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Messaggi del 05/07/2017

Ha trovato le tracce

Post n°2267 pubblicato il 05 Luglio 2017 da namy0000
 

A Misurata, Chivers ha trovato le tracce delle munizioni proibite, usate da Gheddafi, ma non sapeva quando erano state prodotte e come erano arrivate in Libia. Il modo migliore di scoprirlo era trovare le postazioni da cui erano state lanciate. Così ha esaminato le posizioni dell’esercito lungo Tripoli street, la stessa strada dove tre giorni prima erano morti i suoi amici fotografi Chris Hondros e Tim Hetherington, ma senza trovare i documenti né le casse che gli servivano per ricostruire il percorso delle munizioni. Poco dopo la fine dell’assedio, Chivers stava camminando sulle colline intorno a Misurata. Procedeva in modo metodico, affidandosi alla propria esperienza militare per ipotizzare dove potevano essere stati piazzati i mortai. Lui e il suo traduttore Hadi si trovavano in territorio amico. Sentendosi al sicuro, Chivers si è tolto l’elmetto prima di uscire dal furgone. Non lo faceva quasi mai, e soprattutto non lo aveva mai fatto in quella brutta guerra, in cui due suoi amici erano appena stati uccisi. Seguiva una disciplina ferrea in materia di sicurezza, perché oltre a voler portare a casa la pelle, si sentiva eticamente tenuto a proteggersi. “Se resti ferito, un gruppo di soccorritori deve venire ad aiutarti invece di pensare a qualcun altro. È una regola del giornalismo di guerra. Devi cercare di non intasare ulteriormente il meccanismo dei soccorsi”. E così, mentre si toglieva l’elmetto, Chivers ha fatto caso a quello che stava facendo. Dopo 10 anni di questo mestiere, era diventato “una macchina d’osservazione robotica”, perché “se cominci a pensare a te stesso e a come ti senti, non puoi più fare il tuo lavoro. A nessuno importa niente di come ti senti”. In quel momento, mentre appoggiava l’elmetto nel furgone, Chivers era sicuro. “Non morirò oggi. Non è pericoloso qui”. Un’altra regola del giornalismo di guerra è che se qualcuno vuole andarsene allora bisogna andarsene. Se sei insieme a qualcun altro, e stanno sparando, e un collega ti dice che è ora di andare via, allora andate via. In Siria, nel 2013, Chivers e il fotografo Bryan Denton stavano guidando verso il fronte proprio mentre l’esercito bombardava quella strada. “È stato spaventoso”, ricorda Denton. “È stata una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto troppa paura per lavorare. Chris invece era calmo. A un certo punto mi ha chiesto: ‘Vuoi andare via?’, e io ho risposto ‘Sì, devo andare via da qui. Non riesco a lavorare, sono paralizzato’”. Chivers ha mollato tutto e sono tornati indietro. Di solito Chivers non è uno che scappa dai posti pericolosi. L’11 settembre 2001 era a Manhattan, a pochi isolati di distanza dl World trade center. Aveva messo la sua unica cravatta, e stava seguendo le primarie per l’elezione del sindaco di New York, quando il suo cercapersone impazzì. Chivers si mise a correre verso i grattacieli in fiamme, e arrivò giusto in tempo per rischiare di essere ucciso dal crollo della torre sud (9:59), e poi da quello della torre nord (10:28). Da quel momento, rimase per 12 giorni nella zona del disastro. Poche settimane dopo, era in Afghanistan. Quattordici anni di giornalismo di guerra, sempre a un passo dal farsi ammazzare. Ha scritto centinaia di articoli da decine di luoghi. Le sue abilità di giornalista sono cresciute parallelamente alla sua modestia. “Il lavoro non è un granché. Solo qualche buona storia”. Chivers è famoso nell’ambiente per la sua capacità di restare impassibile nelle situazioni più terrificanti. Conosce la gittata delle armi e le probabilità d’impatto. Capisce quando la posizione in cui si trova rischia di essere presa d’assalto, e spiega ai colleghi come valutare queste situazioni. Denton ricordale sue spiegazioni tecniche: “Quello è un missile, non un razzo. La propulsione di un missile dura per tutto il volo, quella di un razzo finisce dopo il lancio”. Quel giorno, a Misurata, Chivers ha continuato a cercare sulle colline, ma non ha trovato niente. Ricorda di aver guardato l’orologio r aver pensato che era meglio tornare indietro. Quel pomeriggio era stato una perdita di tempo. Lui e Hadi erano quasi alla macchina, quando il cielo si è riempito di un boato. “Conoscevo quel rumore, perché avevo assistito a molti attacchi aerei”. Ma Chivers non era mai stato il bersaglio di un attacco aereo. Il suono era quello di una bomba da 250 chili, lanciata nel vano di un ascensore, con lui in fondo. In quel momento ha pensato soltanto: “Bombardamento. Morto”. La bomba è caduta di fronte a Chivers e Hadi. L’onda d’urto li ha sollevati e fatti volare all’indietro. Chivers è atterrato sul petto, ferendosi al viso e alle braccia. Ricorda di essere rimasto sorpreso dal fatto che riusciva ancora a pensare: “Questa roba solleva un sacco di detriti. Ok, sono sopravvissuto, ma c’è sempre la possibilità di prendersi in testa un paraurti”. Appena ha toccato terra, Chivers si è girato sulla schiena e ha guardato il cielo. Niente oggetti in volo. Hadi sembrava illeso. I due si sono alzati in piedi, ma nessuno riusciva a sentire le parole dell’altro. Chivers sapeva che spesso, dopo un attacco aereo, ne arriva subito un altro. Sapeva anche che gli obiettivi ancora in movimento sul campo, dopo un attacco, sono considerati particolarmente “fastidiosi”. I piloti li chiamano squirters, cioè quelli che sopravvivono al primo attacco e cercano di scappare, e quando li vedono, cercano di fare pulizia. “Dobbiamo andarcene subito”, ha gridato Chivers. Ha cominciato a gesticolare e a correre a zig-zag. La sua testa era pensante, e aveva una commozione cerebrale. Hadi ha preso il furgone, si è fermato vicino a lui, e gli ha gridato: “Sali! Sali!”. Chivers ricorda di aver pensato che era molto più facile colpire una macchina che un uomo, ma non c’era modo di convincere Hadi a scendere, quindi è salito a bordo. I ribelli al posto di blocco, che si trovava 150 metri più avanti, sono rimasti sorpresi nel vedere il furgone emergere dalla nube di polvere sollevata dal bombardamento. Uno di loro si è avvicinato a Chivers e gli ha detto: “Grosso botto, mister. Ancora vivo?”. 

 
 
 

Caino e Abele

Post n°2266 pubblicato il 05 Luglio 2017 da namy0000
 

Caino e Abele e il contrasto familiare. “Era felice Eva quando aveva dato alla luce il suo primogenito: ‹‹Ho acquistato un uomo grazie al Signore!››. E il nome dato al bambino, Qajin-Caino, voleva liberamente ricalcare proprio il verbo “acquistare”, in ebraico qanah, secondo una locuzione in uso anche in alcune forme dialettali contemporanee che parlano di “comperare un figlio” non in senso mercantile ma generativo. Poco dopo, Eva partoriva un secondo figlio, il cui nome Abele avrebbe riassunto in ebraico la sua tragica storia: habel/hebel, vocabolo caro al sapiente biblico Qohelet, allude al soffio, al fumo che evapora e svanisce.

Nella nostra ideale galleria di figure bibliche giovanili non poteva mancare questa coppia di fratelli, la cui vicenda purtroppo spesso si ripete nelle infinite violenze nascoste all’interno delle pareti domestiche. In realtà, in questi due personaggi non si annida solo il contrasto familiare, quello che per assonanza è proverbialmente detto lo scontro tra fratelli-coltelli. I due, infatti, incarnano anche professioni e stati di vita diversi e non di rado ostili anche oggi.

Caino è un sedentario, un agricoltore, anzi, sarà il primo costruttore di città. Abele, invece, è un  nomade, un pastore errante negli spazi liberi. Tra queste due visioni di vita scatta uno “scontro di civiltà”, ma alla radice c’è proprio la violenza giovanile e familiare che sfocia in un fratricidio. Noi ora ci soffermiamo solo su due componenti. La prima riguarda la causa di questa tensione che si esprime con la frase: ‹‹Dio gradiva Abele e la sua offerta›› (Genesi 4.4). La locuzione non deve far pensare a una parzialità divina, ma al fatto che con essa si definisce la prosperità, la serenità e la pace di una persona. Caino reagisce con gelosia al successo del fratello, nonostante il suo stato di vita così libero e ai suoi occhi disordinato: ‹‹Ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto›› (4,5). Ancora una volta è l’invidia per i beni e la felicità dell’altro a rodere il cuore e a far covare un fuoco che poi esplode nell’atto inconsulto dell’assassinio.

Infatti, il demone dell’odio prevale e sul terreno rimane un cadavere il cui sangue cola e sollecita l’intervento del testimone invisibile di quel delitto, Dio, che fa risuonare il suo rimprovero nella coscienza di Caino: ‹‹Dov’è Abele, tuo fratello?la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!›› (4,9-10).

Subentra, allora, la pena del contrappasso: Caino che detestava lo stile di vita nomade del fratello, è costretto ad abbandonare la sua terra e la sua casa divenendo ‹‹ramingo e fuggiasco›› (4,12).

È qui che si introduce un secondo elemento. Il Signore assume sotto la sua personale giurisdizione il peccatore: ‹‹Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte! Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato›› (4,15). Forse in questo “segno” ci si riferisce a un tatuaggio o alle acconciature dei capelli o alle insegne che nell’antico Vicino Oriente contraddistinguevano le tribù e i clan. Qui si alluderebbe all’emblema che contrassegnava i Qeniti, una tribù considerata discendente da Caino.

 

Tuttavia, la lezione finale è chiara: la giustizia divina deve fare il suo corso, ma l’ultimo atto non è della condanna a morte, bensì nell’attesa di una conversione. Dio che è l’arbitro della vita e della morte, anche di fronte a crimini efferati come quello perpetrato da questo giovane, ripete: ‹‹Io non godo della morte di chi muore… ma piuttosto che il malvagio desista dalla sua condotta e viva›› (Ezechiele 18,23.32). 

 
 
 

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