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con lo scatto del pesce che smuova la sabbia

Post n°156 pubblicato il 30 Gennaio 2014 da andrea_firenze
 

con lo scatto del pesce che smuova la sabbia sul fondo dell'immenso mare razzolo le strade come una gallina e agito i ricordi ed ho ben presente l'instabilità e la svogliatezza che ci contraddistingue nel fissare e approfondire le cose, nell'averne una visione chiara, mentre il tutto scorre. Euforici d'acqua e d'aria, sempre davanti a ciò che possediamo oltre il limite di una presa purché ci sia un ciglio, un'ala, un giglio, un cirro basso di nuvola nelle campagne di Arras, la nostra è una distratta ricerca antropomorfa nella massa senza nome dove resta un desiderio ed un mera aspirazione, se si muova, riuscire a mettere a fuoco cosa significhi essere vivi. C'è un tempo in cui maneggi tutto e poi più niente e che cosa sia la vita, l'estate dell'adolescenza, un bacio, un panorama, un calcio al pallone, il tuo sorriso, un volo d'uccello e come si bagni il posto da dove scenda la pioggia è il dilemma dell'essere stati qui e di che cosa sia ogni cosa e se sia la stessa e sia soggetta alle stesse modificazioni di quando sia partita. Ma cosa c'è di più solipsistico della natura che cerca di comunicare generando cose che finiscono per parlare, come me, solo di se stesse. Ci provo a generalizzare, e questa estate sudata è diventata nella mia mente il guado e la tua carne di strada è un sorriso al jazz che assorda nelle metropolitane d'aria che mi fanno sentire come fossi il brivido di una Parigi di pelle, e le persone per le strade, che guardo eruttando al ristorante Vesuvio mentre il colombo caca sulla testa della statua di Diderot, sono ciottoli di letto di fiume con i loro muscoli pieni di vita come alghe gonfie d'acqua e mi guidano da qualche parte, la parte nel mondo che cerco di definire, e forse ogni direzione è una scheggia impazzita, e fiorire è tornare su se stessi, o più probabilmente mi aprono la strada verso la seconda morte, la dimenticanza, che non è, come è consuetudine e comodo considerare, altro da te, ma la stessa scintilla del tuo volto giovane che si spenge. Si finisce raschiati, in vite ricettate come oggetti rubati, scarti di rassicurazioni date in pegno ai rigattieri, mentre ogni cosa esplode e perde il pernio in lance di forza, imprese d'aria in prese d'aria, come le formiche sputate dai formicai, i rami dagli alberi, i pianeti dal centro, le auto sulle autostrade, i capelli dalla testa, i petali dai fiori, le bolle d'acqua su un lago, il vento e la grandine dal cielo, le spine dai rovi che feriscono affilate come spade di Toledo. Ma le grandezze e le distanze sono così anonime nella nostra percezione e così belle le curvature di nervi, fruste, spine, supine, dune, onde, colline e seni, rappresentazioni materiali di forze trattenute in fuga, che i minuti del tempo, che gattona, sono come le ginocchia sbucciate di un bambino e le deflagrazioni vengono attutite dal respiro senza labbra del cielo, dalla calura fra gli alberi colati, dal bisbiglio di un mare che suda. Si serrano senza rumore gli artigli del gatto sulla tranquillità infuriata di una luna che sobbolle senza nascondigli fra cespugli chiassosi e belare di siepi. Le strade, le vene, le nuvole si scardinano come girandole e la morte è il contorno che si squaderna laggiù all'orizzonte. Per questo raccogliamo le cose, ci facciamo una casa, mettiamo dei vestiti e teniamo i soldi in tasca; per questo potiamo gli alberi, togliamo le foglie secche alle piante, abbandoniamo e dimentichiamo chi ci intralcia o non ce la fa, ci tagliamo i capelli, ricordiamo: è il desiderio di mantenere intatto l'essere, quel piccolo essere che tendiamo a considerare tutto l'essere. E la sintesi è il fine ma anche la fine, che sia astratta o concreta, sia il succo, l'escremento; siano le viscere, i flussi di pensieri, o i fiumi della terra, spremute di sperma. Il noumeno non è altro che il fenomeno che descrive il fenomeno, un puro atto d'assimilazione, che, in quanto uomini, siamo i più bravi a fare; ed è così che, in volo, non puoi fermarti a soppesare l'esistenza, sarebbe come stare a guardare un gelato che si strugge. Ogni giorno ti scarta e ti scava la morte dal petto e l'imminenza è l'unica tessitura cui possiamo aggrapparci nella caduta e l'ago più appuntito, efficiente e maneggevole per tesserla è il nostro pene, che è un fucile caricato a salve. Ed esso oblitera ogni mio pensiero, appena abbozzato, che vedo crescere o svanire come una piccola seppia molle e instabile a pelo d'acqua, ed il mio cervello è una rete in cui rimangono impigliate le cose, le impressioni del momento, mentre le idee, modeste, di cui vado fiero, sono i pochi pesci, di piccola taglia, che riescono a fuggire e che scompaiono in un metro d'acqua. E la squallida, invadente, costante consapevolezza è l'adesso, è l'escrescenza del mattino e del sole che sgomita le colline e occhieggia la terra da una cateratta d'argento; è il tempo spellato e il sole che ti spella fra carcasse di case su vene di vie deserte, case tozze, grasse e calde come squali bianchi; è il falò accecante sulla spiaggia delle tue cosce; e se alzo gli occhi e penso un centro esso è la tua fica infiammata sotto un cielo ingarbugliato come il corallo, sono i tuoi capezzoli, vivi come stelle marine ruvide all'onda sullo scoglio, è il dolore rosso, non cicatrizzato, e la libidine e l'invidia per gli esseri viscidi e molli, schiumanti come saponette, per gli uomini fulmine e lumaca che schiumano il pane della tua femminilità.

 
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