cominciato a percorrere un’altra strada. «Mi sono iscritta alle scuole superiori, ho scoperto il piacere della lettura - io che non avevo mai preso in mano un libro -, mi sono buttata a capofitto nel laboratorio di teatro e mi dicono che sono pure brava. Chissà, quando esco magari posso provare con la recitazione… Alle Lazzarelle lavoravo il caffè e ho fatto anche il corso di cioccolateria, è stato bellissimo imparare a produrre le uova di Pasqua. Tu non puoi immaginare l’emozione provata quando ho ricevuto lo stipendio: era la prima busta paga della mia vita. Prima lavoravo solo in nero e mi pagavano una miseria. Purtroppo a maggio a causa del terremoto hanno chiuso il carcere di Pozzuoli e la torrefazione si è fermata. Ma spero tanto che possano presto riaprirla a Secondigliano, dove mi hanno portato».

Ci spera tanto anche Immacolata C., per tutti Imma, donna esuberante e vulcanica quanto il Vesuvio, fondatrice e amministratrice della cooperativa sociale Lazzarelle che nel 2010 ha iniziato la produzione di caffè artigianale secondo lantica tradizione napoletana allinterno del carcere femminile di Pozzuoli. Dopo la chiusura causata dal bradisismo dei Campi Flegrei, la cooperativa si appoggia presso una torrefazione locale in attesa che venga aperto il laboratorio nel carcere di Secondigliano dove è stata allestita una sezione femminile.

«All’origine della nostra avventura ci sono tre idee: ribaltare il luogo comune che la produzione del caffè sia qualcosa di riservato agli uomini - i torrefattori - tanto è vero che la versione femminile (torrefattrice) si riferisce solo alla macchina che tosta il caffè e non alle donne che ci lavorano. Inoltre puntiamo sulla lavorazione artigianale secondo l’antica tradizione napoletana e produciamo miscele che provengono dalla filiera del commercio equo e solidale: così abbiamo creato un’alleanza tra le donne detenute e i piccoli produttori di caffè del Sud del mondo. Con queste premesse desideriamo creare opportunità lavorative per le nostre donne e retribuirle con i proventi della cooperativa. In 15 anni abbiamo assunto 80 donne e l’80 per cento dopo la scarcerazione ha trovato un’occupazione regolare. Le loro storie raccontano quanto pesano sull’ingresso in carcere i contesti degradati da cui provengono, la povertà educativa, il fatto di essere diventate mamme giovanissime. Creando occasioni di lavoro si seminano buone pratiche per l’inclusione sociale, si aiutano le persone a riconquistare autonomia e dignità e si rigenera la speranza».

Negli anni il fiuto imprenditoriale e la tenacia di Imma hanno trovato nuove opportunità per sviluppare la cooperativa. Al bistrot della Galleria Principe lavorano tre donne in esecuzione penale esterna, quattro svolgono attività di catering per l’Università Federico II e per l’Orientale, altre due gestiscono la buvette del Grenoble, il palazzo dove ha sede il Consolato francese, cinque sono addette alle pulizie in alcuni B&b del centro storico. La cooperativa produce anche tè, tisane, bomboniere, tazzine, ceramiche artigianali e altri manufatti acquistabili online. «Ma il cuore dell’attività resta il caffè, simbolo per eccellenza della nostra napoletanità e del legame con il territorio. Un giorno, mentre lo stava macinando, una donna ha detto "questo caffè profuma di libertà". È proprio così: nella torrefazione le donne si sentono valorizzate, cresce la loro autostima, si ritagliano un ruolo autonomo in un’istituzione totalizzante come il carcere, mettono le basi per un ritorno da protagoniste nella società. Attualmente alcune di loro lavorano a imbustare il caffè prodotto da una torrefazione con le materie prime provenienti dal Sud del mondo, in attesa che a Secondigliano - grazie all’ottima collaborazione con la direzione - sia possibile riaprire la torrefazione nella sezione femminile».

Nel 2023 il presidente Mattarella ha insignito Imma C. del titolo di Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana «per il suo impegno nella valorizzazione del lavoro delle detenute allinterno del carcere offrendo loro una opportunità di riscatto per una vita diversa dopo la detenzione». In questi giorni nella cioccolateria allestita nel bistrot della Galleria Principe si lavora alacremente per produrre le uova di Pasqua delle Lazzarelle: un segno di rinascita da offrire alla città, insieme a una buona tazzulella ‘e cafè”.

 
 
 

Viaggiare

2025, Avvenire, 28 marzo

Il viaggio verso Itaca, metafora della vita

Quello che conta è come viviamo la strada. È l’apertura autentica all’altro e l’ascolto profondo dei luoghi attraversati che trasforma la nostra esistenza in un percorso di umanizzazione

L’individualismo crescente e la perdita progressiva di valori condivisi stanno determinando una frammentazione sociale sempre più evidente, favorendo la ricerca di leadership forti e l’influenza di poteri economici sulla costruzione di un’identità collettiva. Anche le comunità cristiane risentono di queste dinamiche, manifestando una privatizzazione della fede e difficoltà nel coltivare forme autentiche di comunione. È necessario proporre un modello di unità nella diversità, che valorizzi la pluralità culturale e la ricchezza del Vangelo senza imporre uniformità, ispirandosi al Sinodo e all’immagine del poliedro. Le comunità cristiane possono così diventare un riferimento di coesione nella diversità. Di questo si occupa il dossier Pluralità delle culture e comunità proposto da “Dialoghi” curato da Giacomo Canobbio e Francesco Miano con contributi di Piero Pisarra, Giuseppe Lorizio, Vito Mignozzi, Simona Segoloni Ruta, Luigi Alici, Gennaro Ferrara, Barbara Ghiringhelli, Raffaella Iafrate. Oltre al dossier il trimestrale culturale promosso dall’Azione cattolica italiana, edito dall’Editrice Ave e diretto da Pina De Simone (della quale anticipiamo qui l’editoriale), offre contributi di Gianni Borsa, Claudio Giuliodori, Paolo Cavana, Stella Morra.

Itaca

Se ti metti in viaggio per Itaca
augurati che sia lunga la via,
piena di conoscenze e d’avventure.
Non temere Lestrigoni e Ciclopi
o Posidone incollerito:
nulla di questo troverai per via
se tieni alto il pensiero, se un’emozione
eletta ti tocca l’anima e il corpo.
Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi,
e neppure il feroce Posidone,
se non li porti dentro, in cuore,
se non è il cuore a alzarteli davanti.
Augurati che sia lunga la via.
Che siano molte le mattine estive
in cui felice e con soddisfazione
entri in porti mai visti prima;
fa’ scalo negli empori dei Fenici
e acquista belle mercanzie,
coralli e madreperle, ebani e ambre,
e ogni sorta d’aromi voluttuosi,
quanti più aromi voluttuosi puoi;
e va’ in molte città d’Egitto,
a imparare, imparare dai sapienti.
Tienila sempre in mente, Itaca.
La tua meta è approdare là.
Ma non far fretta al tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni;
e che ormai vecchio attracchi all’isola,
ricco di ciò che guadagnasti per la via,
senza aspettarti da Itaca ricchezze.
Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.

Konstantinos Kavafis

Non pretendiamo di dare un commento letterario della celebre poesia di Konstantinos Kavafis; non proveremo neppure a darne una esegesi fondata sulla dettagliata conoscenza della vita e delle opere del suo autore. Lasceremo piuttosto che questi versi ispirino la nostra riflessione sul viaggio che è la vita stessa e sugli incontri che ne segnano l’andare.

Nel tempo del turismo di massa, del consumo dei luoghi e delle tradizioni, secondo la logica del mordi e fuggi, vorremmo riproporre il valore del viaggio come incontro.

C’è una forza di apertura, una potenza di coinvolgimento nel viaggiare. Metafora della vita è il viaggio. E anche in questo nostro tempo attraversato più che dal disorientamento, da un senso di profondo straniamento, il viaggio, il come del nostro viaggiare, esprime quello che siamo, la percezione del reale e dell’umano che ci portiamo addosso, il nostro modo di rapportarci alle cose e agli altri, il senso che abbiamo di noi stessi.

È difficile trovare qualcuno che non abbia mai viaggiato. Si viaggia per turismo o per affari, per lavoro o per studio. Ci si sposta da un luogo all’altro per vacanza, per scoprire luoghi diversi da quello in cui si vive e goderne le bellezze. Oppure ci si sposta in altri luoghi per poter condurre la propria esistenza negli impegni che la declinano e che contribuiscono a darle forma. C’è chi viaggia anche tutti i giorni, come i tanti pendolari che incontro nella stazione dei treni ad alta velocità sul fare del giorno, quando albeggia e il cielo all’orizzonte si tinge di vividi colori. Si viaggia; e ciascuno porta con sé la propria storia, gli affetti e le ansie, i desideri e le angosce.

Potremmo chiederci, però, quanto questo viaggiare ci trasformi, quanto l’immagine dell’homo viator si addica ancora all’homo turisticus o al pendolare del nostro tempo. I luoghi che si attraversano ogni giorno o quelli a cui approdiamo nella nostra ricerca di distensione, quelli in cui trascorriamo le ore talvolta frenetiche del lavoro rischiano di essere uno scenario anonimo che non entra realmente nelle nostre vite senza luogo, senza più un luogo che dia ad esse radici, e incapaci di stare in luoghi altri se non come ospiti distratti.

Il video terribile, che è rimbalzato sui social, di una Gaza trasformata in riviera turistica di alto lusso ci restituisce l’immagine sconvolgente di quello che può diventare non solo il potere illimitato del denaro, ma una modalità di relazione ai luoghi totalmente determinata dalla logica del consumo. Nessuna capacità di lasciarsi toccare dai luoghi; nessuna volontà di ascoltarne la storia, di avvertirne il dolore, il dramma e la speranza; nessuna disponibilità a saper riconoscere quanto essi hanno di proprio, la fragilità e la forza, le ferite e le potenzialità di bene. Vale il principio di riscrivere la realtà, di riconfigurare i luoghi a partire da sé, dai propri interessi e dalla propria visione del mondo.

Certamente noi non siamo Trump e neppure uno qualsiasi dei plutocrati che lo affiancano in questa folle e pericolosa gestione del potere e delle vite degli altri. Ma possiamo chiederci quanta reale volontà di scoperta e di ascolto conduce il nostro viaggiare.

Quanto il viaggio sia metafora di una vita, la nostra, realmente aperta all’incontro con l’altro. «Augurati che sia lunga la via» non vuol dire semplicemente augurarsi che il viaggio non finisca rapidamente, ma che esso sia “via”: cammino che apre e si apre alla novità inedita e mai riducibile dell’incontro con altri e con altro. Non tutto nell’altro può essere riconosciuto come bene, ma in molti casi il pericolo che in lui vediamo è una proiezione delle nostre paure che può divenire così grande da non permetterci di percepire null’altro.

Il viaggio di per sé espone al pericolo, reca in sé il rischio che è nel muoversi e senza il quale non vi sarebbe vita ed esperienza, ma solo una difesa esasperata delle proprie sicurezze che produce stasi, rigidità, se non addirittura aggressività.

Si può viaggiare rimanendo immobili, restando attaccati spasmodicamente a sé stessi ai propri schemi mentali e culturali. E si può vivere la fecondità del viaggiare nella ordinarietà delle proprie giornate. «Le mattine estive in cui felice […] entri in porti mai visti prima» possono essere vissute lì dove siamo, se solo impariamo a guardarci intorno e ad avvertire la vita intorno a noi, a riconoscere la presenza degli altri e dell’altro. I luoghi che ogni giorno attraversiamo sono “luoghi di vita”, non mero spazio geometrico i cui punti si corrispondono in una perfetta uniformità.

Sono “luoghi” che raccontano storie. Lo spazio prende forma e si configura a partire da queste storie, nell’intreccio inscindibile con il tempo dei vissuti. Le storie sono plurali e differenti, ma sono anche inscindibilmente legate tra loro negli infiniti rimandi di una interdipendenza che è nei fatti prima ancora e oltre la consapevolezza che ne abbiamo. È dentro questo intreccio, che Paul Ricoeur chiama “intrigo”, che dobbiamo imparare a muoverci e a stare. Abitare i nostri luoghi vuol dire imparare l’arte del viaggiare attraverso i luoghi della vita, la loro complessità, saper stare nella pluralità che è la cifra delle nostre comunità ed è anche ciò senza di cui non si dà autentica vita comunitaria. Le «mercanzie» da “acquistare”, «coralli e madreperle, ebani e ambre», «aromi voluttuosi» non sono beni da saccheggiare, ma ricchezze da riconoscere e di cui godere. Quanto sarebbe liberante e quanto sarebbero più ricche le nostre esistenze se sapessimo riconoscere il dono che è nell’altro, apprezzare ciò che ha di più proprio, gioire di quanto è nelle sue capacità senza misurarlo in rapporto a noi, renderlo a noi funzionale o scimmiottarne la diversità riducendola a folklore. Accade nei viaggi in paesi lontani, nell’incontro con mondi culturali diversi dal nostro, ma accade purtroppo anche nel nostro quotidiano viaggiare in città sempre più plurali, tra luoghi sempre più in movimento. Fili che si intrecciano in disegni di vita complessi sono le nostre città, ma anche mondi separati che non comunicano, come è per tante periferie ai margini o al cuore delle città.

«Augurati che sia lunga la via» allora: perché la bolla che ci avvolge si spezzi, perché possiamo imparare dall’altro nel mutuo riconoscimento che fa essere ciascuno sé stesso e perciò dono per l’altro.

Ed è in tal senso che l’interculturalità appare come la direzione secondo cui pensare le nostre città multietniche, lasciando che tanti emergano dall’invisibilità in cui li releghiamo e contribuiscano a disegnarne il volto. Ma anche le nostre comunità ecclesiali devono potersi pensare in rapporto alla pluralità delle vocazioni, dei doni, delle culture.

È la provocazione, per tutti, a “mettersi in viaggio”, sapendo che solo così si può tornare a «Itaca». Si può comprendere sé stessi – le proprie radici, la propria cultura, la propria fede, ma anche ciò che si è e si anela ad essere – solo andando verso l’altro, arricchendosi di ciò che si è guadagnato per la via. Solo se si sa viaggiare veramente si può capire «Itaca».

Nulla ci è dato perché diventi possesso escludente o motivo di contrapposizione. È questo il segreto di un’autentica vita comunitaria e di un’esistenza che voglia dirsi umana.

 
 
 

Adolescence

2025, 28 marzo

Girato nel Regno Unito

Serie tv. Perché dopo averla vista, tutti hanno bisogno di parlare di «Adolescence»

Lavorando sui sensi di colpa che attraversano ogni genitore di oggi, la violenza del racconto è mostrare la deriva di una società in cui non esiste più una comunità educante.

Il vero motivo per cui tutti in questi giorni stanno parlando di Adolescence, la miniserie di Netflix che racconta la vicenda di un ragazzino di 13 anni accusato dell’omicidio di una coetanea e compagna di scuola, non risiede probabilmente nella sua elevata qualità di regia e recitazione, e nemmeno nella complessità del tema affrontato, aspetti che in ogni caso ne stanno decretando uno straordinario successo.

La ragione più profonda che tiene sulla bocca di tanti la storia del giovane Jamie è legata al fatto che dopo aver visto la serie per intero si manifesta pressante il bisogno di parlarne. Perché è necessario liberarsi di qualcosa, trovare il modo di espellere il disagio condividendolo, superare il trauma attraverso le parole e lo scambio. Adolescence è sì un pugno nello stomaco, come in tanti hanno rilevato – o meglio, sono quattro cazzotti, quante le puntate della serie – ma è soprattutto una forma di abuso, un racconto talmente disturbante per un genitore da richiedere di essere elaborato il prima possibile.

Ricordare di cosa parli la serie – per inciso: merita il successo che sta ottenendo – è persino superfluo, se lo spaccato di società nella quale si è condotti da una telecamera che una volta accesa intrappola per l’intera puntata, è una dimensione umana nella quale nessuno sembra fare la cosa giusta. È tutto sbagliato in Adolescence, tutti commettono a loro modo una forma di violenza nel momento in cui nessuno si prende veramente cura di qualcuno, celebrando il fallimento delle istituzioni che fondano una comunità.

Nel mondo quasi distopico di Adolescence ogni cosa è fuori posto, niente è come vorremmo che fosse in una società ideale: le forze di polizia, la scuola, i vicini di casa, gli studenti, gli amici, i ragazzi del quartiere, il commesso del negozio, persino la psicologa arriva a istituzionalizzare la rinuncia. E ovviamente la famiglia, perché se c’è un problema a casa è certamente “colpa” della famiglia.

Ecco la sottile forma di violenza, un abuso oggi probabilmente necessario, che Adolescence arriva a esercitare su ogni genitore: infilare il dito nella piaga di tutti i possibili sensi di colpa capaci di attraversare un padre e una madre contemporanei, terrorizzati dalla possibilità che il male possa entrare in casa propria senza bussare, pervasi dalla convinzione di essere soli nello sforzo quotidiano di provare a svolgere bene il proprio compito. Anzi: a dare “il meglio”.

Eppure, la famiglia è probabilmente l’unica meritevole di umana assoluzione in un mondo che ha abdicato alla responsabilità della cura e dell’educazione, non solo dei propri figli, ma di tutti i suoi figli, e dove la bolla parallela e oscura dei social che animano gli smartphone ricorda tanto il Signore della notte del Cipì di Mario Lodi, l’uccello anziano e da tutti considerato saggio, che in realtà divora i raggi della luna, la luce e il futuro dei piccoli.

Tra le molte possibili frasi emblematiche, una centra benissimo questo aspetto della solitudine dei genitori, e a pronunciarla è il papà del giovane protagonista: «Mio padre mi ha cresciuto a cinghiate, io avrei voluto fare di meglio». Già, ma cosa c’è tra le cinghiate e il meglio? Nessuno lo sa veramente, nella crisi dei punti di riferimento, non bastano certo le parole e il dialogo, e ascoltare gli esperti può essere disorientante quando attorno c’è un deserto.

La violenza di Adolescence è mostrare la deriva possibile di una società in cui non esiste più una comunità educante. Per questo, accompagnati nella desolazione in tutta la sua aridità, abbiamo bisogno di parlarne. E allora facciamolo, ma anche per ricordarci che la vita reale non è solo buio, che nessun destino è preordinato, e che là fuori c’è molta più speranza di quanto una serie tv, di matrice anglosassone, possa raccontare. Consideriamolo un avvertimento, insomma.

 
 
 

Abbiamo sette vite

Abbiamo sette vite, spendiamole bene

di Marcello Veneziani17 Marzo 2025

A causa di un incidente annuale, di natura personale e universale, chiamato compleanno, ho avuto di recente brevi conversazioni e scambi di messaggi sulla vita che passa e il suo senso. È un incidente inevitabile, il compleanno, ma non compierlo è decisamente peggio, come ben sappiamo. Più gli anni passano e più s’impreca con gratitudine… Pur nella sua banale contabilità è un’occasione nella fuga dei giorni e degli anni per ripensare la vita e il suo destino.
Ogni uomo dispone di sette vite ma non sono quelle proverbiali che si attribuiscono ai gatti e che vengono una dopo l’altra. Le vite a cui mi riferisco sono simultanee e insieme formano la nostra esistenza; sono i sette raggi che formano la ruota dell’esistenza. Le sette vite davanti a noi sono nell’ordine: la vita corporale, la vita naturale, la vita lavorativa, la vita affettiva, la vita sociale, la vita intellettuale, la vita spirituale.
La vita corporale è la vita biologica per antonomasia, base elementare per vivere. La vita come bisogno, come salute, come fame, sete, sesso, sensi. Vita necessaria ma non sufficiente se siamo uomini e non bruti. Strettamente connessa alla vita corporale ma con uno sguardo fuori di sé è la vita naturale, immessi nel mondo, a partire da ciò che ci circonda. La natura come terra, cielo, mare, campagna, pietre, piante, animali e sole, vento, pioggia. La natura è il nostro habitat e insieme il nostro limite, l’ordine primario in cui siamo inseriti; la natura è tutto quel che non nasce da noi ma di cui pure abbiamo bisogno.
La vita lavorativa è invece la vita attiva in cui ci procacciamo da vivere, che ci nobilita nello sforzo, ci rende proficui, utili agli altri e che plasma le circostanze. La vita lavorativa è la vita come dovere e come diritto, la vita che ci impegna a dare per ricevere, la vita come fatica e nei casi migliori come piacere di realizzarsi.
Connessa alla vita lavorativa è la vita sociale, ossia la relazione con gli altri, a partire dai compaesani o concittadini, ovvero i conterranei, i compatrioti, e per altri versi i contemporanei. La vita di relazione è da un verso la dimensione interpersonale di scambio in cui la sfera privata interagisce con la sfera pubblica; e dall’altro dimensione comunitaria, quando cioè la società non è semplicemente uno stare insieme, avere spazi e interessi comuni, ma è anche un sentirsi parte di uno stesso gruppo, partecipare a un’identità comune, un’origine e un orizzonte condiviso; se la società è un ambito neutro e freddo, la comunità è un insieme caldo, riferito a comuni valori o principi; sfera naturale, selettiva ed elettiva di appartenenza.
La vita affettiva segna il passaggio decisivo verso la cura degli altri; è lo slancio che nasce dal sentimento e ci proietta fuori di noi, a partire da chi avvertiamo come più vicino e dunque più caro: i genitori, i figli, i fratelli, in generale i famigliari, la persona amata, gli amici. Una vita priva di affetti è una vita dimezzata, svuotata di energie e di emozioni. Nella vita affettiva l’amore si fa legame, attenzione e premura verso persone di cui senti la gioia della presenza e il piacere della loro prossimità; o di cui avverti il vuoto, la mancanza, quando sono assenti o perduti.
La vita intellettuale è propriamente la vita interiore, o la vita della mente; non attiene solo a chi svolge un’attività intellettuale ma in varia misura e profondità a tutti gli esseri pensanti. La vita della mente è la vita interiore, dei pensieri e della memoria, dei ricordi e delle aspettative, che fa tesoro delle esperienze e delle eredità; è la vita della coscienza, la vita che riflette, intuisce, crede, si orienta sulla base di principi, valori, modelli, senso critico.
Infine, strettamente connessa alle due vite precedenti, è la vita spirituale che è poi il faro dell’esistenza, il punto di osservazione più alto che scruta lontano, illumina nel buio, indica la rotta e consente i ritorni. La vita spirituale è la vita dell’anima, il punto di raccolta del sentimento e del pensiero in una sintesi superiore che si affaccia oltre la morte; è il punto supremo della nostra vita e al tempo stesso il ponte per trascenderla, cioè per andare oltre la dimensione personale dell’esistenza.
Le sette vite insieme costituiscono l’intera nostra vita; nessuna singola dimensione basta alla vita: ciascuna ha bisogno dell’altra, anzi ognuna ha bisogno di tutte le altre vite per compiersi e per sviluppare organicamente la vita armoniosa. Ci sono sfere di vita necessarie, altre importanti o significative; ma nessuna da sola è sufficiente. Se a una vita manca qualcuna delle sette vite è monca, carente; quando la mancanza riguarda le dimensioni più alte è una vita insensata, che cade nel vuoto.
Una parte crescente di queste sette vite rischia di atrofizzarsi per il disuso o il vivere ottuso. È il pericolo estremo della nostra vita e coincide con la disumanizzazione o la sostituzione dell’umano.
Necessario è tener vivi dentro di noi la percezione della realtà, il senso di appartenenza alla natura, il senso attivo della relazione col mondo a partire da chi ci è più vicino; i legami affettivi e lavorativi, sociali e comunitari, il senso della civiltà, dell’umanità e della responsabilità; la vita del cuore e della mente.
Insomma possiamo cercare di mettere a frutto quel banale anniversario che è il compleanno per compiere un check-up (o forse un check-in) alla nostra vita nei suoi sette raggi, verificando che siano tutti attivi, non inerti. E unire l’origine al destino, compiendo il cerchio dell’esistenza.

(Panorama n.12)

 
 
 

Io influencer?

2025, FC n. 11 del 16 marzo

Io influencer? In fondo lo siamo un po’ tutti.

Ogni nostra azione, anche la più piccola, ha un impatto sugli altri, dice fra Stefano Bordignon, star su YouTube con oltre mezzo milione di iscritti al suo canale. Con le mie meditazioni on line cerco di contrastare il grande male di oggi: la solitudine.

«Gestivo una birreria in cui ero sempre a contatto coi giovani. Era divertente, ma spesso quel divertimento diventava “scomposto”. Spesso mi sembrava di perdere solo tempo. Ho vissuto una vera e propria crisi umana e ho cercato di colmare questo vuoto interiore partendo dal Vangelo. Ho cominciato a leggerlo e ho scoperto un Gesù totalmente diverso da come lo immaginavo. Grazie a lui, la mia vita ha preso un significato più grande». È iniziato così il cammino spirituale che ha portato fra Stefano Bordignon ad abbracciare la vita religiosa, entrando nell’ordine dei Servi di Maria. (…) Ha raccolto queste meditazioni nel libro Abbi cura di te. Riscopri la bellezza di vivere (Piemme). «Coi miei contenuti desidero che le persone, attraverso la fede, trovino del tempo per se stesse. Spesso siamo stressati dai ritmi intensi della vita, sempre proiettati a guardare al di fuori di noi, e invece è importante guardare dentro, pregare, fare una meditazione, ascoltare il Vangelo».

«Ho vissuto questo successo con grande gioia e altrettanta sorpresa. Mi fa piacere che le riflessioni quotidiane che propongo vengano accolte con favore da così tante persone. E qui arriva la sorpresa: non mi aspettavo che ci fossero tante persone con una “sete” spirituale così forte. Guardando alle nostre chiese e alle forme tradizionali d’evangelizzazione, si può avere l’impressione che la fede si stia desertificando, ma non è affatto così. Basta trovare, come ho fatto io nel mio piccolo, nuovi modi per portare la Parola del Signore e condividere con gli altri la gioia della fede». «La tecnologia offre tanti nuovi strumenti e ce ne offre sempre di più in futuro. Ci saranno dei cambiamenti, ma non credo che si arriverà a una “saturazione” vera e propria. Io faccio il possibile per cercare di annunciare il Vangelo nel migliore dei modi, di portare del bene alle persone. Spero che, anche grazie ai social, arrivi una nuova generazione che riesca a conquistare l’animo delle persone. Ci sono sempre spazi e modi nuovi per farlo. L’importane è che ognuno porti la verità di ciò che è. Io, per esempio, ho portato la mia semplicità e questo è piaciuto a tanti».

«Nel libro ci sono due riflessioni sui problemi della società: la difficoltà di riconoscere il valore della dignità dell’essere umano e la solitudine, un problema condiviso da tanti, purtroppo. Con la mia opera, cerco di infondere speranza e coraggio in tutti coloro che si sentono abbandonati. Dio non abbandona mai e l’ascolto della sua Parola fa scoccare una scintilla nell’anima». 

 
 
 
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