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Messaggi del 04/08/2017

Ha rivelato informazioni riservate

Post n°2298 pubblicato il 04 Agosto 2017 da namy0000
 

Chelsea Manning, che ha 29 anni, è tornata a vivere. Ha scontato 7 anni di carcere negli Stati Uniti per aver rivelato  informazioni riservate a Wikileaks. In prigione ha deciso di cambiare sesso. Ora è libera e pronta a raccontare tutta la sua storia. (…) Sembra in forma e in buona salute, anche se un po’ a disagio, come spesso succede alle persone che hanno passato molto tempo in carcere.

È stata rilasciata solo otto giorni fa, dopo aver scontato 7 dei 35 anni a cui è stata condannata per un reato che ancora oggi sembra incredibile: aver passato a Wikileaks, l’organizzazione fondata da Julian Assange, 250.000 dispacci diplomatici e 480.000 rapporti dell’esercito sulle guerre in Afghanistan e in Iraq. nel complesso è stata la più grande fuga di documenti riservati della storia statunitense, ha aperto la strada alle rivelazioni di Edward Snowden  e ha reso famoso Assange, all’epoca poco conosciuto fuori dell’ambiente degli hacker. “Senza Chelsea Manning”, mi ha detto di recente Philip J. Crowley, vicesegretario di stato statunitense dal 2009 al 2011, “Assange sarebbe stato solo un informatico indignato per l’egemonia degli Stati Uniti”. Per usare le parole di Denver Nicks, che ha scritto un libro su questa vicenda, con Manning è cominciata “l’implosione dell’era dell’informazione”, una nuova epoca in cui le fughe di notizie sono armi, la sicurezza dei dati è fondamentale e la privacy sembra diventata un’illusione.

Nel gennaio del 2017, dopo essere stata rinchiusa in 5 diversi penitenziari in condizioni che gli esperti delle Nazioni Unite hanno definito “crudeli” e “disumane”, Manning ha ottenuto a sorpresa una riduzione della pena dal presidente Barack Obama. Quattro mesi dopo è libera e cerca di adattarsi a vivere nel mondo che ha contribuito a cambiare. (…) “Nessuno ha raccontato tutta la storia”, mi dice, “tutta la mia storia”.

In mancanza della sua voce, si sono imposte due versioni della vicenda di Manning. Nella prima è descritta come una “traditrice ingrata”, per usare le parole del presidente Donald Trump, nell’altra come un’icona transessuale, una paladina della trasparenza e, come mi ha detto di recente Chase Madar, un ex avvocato autore di un libro sul caso, una “martire laica”. Ma per Manning sono due modi banali e semplicistici di raccontare la sua storia, se non altro perché lei stessa sta ancora cercando di capire il senso di quello che ha fatto 7 anni fa. Quando le chiedo cosa ha imparato da quell’esperienza, sembra a disagio. “Non lo so…”, risponde. “Negli ultimi 7 anni sono stata così occupata a sopravvivere che non ho avuto il tempo di pensarci”. Provo a insistere: deve essersi per forza fatta un’idea dell’effetto delle sue scelte sul mondo. “Dal mio punto di vista, è stato soprattutto il mondo a condizionare me”, risponde. “È stato un circolo vizioso”.

Manning ricorda che fin dai tempi in cui viveva a Crescent, all’estrema periferia di Oklahoma City, ha sempre avuto l’impressione di essere fuori posto, una sensazione costante che non riusciva a spiegare neanche a sé stessa, e meno che mai a Casey, la sorella maggiore, e ai genitori Brian e Susan. Durante una delle nostre interviste ho accennato al fatto che uno psicologo clinico ha paragonato la disforia di genere a un “mal di denti cosmico”. Manning è arrossita. È proprio così, ha detto. “La mattina, la sera, a colazione, a pranzo, a cena, dovunque ti trovi, non ti lascia mai”.

A cinque anni, Manning andò dal padre, che faceva il tecnico informatico alla Hertz, e gli disse che voleva essere una bambina, “fare le cose da bambina”. Lui, imbarazzato, le fece un lungo discorso sulle differenze anatomiche tra gli uomini e le donne. “Ma io non capivo cosa c’entrasse quello con i vestiti che portavi o le cose che facevi”, racconta Manning. Aveva cominciato a intrufolarsi di nascosto nella stanza di Casey per indossare i suoi jeans sbiaditi e le sue giacche. Seduta davanti allo specchio, si metteva il rossetto e il fard, che poi si sfregava via freneticamente appena sentiva un rumore al piano di sotto. “Volevo essere come Casey e vivere come lei”, ricorda. (…) Nel 2001 la madre Susan si separò da Brian e si trasferì in Galles, nel Regno Unito, il suo paese d’origine, portandosi dietro la figlia minore. Chelsea dice che in quel periodo cominciò a mandare avanti la famiglia: pagava lei le bollette e faceva quasi sempre la spesa. In Galles si sentiva più libera. Poteva comprarsi i trucchi al supermercato, andava in giro truccata per qualche ora e buttarli via prima di tornare a casa. Passava molte sere al computer nelle chat lgbt. La sua visione del mondo cominciò a cambiare. In Oklahoma aveva assorbito la visione politica conservatrice del padre. “Non mettevo in discussione nulla”, dice. Ma alla Tasker Milward, la scuola della città di Haverfordwest, imparò molte cose sul movimento per i diritti civili, il maccartismo, la detenzione degli statunitensi di origine giapponese  durante la seconda guerra mondiale. E in un compito in classe di storia espresse il suo scetticismo sui motivi dell’intervento statunitense in Iraq.

Quando nel 2005 tornò negli Stati Uniti per vivere con Brian e la sua nuova moglie a Oklahoma City, era una persona diversa, anche se non completamente trasformata: si truccava gli occhi, si era fatta crescere i capelli e li aveva tinti di nero. “Pensavo che forse volevo solo cancellare la storia dell’identità di genere ed essere senza sesso, androgina”, racconta. Trovò lavoro in una startup tecnologica, e su un sito d’incontri conobbe il suo primo ragazzo, che viveva a Duncan, a un centinaio di chilometri di distanza. In quel periodo, la nuova moglie del padre le impediva di mettere piede in cucina. “Pensava che fossi sporca”.

Manning non lo confidò a nessuno, ma era sempre più convinta di non essere gay né transessuale. Era una donna. Nell’estate del 2006 ruppe con il fidanzato, e lasciò Oklahoma City per sempre, con tutte le sue cose ammucchiate sul sedile di un pickup rosso. Seguì un periodo di vagabondaggi. Prima andò a Tulsa, sempre in Oklahoma, a fare la cameriera in una pizzeria; poi a Chicago, dove trovò lavoro in un negozio di chitarre; infine si spostò a est, nella zona di Washington, per andare a stare da una zia con cui aveva un rapporto speciale, un legame che non aveva mai avuto con i genitori. Fece quattro sedute da uno psicanalista, ma non riuscì ad aprirsi più di quanto avesse fatto con amici e familiari. “Ero spaventata”, dice. “Non sapevo che si poteva vivere meglio”.

Quando Chelsea era piccola, il padre le aveva parlato spesso con nostalgia del periodo passato nell’esercito. Diceva che quegli anni avevano formato il suo carattere. All’epoca non era pronta a starlo a sentire, ma ora sì. Forse arruolandosi sarebbe “diventata un uomo” e avrebbe smesso di soffrire. Inoltre, anche se stava cambiando idea sulla politica estera statunitense, si considerava ancora una persona patriottica, e nell’esercito avrebbe potuto usare le sue capacità analitiche per aiutare il paese. Nell’estate del 2007, se ne stava seduta tutto il giorno davanti alla tv per seguire le notizie sull’Iraq. “L’escalation militare. Gli attacchi terroristici. I ribelli. Avevo la sensazione che avrei potuto fare qualcosa”, racconta. (…) Nel 2008 Manning riuscì a entrare nella scuola di formazione dei servizi segreti di Fort Huachuca, in Arizona, che per lei fu una specie di università. Lì imparò ad analizzare quelle che i militari chiamano SigActs (significant activities, azioni significative): i rapporti scritti, le foto e i video degli scontri a fuoco e delle esplosioni che formano il mosaico della guerra moderna. Si trovava bene con i compagni di corso, che come lei erano appassionati di computer. “C’erano molte persone che la pensavano come me”, dice. “Non ti dicevano cosa fare. Ti incoraggiavano a parlare, a farti un’opinione, a prendere le tue decisioni”.

Nel su primo incarico fu assegnata a Fort Drum, nello stato di New York, dove avrebbe collaborato alla realizzazione di un software per individuare e selezionare automaticamente ogni SigAct proveniente dall’Afghanistan (dove teoricamente i suo reparto sarebbe stato assegnato in un secondo momento). Per quattro ore al giorno Manning guardava spettrali video notturni e leggeva rapporti dai campi di battaglia. Cominciava a prendere coscienza dei massacri che in seguito l’avrebbero spinta a far trapelare le informazioni riservate. Ma trattava quel materiale con una certa distanza fisica ed emotiva: era ancora “ansiosa”, dice. Su un sito di appuntamenti gay conobbe Tyler Watkins, uno studente della Brandeis university che amava i libri. Lo andava a trovare nella zona di Boston. Lì cominciò a frequentare la Pika, una comunità del Massachusets institute of technology (Mit), e il Builds, un luogo d’incontro degli hacker dell’università di Boston. Durante le riunioni alla Pika conobbe persone che, come lei, consideravano la programmazione uno sfogo, un passatempo e una vocazione. Spesso restavano a parlare fino a notte fonda. Yan Zhu, una ragazza che all’epoca studiava all’Mit, ricorda Manning come una persona “evidentemente intelligente” ma “nervosa”. Si vedeva chiaramente che era “tormentata da qualcosa”, dice Yan Zhu, ma non ebbe il tempo di scoprire cosa fosse: quell’autunno l’unità di Manning fu mandata in Iraq. (…)

“Avevo guardato immagini per nove o dieci mesi”, ricorda. “Conoscevo così bene il paesaggio visto dall’alto (dall’elicottero) che riconoscevo tutti i posti, e mi meravigliavo nel vedere che lì c’erano persone che camminavano, automobili, case e alberi”.

Circondata dal deserto, la base era bruciata dal sole in estate e invasa dal fango in autunno. (…) Nascosta nel buio della postazione, analizzava per otto ore i rapporti inviati dai soldati che erano sul campo, interpretando i dati per i funzionari dei servizi segreti… “Quando fai  quel lavoro, non riesci neanche a leggere veramente tutti i file. Devi dare un’occhiata rapida, cercare di capire cosa è importante”. (…) Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre cominciò ad essere sempre più stupita della mancanza di consapevolezza dell’opinione pubblica per quella che le sembrava una guerra inutile, interminabile e sanguinosa. “A un certo punto”, racconta, “ho smesso di vedere i documenti e ho cominciato a vedere le persone”: i sanguinari soldati statunitensi e i civili iracheni massacrati. (…) Era affascinata dal lavoro di Assange e dei suoi collaboratori, anche se non era d’accordo con la loro idea di trasparenza totale. All’epoca pensava – e pensa ancora oggi – che “ci sono molte cose che dovrebbero rimanere segrete. Dobbiamo proteggere le fonti riservate. Tenere segreti i movimenti delle truppe. Le informazioni sul nucleare. Ma non dobbiamo nascondere gli errori. Le politiche sbagliate. Non dobbiamo nascondere la storia, chi siamo e cosa stiamo facendo”.

Era sul punto di entrare in azione, ma ai suoi colleghi della base non aveva detto nulla delle chat di hacker, e neanche del suo tumulto interiore. Stava lottando per mantenere due segreti in grado di cambiarle la vita. (…) “Guardavo molti programmi tv su internet”, racconta. “Fumavo molto. Bevevo tantissimo caffè. Andavo alla mensa e mangiavo tutto quello che riuscivo a ingurgitare. Facevo di tutto per dimenticare dove mi trovavo”. (…) Presto avrebbe avuto due settimane di licenza. (…) Sognava di sfruttare quell’occasione per dire alla famiglia e agli amici che era transessuale. “Continuavo a pensare al momento in cui lo avrei urlato con tutta la voce che avevo in corpo”. Ma in cuor suo sapeva che non ne sarebbe stata capace.

Prima di lasciare la base, scaricò dal Combined information data network ex-change, il sistema di raccolta e scambio di dati dell’esercito, i file di quasi tutte le azioni significative delle guerre in Afghanistan e in Iraq e usò un programma di compressione per salvarli in una serie di cd. Su uno scrisse “Lady Gaga”. (…) Indossò una parrucca bionda, uscì dalla porta sul retro stando attenta a non farsi vedere dai vicini e andò alla stazione dei treni. Sotto il cappotto scuro indossava un tailleur che aveva comprato in un grande magazzino dicendo che era per un’amica che doveva fare un colloquio di lavoro. Arrivata nel centro di Washington andò da Sturbucks, pranzò in un ristorante affollato e gironzolò tra gli scaffali di una libreria. Poi prese di nuovo la metropolitana senza avere una meta precisa. Trovava molto piacevole mostrarsi per quello che era, e il fatto di non suscitare nessuna curiosità la confortava. “Prima di andare in missione non avrei avuto il coraggio di farlo”, mi dice Manning. Ma il servizio in Iraq l’aveva cambiata. “Vedere la morte tutti i giorni ti fa prendere coscienza del fatto che anche tu sei mortale”. Non voleva più nascondersi. (…) Quello che aveva fatto era illegale, ma poteva ancora tornare indietro. Una volta arrivata negli Stati Uniti, però, aveva avuto una rivelazione. Si era resa conto che gli statunitensi sapevano pochissimo delle guerre combattute dal loro governo. “Erano due mondi totalmente separati”, dice. “Quello americano e quello che stavo vedendo in Iraq. Volevo che la gente sapesse quello che sapevo io”…

Rimasta sola in città, decise di trasferire parte dei file su una piccola scheda di memoria e preparò un messaggio anonimo da allegare alle informazioni: “Questo è forse uno dei documenti più importanti del nostro tempo, che dissipa la nebbia e rivela la vera natura della guerra asimmetrica del ventunesimo secolo. Buona giornata”.

La scelta di dare le informazioni a Wikileaks fu dettata da motivi pratici…

Il 3 febbraio del 2010 Manning accese il portatile e, usando un protocollo di trasferimento sicuro, spedì i file a Wikileaks…

Tornata in Iraq, decise di rivelare altre informazioni, ancora più difficili da ignorare… “Può aver senso tenere segrete alcune informazioni per qualche giorno, magari per qualche anno”, sostiene Manning. “Il problema è che ormai tutto è automaticamente segreto”. (…)

Ma nella vita privata Manning era sempre più in crisi…

Alla fine di maggio del 2010 fu convocata in una sala conferenze, dove la aspettavano due agenti del reparto investigativo dell’esercito degli Stati Uniti. Era terrorizzata, ma cercava di non darlo a vedere. “Ero tutta concentrata su me stessa in quel periodo, su chi ero e su quali erano i miei valori”, ricorda. Qualche giorno dopo fu ammanettata, portata alla base di Camp Arifjan, in Kuwait, e chiusa in una grande gabbia di metallo. In ginocchio, lesse le parole scritte sulle sbarre: made in Fort Wayne…

Lì ha scoperto che tutto il mondo sapeva chi era…

Le notizie sulle sue condizioni di detenzione in Kwait e a Quantico hanno cominciato a circolare fino ad arrivare alle orecchie di persone influenti, come i docenti universitari L.T e K.A. che hanno firmato una lettera aperta in cui condannavano quelle che definivano “condizioni illegali e immorali”.

Nella primavera del 2011 Manning è stata trasferita di nuovo…

Nella primavera del 2013 Manning è stata trasferita in una prigione civile vicino a Fort Meade, nel Maryland, dove si sarebbe tenuto il processo davanti alla corte marziale…

All’inizio del 2015 le sarebbe stato concesso di fare la terapia ormonale, sotto forma di pillole che la detenuta ritirava dal dispensario vicino alla caffetteria.

Manning trovava molto soddisfacente quella prima fase della terapia: la sua pelle diventava più morbida, i peli sul corpo diminuivano. Ma i cambiamenti fisici erano accompagnati da sconcertanti caratteriali. “Nel corso degli anni, fin da quando ero adolescente, mi ero costruita tante difese per non mostrare le mie emozioni”, ricorda. “Quando il livello di testosterone ha cominciato a scendere, improvvisamente sono diventata molto più vulnerabile. Non riuscivo più a nascondere le mie emozioni. Dovevo affrontarle”. E le emozioni spesso erano difficili da gestire. “Quelle positive, come una maggiore sicurezza in me stessa e nei rapporti con i miei amici, si mescolavano quelle negative: i dubbi, il senso di solitudine, di incertezza e di perdita”. (…)

Nel pomeriggio del 17 gennaio 2017, Manning era nel laboratorio del carcere circondata da trucioli di legno. Ricorda di aver alzato gli occhi e di aver visto un gruppo di agenti della sicurezza entrare nella stanza: “Ho pensato oddio, sono nei guai. Non so neanche cosa diavolo ho fatto di male”. Il capo della sicurezza le ha detto di seguirli.

“Tornerò qui?”, ha chiesto lei. Le hanno risposto di no.

Ha preso le sue cose e ha seguito le guardie…

Quattro mesi dopo, la mattina del 17 maggio, Manning è stata accompagnata fuori dal carcere e fatta salire su un suv… Intorno all’una il suv si è fermato in un parcheggio, dove ad aspettare c’erano Strangio e Nancy Hollander, un’avvocata…

Mi dice che a Fort Leavenworth, poco prima di sapere della riduzione della pena, un pettirosso si era posato sulla sua finestra, un piccolo messaggero del mondo esterno. Era stato un segno? Lei pensa di sì” (Matthew Shaer, The New York Times Magazine, Stati Uniti, Internazionale n. 1213 del 14 luglio 2017).

 
 
 

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