Creato da: andrea_firenze il 15/06/2013
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ho sorpreso la mia gioventù finire con la lingua nella tua vagina

Post n°148 pubblicato il 28 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

ho sorpreso la mia gioventù finire con la lingua nella tua vagina, una sera d'inizio d'estate, in un prato in nessun posto. Aveva occhi spalancati color verde corteccia e cielo, gravi e gremiti d'assenza, screziati di un riflesso umido e vuoto; aveva occhi da belva, tutti volontà di rappresentazione e sacrificio. L'ho trattenuta supina, con i palmi a terra su spilli bagnati, fra lucciole e capelli. Le ho leccato la fica, fibrillando, rapito; non aveva sapore. Poi ti ho guardata. Tu eri un feto d'oro in una torre di bronzo senza parole sfiorita in quel breve percorso che porta dallo stomaco al cuore, come una preda assalita. Ed io ero la bocca davanti a un massacro d'ossa e carne, illuso deluso furioso, una posizione alla fine di un movimento, un nido di rondine da volo, pietra di fionda prima del lancio, ragnatela d'angoli predatori, ragno d'eventi, schiavo e umano per umanità, libero ad unanimità. Ma chi è che mangia cosa e chi la causa e quale l'effetto. Corro i canali di Utrecht all'alba e fingo di non avere più benzina, per non mortificarti, ed ogni cosa mi assale sbiadita e crolla. L'incompiutezza è una ragazza magra con le calze rotte, ne ho per poco coscienza; a sera veste la morte fisica dell'assenza dei corpi. L'incompiutezza è il difetto dell'universo, un dio svogliato che non finisce mai i lavori. E la fica, la tua fica, era una breccia, un pugno chiuso; la fica, la tua fica, è un volto al limite della notte, un passaggio per vivere vite non esclusive, e oltre, avere la tua scena, smettere la mia. Guarda, di nuovo, il tuo cazzo, è ciò che rimane. Il cazzo racchiude il nichilismo della linea e le possibilità della materia, un mazzo d'asparagi legato con un filo d'erba; è l'opera d'arte più astratta, traveste la profondità. Il cazzo è una performance, un fuoco, un bagliore nella notte. E noi questo eravamo, resistenze su un prato, sfregate fino all'anima, a baciarsi e battere contro i denti, aggrovigliate sempre più ad ogni movimento folle, articolazione, angolo e parola, impalcatura, pala e cazzuola, identici a tronchi d'albero impagliati alle dighe in una prateria di fili d'erba, silenziosi e sensibili, liquidi, fra molecole di fiume, mentre fugge l'amore e ti trascina via di schiena, contro la tua schiena. Ma chi è che mangia cosa e chi la causa e quale l'effetto. La natura è una genitrice d'eventi, non meno materiali e appiccicosi delle nostre feci. Ed è semplice: gli eventi indossano cerniere, hanno la patta; a volte ad alcuni facciamo pompini. Ed è l'essenza del loro essere vuoti ed il poterli aprire, maneggiare, stimolare e chiudere che li generalizza a stanze dissolute e vagabonde in cui riversare ciò che di noi non possiamo apprezzare: la provvisorietà; perché non c'è uomo dio e terra, né frazione o resto, ma solo modulo e sesso, ed il non poter essere, l'aver potuto essere, il non essere mai stati sono i confini dove indugiano gli eventi e dove cominciamo noi, incerti su cosa ancora ti appartenga e tu in cosa ad essi; mentre coagularsi, come su quel prato, e poi lasciarsi andare o essere lavati via sono la conseguenza di un principio di separazione che è il modo naturale attraverso il quale la natura ti fa credere di sopravvivere alla sopraffazione da bestie e t'inganna che sia una scelta la scelta forzata di vivere, la più banale, nel non essere altro che se stessi. Non aver scelto e sentirsi ancora vivi ed accettare il trionfo della bellezza, mela bacata, splendida puttana piena di carie, verme, Vittoria casuale delle mutazioni, artificio d'incarnazione del simbolo e della verità, pera di bronzo in vena che affiora sotto la pelle. Ma quanto poco in me è variata l'esistenza, quanto poco sono cambiato e quanto è diverso da allora. Un lago d'indolenza, un armadio fitto di grucce, e due corpi, strani, avviluppati, di notte, su un prato, i jeans che ti strangolavano le cosce: eventi che non riesco a chiudere, che tengo in vita, persone vive, cuciture, punti di sutura, dove metto le dita, dove fa più male, e tu che ti apri e sbocci ed hai un fegato e smorzi ancora la morte. Due corpi, strani, avviluppati, di notte, su un prato, resistenti, fori precisi, tessuti, come di macchine da cucire Singer, e tu che hai un fegato, livido, e smorzi ancora la morte. Stasera a mezzanotte puoi viaggiare dallo spleen all'epoca bella, dai locali dove si serve l'assenzio alle ballerine di Can-can, ai cabaret di Pigalle, Le Divan Japonais e Le Chat Noir. Piove. Senza presente. Hai i capelli biondi adesso. E ti prego: non stare, non tornare. Brucia i tuoi desideri perché è l'unico modo di sottrarsi alla vita. Perché ad ogni istante fugge l'amore in quella statua di Rodin che ti è così vicina, nel viso rotto dai tuoi tratti che esce all'improvviso dal buio di quel prato, nei seni disserrati come costati di maiale di un'appartenenza altrui, nella visione di me e di te spacciati insalvabili nella realtà.

 
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ombra lasciva palpo le ultime gambe di sole

Post n°147 pubblicato il 27 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

ombra lasciva palpo le ultime gambe di sole di un eterno ritorno mentre la sera, muta, insacca laghi, pioggia e montagna con un taglio di forbice e furiosa dai ponti addensa occhi di mica alle case. Vado ai cessi che puzzano di vecchio e marcio, ai cessi che sanno di merda. Vado nei miei passi fusi alla musica di plastica che abita il notturno sogno di grazia; vago alle cose, alle mogli e alle figlie dalle linee anoressiche e i profili etruschi, alle vie di fuga in cui assottigliarsi e dissolversi come Sileni ubriachi; vie bizantine, tratti dove si sfiorisce, accenni che ricorrono e a tratti si rincorrono, mentre ululo e afferro ogni strada in cui il sangue ti camminava nelle vene, per camminarti dentro: a te che sei presente al niente di una breve distanza; e chissà se mai sia stato un uomo immenso, senza patria, che abbia ruggito, di fuoco, strappo intestino all'unico infinito locale personale, intuito nell'ombra della notte; respiro irregolare di una ortopunzione ortodossa. Prendo posto, mi accomodo; stretto, come sul sedile dell'autobus; porto a giro un carico, in orizzontale, in verticale, lo poso; mi rompo in pose, atti e posizioni. Sogno l'America chimera e la gioventù in colonne di una città fiorita; sogno sogni, singhiozzi della notte che ride. Spremo notti di dilemmi in poche dita di seme: se il padre impari dalla morte del figlio o il figlio da quella del padre, o se non impari mai nulla nessuno; e poi, che importa. Penso ai giorni di vita senza filosofia: il basilico e la caccia ai bruchi. Rapisco, stupro, saccheggio corpi; ballo la tarantella dei pederasti. Passeggio, vedo, rincorro il tempo, non diversamente da come fai tu all'Armani Cafè, in Saint-Germain-des-Prés. Sai, hanno potato gli alberi del nostro giardino e insieme ci hanno potato le braccia: sei in una città straniera, non ne provi dolore; hanno potato gli alberi al nostro giardino, ci hanno potato le braccia. La luna dalla finestra continua a ritagliare corpi, scolora e cova di macchie e brividi la pelle che sbuffa e s'increspa di mare come superficie di una terra che bolle di case, alberi e palazzi, che trema di civiltà nel suo inganno consueto di digestioni, valvole e membrane, d'avvenimenti di carta carbone. Qualche sconosciuto, come un padre, non smette mai di fartene ritratti, mentre tu ti sciogli per questa città d'acquerello ed incandescenze nelle prostitute rasserenanti dalla fica amichevole di madre, che vestono strade storte; nei pagliacci olimpici e nei clown eletti in luce di fanale, illusionisti confessi d'inganno; nei trucchi della notte, bianchi come calce di cliniche opaline. E l'ebrietà è la tua sola poesia in cerchio che alita sulla città in un'alba d'antenne e croci.

 
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c'è tanta gente al café Belgíë

Post n°146 pubblicato il 25 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

c'è tanta gente al café Belgíë, individui stretti come granchi nella tana, che bisbigliano e rumoreggiano mentre un formicolio cresce nel petto, fra i tavoli, come vino che fermenta, e impetuose balenano impressioni coscienti di cui mi invaghisco, di cui mi sono invaghito, mentre si schiudono ricordi. Ci sono tutte le persone e le cose che ho creduto essere andate, morte, sparite, ma che, ora capisco, è più corretto dire che sono già arrivate, soldati disertori dopo un armistizio, di cui nessuno si dà pena; mutazioni sociali, percorsi senza uscita dell'evoluzione. Il mondo è una impressione cosciente ed io lo so che, come il resto, sono già stato pensato al di là di una porta che cigola, la porta del tempo, con il suo suono d'acqua che stilla da un rubinetto. Sono cresciuto come una montagna, un bimbo, un'evoluzione: non c'è differenza se non per livello d'astrazione, e per il conto dei giorni. Fossi stato senza memoria, sarei rimasto sempre all'origine ma, nel qual caso, non ci sarebbe stata neppure la vita, con tutte le minuzie e le malizie di cui sia lei che noi ci pasciamo. Sono uno dei commensali al tavolo a cui ospite non pervenuta è l'esistenza. Aquiloni ricciuti soffiano in piccole sensuali vele di cartilagine sotto soli di capelli, petti e pance sussultano tenere e selvagge come la deglutizione, inconsulte, come uno scoglio che inghiotta un'onda. Sono belli e convenzionali gli esseri umani nei loro vestiti di carne; fusi, indistinti nella carne del tempo che invecchia. Non è più una sorpresa il fatto che mi sorprenda ancora chi non impara mai gli indugi e le incertezze ma resta triviale come la realtà, con le caviglie pelose nell'acqua. Bevo. Perdo i sensi e li ritrovo, e scopro che c'è tanto non senso nell'irreale quanto senso nella realtà e che inaspettatamente queste entità si somigliano molto. Eppure come è facile trovare una ragione a ciò che sta fuori di me e non mi appartiene e, al contrario, quanto consueto non avere spiegazioni per ciò che mi nasca dentro, per i parti della mente, per tutte queste sensazioni. Forse è perché l'esistenza non è altro che testimonianza e non ci è concesso di portarne di noi stessi. Fuochi di Pietramala, infondo non siamo diversi, fatue macchie celesti iridescenti infiammate dai respiri, lente combustioni. Dio giusto, lenta morte, dio eutanasia, dio vecchiaia, dove sei. E tu, luna sdentata, gentile, generosa come un lago, mare, azzurro d'Alemagna, turbolenta e rumorosa come suonatori di sax, dove sei. Cresco, gonfio sommessamente intorno a delle ossa, in mezzo agli altri, pioggia torrenziale di questa stanza: abbiamo aggiunto troppa sabbia al cemento su cui costruiamo le nostre case, nelle mura che crollano su solitudini di cui ciascuno, qui distratto, tiene la propria chiave; nei palazzi fitti come formicai dove a un tratto sbuchi tu. Divento liquido, macero, sono un sorriso, mi ramifico, la mente è lontana e intricata, una mappa senza rotte da Barcellona. Per pochi attimi vivo il me stesso che ho già vissuto, racchiuso là, ancipite, nel limbo dei brevi aneddoti che rimangono di una vita. Ho intenzionalmente voluto essere così occupato da non vederli: i baci da Adriano Meis, una tigre bianca, la cartilagine dell'orecchio rotta, la scriminatura dei capelli. I corvi non inghiottiranno mai gli avidi avvoltoi. Ci saranno solo brevi pause, simboli fisici, due boccali di birra che possano trasformarsi nel ramo d'oro per il mondo dei morti, efficaci per fottersi l'anima nella sua presenza parassitaria e larvale. Due boccali di birra e posso essere Ghandi che guida i seguaci dalle tenebre alla luce, persone sconosciute, ammucchiate, che fanno le bizze alla normalità, alla noia, burrascose come Unni su sedie appuntite e sofferenti, antiche come Camiti. Solo in questi momenti so parlare con la bocca piccola da una bocca grande, so possedere, maneggiare le cose come se non mi appartenessero. Mi accendo, so fantasticare ma non articolare; non creo forme, idolatro idoli: una partita a pallone con papà, tu che mi tieni la mano, il profilo di un viso su un guanciale, scoglio di scogliera: entità che non respirano più ma sono rimaste intatte come il corpo di San Cristoforo. Abbiamo corso e scherzato. Abbiamo corso e scherzato, e le nostre corse, i nostri scherzi, erano i suoi respiri. Poi ci siamo spostati, digerendo, come i bruchi. Per quanto vicini, per quanto lontani, muoversi senza raggiungersi mai, come Achille con la tartaruga. E nonostante questo, tutti continuano la loro strada, da capo a coda, da coda a capo, pensando che sia un tubo, trascinati d'inganno alla fiamma in spirale di falena. Dio è un infinito numero di casi e non c'è improbabilità dove non c'è numero: per questo siamo stati. Eppure una probabilità infinita in uno spazio infinito garantisce la vita ma non preserva singole esistenze: queste le conserviamo noi, per caso, per poco, semplici estensioni, sopravvivenze preservate, difese con ogni mezzo: pavoni dalla coda colorata, formiche sulle ali del mondo per far strage di batteri. Alla fine siamo stati esseri semplici o composti, abbiamo costruito cose semplici o complesse: atti di volontà su irriducibili complessità, riducibili semplicità, sempre vere, sempre false. E non convergono mai dalla fisica al mondo delle idee. Ma tutte cedono come bolle d'acqua. Tutte cedono come bolle d'acqua.

 
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luce che rimbomba

Post n°145 pubblicato il 22 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

luce che rimbomba, un piede che dondola. Pezzi di carta sotto le ruote della auto. Gabbiani sui vetri di protezione della ferrovia. Gente che parla, vento che scuote le labbra. Persone come virgole, pause più o meno lunghe su cui soffermarsi quando la vita annoia o diverte, quando ti costringe ai ritardi, ti confina in dei luoghi. Pieghe di jeans sulle scarpe. Vita che rallenta nella vita. Persiane sverniciate, antenne di TV senza segnale, coperte logore, intonaco opaco. Persone che invecchiano e muoiono, peli che bucano la pelle. Il ricordo del refettorio lindo delle suore. Defecazioni. Aria che esce dal naso come dalla gomma forata di una bicicletta. Ringhiere che sudano ruggine. Eiaculazioni. Sole. Giardini fertili di re menomati. Inutile rimediare. Questo è lo stato delle cose. Sono consapevole di aver perduto. So con certezza di non aver mai posseduto. La potenza esiste solo in quanto promessa di potenza. La morte è il desiderio di possedere e la vita è la nostalgia di aver posseduto. I ricordi sono delusioni viventi. La coscienza è il desiderio in atto. La nostalgia l'impossibilità dell'atto e della persistenza. Tutto è moto perpetuo eppure non c'è moto poiché ciò che è in movimento è per necessità sempre assente. La realtà è la scintilla della memoria. Dio non conosce i numeri e non gioca a dadi perché i numeri sono l'infinito che conosco. Se io conosco l'infinito, l'infinito non può conoscere dio. L'infinito che conosco è calcolo, ciò che aggiungo all'indefinito come la fragilità all'incomprensibilità dei corpi fragili. Non c'è reale differenza in alcuna cosa: la morte nasce e cresce in ciascuna come in bozzolo farfalla. Non è scheletro, è carne che cade; non sono culla e tomba, ma il filo che le unisce. Nessuno invecchia, solo somiglia sempre più a se stesso. La vita non è altro che sforzo, ruga, increspatura, crepa. Per questo chiamo vera vita la vita interiore: la verità è la via, ma la via non è verità. La vita è la morte che invidia la vita. Immaginare di essere più di questo, che ci sia altro fuori di me che mi completi, è una esigenza dovuta all'impossibilità di individuare la mancanza che presuppongo in ciò che non è conoscibile. Ho preso coscienza che non è che sappia poco, ma che la mia mente è il poco che sono. Non sono mai stato al mio scopo, non come barca d'albero spezzato né nave senza mare ma come nessuna isola cui approdare. Inutile e vuota perfezione è la superficie dove non si riverberano i rumori. La tempesta è finita. Jonah è già stato sacrificato al mare silvano, ricco e strano. Non ho più paura e adesso si può parlare. Faccio le corna, sul Barrio Alto, alla statua di Bernardo Soares. La voce si rompe come uno scroscio d'onde sulla scogliera. Metto giù le cose, per liberarmene, affidarle ad altro, a qualcuno, ad un altrove: poso la penna, sotterro la bara, non vado più a fondo. Ci sono sacchi vuoti da riempire. Intorno funi ed assi di risulta dal naufragio, per la mia diga. Il fondo, il piccolo, lo stretto conoscono la concretezza di ciò che è perso e nella consapevolezza non c'è destino. Il caso scava la nostra memoria. Oscillo in verticale e tocco il passato, il futuro, le possibilità. Il sangue mi circola in corpo non diversamente dalle vie di Nuova Delhi, dai canali di Amsterdam; profondamente come un autobus nell'Holland tunnel. Gli originali sono le mie copie. Ci sono cose e persone che non valgono un cazzo cui ho tolto occhi e bocca affinché avessero significato. Le copie che faccio del tutto sono la tortura, lo scarico, l'ago, l'ombelico; sono le buche vuote dove finisco per cadere; sono i ritratti di Tito di Rembrandt, l'inferno della memoria. Solo se non ne fai parte puoi andartene libero per i gironi dell'inferno. La natura mi spinge a cercare di scalfire, forzare la necessità con le opinioni. La natura è unisessuale, si masturba e clona se stessa. Tocco come un cubo di pietra il corpo che mi travalica. Astrazione e materia coincidono ma non mi riguardano: non sono neppure racchiuse in ciò che avrei voluto saper comunicare e che ho passato di mano riluttante, impaurito e deluso, come un carbone ardente, bruciando mani che non lasceranno tracce perché è per essere consumati che siamo vissuti. Ogni avvenimento, ciò che accade, è solo la preparazione di ciò che ne dirò. Ciò che dirò è il contesto che mi localizza, che mi rende reale, l'epitome di me stesso, costretto dalla memoria ad una stanza di solitudine, stipata di fantasmi. Sono un pistillo dentro ad un fiore. Non ci sono poeti che parlino lingue diverse dalla mia. Sono un'approssimazione dell'approssimazione della forma. Sono lo specchio della stessa morte che non sa di aver vissuto. Sono lo specchio dell'intero universo che è nulla, una stanza per cerimonie, bar mitzvah per agnelli al macello. Le cose mi si piegano addosso, s'arricciano, sbirciano nei miei pensieri. Le cose non si riconoscono neppure, sbattono le une contro le altre come relitti e balene spiaggiate dal mare. Non ho niente da dire. L'inferno è questo.

 
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la storia è una signora che caca eventi

Post n°144 pubblicato il 21 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

la storia è una signora che caca eventi e non ripete mai se stessa, anche se, alla fine dei conti, comunque la giri, sempre di merda si tratta. Non è diverso dai semi di una stessa pianta che cresceranno in fusti diversi, dalle esalazioni del tubo di scarico di un auto nell'aria che assumano forme imprevedibili. Per di più ognuno di noi ha a che fare con la propria di storia perché anch'essa tiene a servizio numerosi dei minori che ce la fanno in piccolo. Capita che questi signori qualche volta siano stitici, altre diarroici, più o meno dolorosi. Fatto sta che ciascuno deve affrontare anche la propria, di merda, come una marea che monta; e che nessun pesce si salva. Non restano buche, né passaggi: alle brutte li occupano la noia e l'indifferenza o, più spesso, la merda altrui. La mia storia oggi è un clisma opaco a doppio contrasto, la festa dei genitori, la simultaneità provocante di gambe nude primaverili, erette nelle piazze; la sala dei ricevimenti del castello di Fosdinovo, un calcolo alla vescica, la statua di Francesco di Marco Datini, alta e severa sulla piazza del Comune di Prato; l'intreccio di avambracci amici, tatuati di rocce rosse in mezzo al deserto; la chiesa ed il cimitero di san Martino a Gangalandi; e poi alcuni riflessi accecanti sul fiume ghiacciato di Brema, lo Weser, sotto al mulino; qualche tulipano del porto di Amsterdam, prima del mare, dietro la stazione; ed un ricordo del ventre rosso del drago di Mirabilandia, quando la balena ci ha inghiottiti insieme al papà che mi raccontava le storie da bambino, come nel libro di Pinocchio. Non sono che lessemi rotti d'altro stretti assieme in vite di vetri. Intorno c'è l'orrore rifratto di ciò che abbiamo creduto essere ma era solo diverso, ombra d'avorio di parole da una bocca grigia, piega fra i capelli, non ritrosa né divisa; e la gente che se ne va per strada, lacerti e frattaglie provviste d'occhi e bocca, varani dai sorrisi selvaggi, a sbando come pesci slamati, topi in una topaia, tubi digerenti, grasso che cola sulle strade, lacrime sull'ovale della faccia, galline nella trappola, pantagruelica rooster coop umana dove, per fare spazio, l'unica arte che abbiamo affinato è quella di sotterrare. Le ossa scrocchiano come mani nei pacchetti di patate fritte sotto il teatro dove si rappresentano l'arte, l'amore, il sesso, con tutto quel fallimento e quel fuoco e quel delirio. Dietro non è che carne ciò che conta, altrimenti niente conta qualcosa. Burattini, caricati a molla. Se solo avessi un posto abbastanza isolato dai rumori, lontano dalle grida sboccate dei trimalcioni e dagli sguardi delle civette strigiformi, potrei sentire il vero suono della vita. Ma forse neppure la rivelazione della sofferenza conduce alla virtù; e anch'essa distrae, fa troppa confusione. E allora scendo e me ne vado per strada; non incantato, ma staccato. Cerco di fuggire. I piedi sono come una coppia di cavalli di una biga da corsa, la testa un neon al fluoro. È un caos di vie, di piste per biglie sulla spiaggia e non puoi restarne fuori, ma devi scivolarci dentro, vagine di sabbia e pelle con cui risolvere i problemi irrisolti e la delusione più grande: la vita, quella che non ho costruito, ma su cui sono caduto per caso e che ho finto di prendere, improvvisa, come una città di neve. Che banale sconfitta non essere stato più intelligente degli altri. In fondo l'unico vero desiderio che ho è che mi capitasse di andarmene. Vorrei non avere un pensiero poiché qualsiasi risoluzione è comunque ingannevole, come tutte le soluzioni. Vorrei stare chiuso dentro un metrocubo d'infinito, nel vuoto, fuori dalla ripetizione. Poi ad un tratto ti vedo, fra la folla, reale, nata vecchia come ogni cosa nata, con gli artigli affondati nella carne come impronte di gabbiani sulla sabbia. Non porti più capelli lunghi da vergine, come Agnese; d'altra parte non lo sei più come quando lo eri solo di me. Somigli ad una puttana, Belladonna nella sua arte di androgino travestimento. Sei Sodoma e Gomorra ed una cattedrale. Sei come rinascere e non conoscere nulla. E ti guardo così, di sfuggita, come la morte stesa soffice ai lati della strada. So che, comunque, ti incontrerò ogni sera, la ragazza dei giacinti, nei sogni, oltre i miagolii della fame, i calci al pallone, la prostata da asportare di papà e le croste di pane per gli uccelli, irrancidite, nel piazzale. So che questo mi salverà. Ogni volta sembrerà vita affacciarsi sulla tua vita, a patto che somigli ad un vangelo innocuo che non parli di sacrificio. Quando comincerai ad invecchiare terrò fra le dita i tuoi capelli bianchi da strappare, draghi di carta e lanterne di fragilità. Saranno come bimbi di corsa nei viali che schiaccino l'erba dei prati. Saranno lucciole di strada che dividano il cielo dal cielo e la luce dall'anima.

 
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