Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 16/11/2017

Non so

Post n°2411 pubblicato il 16 Novembre 2017 da namy0000
 

“Non so, ma non ho ancora realizzato che non andremo ai Mondiali. In effetti, devo ancora realizzare di essere andato a San Siro invece di starmene a casa mia, al calduccio, non necessariamente con la frittatona di cipolla, la Peroni gelata e il rutto libero di fantozziana memoria, ma comunque in grazia di Dio. Una pizza e una coca cola e/o una bottiglia di minerale gasata, le babbucce. Io odio le code. Ho dovuto fare una coda bestiale per arrivare allo stadio. Ho dovuto fare una coda da paura per andare in bagno. Ho visto l’Italia franare nello sprofondo più cupo della sua storia calcistica. Ho litigato con una donna (mi astengo da qualsiasi altro sostantivo o aggettivo altrimenti potrei essere additato come molestatore) con l’auricolare, di quelle che esaltano le loro mediocri vite una volta alla settimana tramutandosi in kapò. Insomma, per questa maledetta Nazionale ho deragliato dal Santo Proposito Numero Uno del Pensionato Modello enunciato nel 2015: stadi d’Italia, non mi avrete più.

E per cosa? Per essere testimone del punto più basso toccato dal calcio italiano nella sua storia. Allora, nel 1958, compagni, amici e bastardi di ogni genere e grado, avevamo qualche attenuante in più. Stavamo ancora risalendo dal baratro della Seconda Guerra Mondiale, avevamo perso la generazione di fenomeni del Grande Torino otto anni prima e la botta era stata forte.
Non eravamo (e non siamo) i tedeschi che si erano ripresi più in fretta di noi e nel 1954 avevano conquistato il loro primo titolo Mondiale.

 

In questi giorni ne leggerete molte. Però non vi diranno, e non ve lo direte neanche voi, giustamente vergognandovi, la verità finale, la morale della vicenda: a noi della Nazionale non ci frega una cippa perché in generale ci frega pochissimo dell’Italia, intesa come nazione. Il senso di appartenenza non è una nostra virtù. L’Italia come sentire comune viene dopo la mamma, i figli, l’amante, la squadra del cuore, il calcetto, la cotoletta, l’abbacchio, la pizza, la spiaggia, lo spritz. La Svezia, con tutti i difetti degli svedesi, è una nazione e le sue schiappe hanno giocato da squadra. I nostri mezzi campioni, no. Perché, a parte Gigione (Gigi Buffon, portiere) nostro – sempre sia lodato – stavano già pensando ad altro” (TEMPI, Novembre 14, 2017 Fred Perri

 
 
 

Colpevoli o responsabili

Post n°2410 pubblicato il 16 Novembre 2017 da namy0000
 

“La “colpa” degli usi di Facebook non deve essere attribuita a Facebook ma a chi lo usa e a come lo usa, mentre indirizzare verso Facebook le richieste di interventi correttivi significa trovare un facile capro espiatorio di un problema che è più esteso, sociale, di cultura, di come le persone vivono il rapporto con gli altri e con le comunità in cui vivono. Problema che – dico io – è assolutamente reale, chiaro e abbiamo parlato spessissimo negli ultimi anni delle derive di frustrazione, insicurezza, aggressività, risentimento, che governano questo rapporto col mondo per sempre più persone.

L’obiezione citata si inserisce dentro due grandi filoni. Uno è quello che dice che non sono gli strumenti – o “le piattaforme” – a essere responsabili del loro uso, ma chi li usa: filone che occupa tantissimi dibattiti passati e presenti, ed è però molto ambiguo e discutibile. È per esempio usato dai sostenitori della diffusione delle armi negli Stati Uniti, tal quale. E trascura poi il fatto che quasi mai gli strumenti sono davvero “neutrali”: nel caso di cui parliamo, per esempio, Facebook funziona con dinamiche e criteri scelti e progettati deliberatamente in determinati modi, che generano determinati effetti, voluti e non voluti. Gli strumenti e la loro natura indirizzano i propri usi. Se – per esempio – io introduco in Italia un sistema di voto elettronico i cui comandi siano solo in inglese, quello strumento influenzerà la partecipazione, i risultati del voto, e il funzionamento della democrazia.

Un altro filone dialettico a cui appartiene l’obiezione è quello che sostiene che le scelte delle élite siano inevitabilmente orientate dalle masse, o che l’offerta segua la domanda. È quello che dicono i direttori dei giornali che privilegiano notizie stupide o macabre o falsificate spiegando che è quello che vogliono i lettori (“alla gente piace il sanguinaccio“). È quello che dicono i commentatori della mediocrità delle classi politiche ricordando che sono state votate dagli elettori (“è colpa degli italiani”, ma gli italiani sono gli altri). È quello che dicono i dirigenti televisivi sostenendo che “la tv non deve avere un ruolo pedagogico” e argomentando le proprie scelte con i numeri dello share. E gli esempi sono tanti, di “colpe” attribuite a un sentire comune, a un’inclinazione diffusa, per togliere quelle “colpe” a chi fa scelte di pessima qualità e le attribuisce pilatescamente a quel sentire e a quell’inclinazione. E arrivo al punto, secondo me.

Il punto è che un elemento di quella confusa nuvola di insicurezze, frustrazioni, ansie, code di paglia, risentimenti, immaturità, che sono diventate le nostre vite e le nostre giornate, è la confusione quotidiana tra la “colpa” e la “responsabilità”, per cui di ogni cosa cerchiamo un colpevole o ci temiamo colpevoli, invece che cercare un responsabile e sentirci responsabili.
“Responsabilità” è una parola molto bella nel suo significato (meno nel suo suono farraginoso, e infatti fu adottata promozionalmente solo da un gruppo di scalcagnati), perché ne ha due, uno legato al passato e uno al futuro: si è responsabili di quello che è accaduto e si è responsabili di quello che potrà accadere. A differenza di “colpa” che ha sempre un’accezione negativa (e, viceversa, di “merito”), la responsabilità non indica se ciò che è accaduto sia buono o cattivo. Ma soprattutto, implica un potere di scelta su ciò che accadrà, e un potere di influire sulle cose: si è responsabili del fatto che possano essere migliori o peggiori, che qualcosa vada bene o male, che qualcuno sia protetto o no, che tutto funzioni come deve, o persino meglio di come ci si aspetterebbe.

Ed è questo equivoco tra due termini diversi e di diversissima importanza (invertita nei nostri tempi, nei quali le priorità sono le ritorsioni sul passato invece che le opportunità del futuro) che secondo me indebolisce i ragionamenti che ho citato all’inizio e gli altri di quel genere: perché l’individuazione delle colpe e la scelta se siano di tizio o di caio, delle élite o delle masse (di entrambe, circolo vizioso), è sterile o fuorviante. È come quando chiedi ai tuoi figli di raccogliere una cosa per terra e loro rispondono “non l’ho buttata io”.
La domanda, tornando a Facebook, non è “di chi è colpa?” ma “chi ci può fare qualcosa?”, chi può intervenire, per cultura e potere, sull’interruzione del circolo vizioso, chi può migliorare le cose? Mio cugino sul suo profilo, o Mark Zuckerberg?
Voi direte “se tuo cugino, e tutti i cugini, e tutti i noi cominciamo a fare la nostra parte…” eccetera, e avrete ragione: perché ognuno ha pezzetti di responsabilità e ognuno può fare una parte nel limitare i danni e perpetuare principi e regole condivise. Ma a creare nuove regole, incentivare comportamenti, dare priorità a cose diverse, non può essere mio cugino: i poteri si chiamano così perché hanno i poteri: nel caso di cui parliamo, perché hanno creato Facebook, lo hanno fatto diventare quello che è e ne hanno indotto gli usi, o non ne hanno indotti altri.

(il mondo lo cambiano le masse o lo cambiano le élite?)

 

·         Di questo dovremmo parlare, invece che di dare le colpe: di chi individuare come responsabile di quello che sarà, di farglielo capire, di stargli addosso. Assolverlo da questa responsabilità – sia un politico, un direttore di giornale, un dirigente televisivo, o Zuckerberg – convenendo con lui che “la gente vuole questo” o “che è colpa degli utenti”, non aiuta, e di certo non suggerirà a due miliardi di utenti di Facebook come usarlo meglio” (15 novembre 2017, Il Post).

 
 
 

Quasi tutti gli adolescenti

Post n°2409 pubblicato il 16 Novembre 2017 da namy0000
 

“Quasi tutti gli adolescenti - il 95,5%, degli utenti della Rete tra i 15 e i 18 anni - hanno almeno un profilo sui social network, ma la percentuale è alta anche tra i ragazzini ancora più giovani, tra gli 11 e i 14 anni, che hanno accesso ai social nel 77,5% dei casi (anche se c'è un limite di 13 anni). A conferma dell'enorme diffusione di piattaforme come WhatsApp, Facebook e Instagram tra adolescenti e preadolescenti - e i comportamenti a rischio ad essei collegati - è la ricerca condotta da quattro università, la Cattolica di Milano, Sapienza e Lumsa di Roma e Federico II di Napoli, per iniziativa dei Co.Re.Com di Lombardia, Lazio e Campania(Comitati regionali per le comunicazioni) presentata alla Camera al convegno "Cyberbullismo e comportamenti in Rete dei ragazzi: un viaggio da nord a sud".

Spesso dunque l'uso dei social avviene senza una "rete di sicurezza": se infatti il 57% degli intervistati (un campione di 1.500 studenti in Lombardia, Lazio e Campania) utilizza un profilo "privato", i cui contenuti cioé non sono visibili agli estranei, c'è un 40,3% che ha un profilo pubblico, e il 2,7% è inconsapevole, non ricorda. Le informazioni personali condivise sul profilo includono il proprio volto nel 73% dei casi, foto e video personali (72%), il cognome (64,7%). Quasi la metà condivide anche la scuola frequentata. Un po' più di riservatezza la si ha rispetto al proprio numero di cellulare (che pure è condiviso dal 19%) e all'indirizzo di casa (9,1%).

I pericoli sono di varia natura: il 27,8% dei ragazzi ha risposto che nell'ultimo anno ha sperimentato una forma di bullismo, il 20% ha ricevuto messaggi sessuali, il cosiddetto sexting, e circa il 5% si è accorto che qualcuno aveva creato un proprio profilo falso, il 13,6% ha trovato online foto che non voleva fossero pubblicate. La ricerca si è focalizzata anche su comportamenti a rischio, concludendo che un pò di accortezza riduce i pericoli, ma non li elimina: coloro che impostano il proprio account in modalità "pubblica" hanno circa il 10% di probabilità in più di sperimentare bullismo, sexting, e abuso i dati personali, mentre comportamenti più prudenti nella gestione della privacy riducono la probabilità di andare incontro a rischi, anche se non la annullano completamente” (Avvenire 15 nov. 2017). 

 
 
 

Sperare è un bisogno

Post n°2408 pubblicato il 16 Novembre 2017 da namy0000
 

“Sperare è un bisogno primario dell’uomo: sperare nel futuro, credere nella vita, il cosiddetto “pensare positivo”. Ma è importante che tale speranza sia riposta in ciò che veramente può aiutare a vivere e a dare senso alla nostra esistenza. È per questo che la Sacra Scrittura ci mette in guardia contro le false speranze che il mondo ci presenta, smascherando la loro inutilità e mostrandone l’insensatezza. E lo fa in vari modi, ma soprattutto denunciando la falsità degli idoli in cui l’uomo è continuamente tentato di riporre la sua fiducia, facendone l’oggetto della sua speranza. Viene il momento in cui, scontrandosi con le difficoltà della vita, l’uomo sperimenta la fragilità di quella fiducia e sente il bisogno di certezze diverse, di sicurezze tangibili, concrete. Io mi affido a Dio, ma la situazione è un po’ brutta e io ho bisogno di una certezza un po’ più concreta. E lì è il pericolo! E allora siamo tentati di cercare consolazioni anche effimere, che sembrano riempire il vuoto della solitudine e lenire la fatica del credere. E pensiamo di poterle trovare nella sicurezza che può dare il denaro, nelle alleanze con i potenti, nella mondanità, nelle false ideologie. A volte le cerchiamo in un dio che possa piegarsi alle nostre richieste e magicamente intervenire per cambiare la realtà e renderla come noi la vogliamo; un idolo, appunto, che in quanto tale non può fare nulla, impotente e menzognero. Ma a noi piacciono gli idoli, ci piacciono tanto!

Dai veggenti. Era pieno di gente, che faceva anche la coda. Tu, gli davi la mano e lui incominciava, ma, il discorso era sempre lo stesso: c’è una donna nella tua vita, c’è un’ombra che viene, ma tutto andrà bene … E poi, pagavi. E questo ti dà sicurezza?

Un Salmo pieno di sapienza ci dipinge in modo molto suggestivo la falsità di questi idoli che il mondo offre alla nostra speranza e a cui gli uomini di ogni tempo sono tentati di affidarsi. È il salmo 115, che così recita:

«I loro idoli sono argento e oro,
opera delle mani dell’uomo.
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
Le loro mani non palpano,
i loro piedi non camminano;
dalla loro gola non escono suoni!
Diventi come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida!
» (vv. 4-8).

non si tratta solo di raffigurazioni fatte di metallo o di altro materiale, ma anche di quelle costruite con la nostra mente, quando ci fidiamo di realtà limitate che trasformiamo in assolute, o quando riduciamo Dio ai nostri schemi e alle nostre idee di divinità; un dio che ci assomiglia, comprensibile, prevedibile, proprio come gli idoli di cui parla il Salmo. L’uomo, immagine di Dio, si fabbrica un dio a sua propria immagine, ed è anche un’immagine mal riuscita: non sente, non agisce, e soprattutto non può parlare. Ma, noi siamo più contenti di andare dagli idoli che andare dal Signore. Siamo tante volte più contenti dell’effimera speranza che ti dà questo falso idolo, che la grande speranza sicura che ci dà il Signore.

 

Alla speranza in un Signore della vita che con la sua Parola ha creato il mondo e conduce le nostre esistenze, si contrappone la fiducia in simulacri muti. Le ideologie con la loro pretesa di assoluto, le ricchezze – e questo è un grande idolo – , il potere e il successo, la vanità, con la loro illusione di eternità e di onnipotenza, valori come la bellezza fisica e la salute, quando diventano idoli a cui sacrificare ogni cosa, sono tutte realtà che confondono la mente e il cuore, e invece di favorire la vita conducono alla morte”.

 
 
 

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