Creato da corenapulitano il 10/10/2006

CORE NAPULITANO

il blog Napoletano per i Napoletani (tutte le informazioni sono prese dal web)

 

BUON NATALE

Post n°20 pubblicato il 24 Dicembre 2006 da corenapulitano

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AUGURI DI BUON NATALE A TUTTI GLI AMICI DEL BLOG 

*CORE NAPULITANO*

WAGLIU' AUGURI NAPOLETANI

DI UN FELICE 2007

 
 
 

LA TOMBOLA

Post n°19 pubblicato il 17 Dicembre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

altra usanza è, quella di aspettare la mezzanotte facendo il gioco di società forse più antico, cioè la TUMBULELLA, la tombola, ovvero quella che oggi e stata eletronicizata e chiamata Bingo, ma ogni Napoletano che si rispetti la notte di Natale deve fare almeno una cosiddetta passata, alla tradizionale TUMBULELLA, cioè quella composta da panariello, che sarebbe il cestino di paglia a forma di imbuto con sulla estremità un buco grande abbastanza per permettere al numerino di legno di fuoriuscire, (il numerino oggi viene chiamato bussolotto).

Poi abbiamo le cartelle che sono cartoncini con sopra scritti 15 numeri, (quelli che servono per fare la tombola piena) e dove si segnano i numeri che di volta in volta escono, i numeri si segnano posando sulla casella contenete il numero, un fagiolo ( o un altro legume dello stesso tipo) o in alcuni casi anche le bucce di mandarino.

Nella Tombola ci sono varie vincite che sono in ordine di importanza:

Ambo, Terno, Quaterna, Quintina, Tombola

Ambo si ottiene quando escono due numeri che sulla nostra cartella si susseguono in modo orizzontale, il terno ha la stessa tipologia solo che bisogna avere tre numeri, quattro per la quaderna, cinque per la cinquina, e tutti  i 15 numeri della cartella per fare Tombola, anche se in alcuni casi in base al numero di partecipanti cosi si gestiscono i premi, ad esempio se i partecipanti sono pochi onde avere premi bassi si eliminano le vincite più piccole quali ambo, e terno.

 
 
 

Natale a Napoli

Post n°18 pubblicato il 17 Dicembre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

Il Natale napoletano, benchè contaminato anch’esso dalle tendenze consumistiche della società contemporanea, conserva tutt’oggi alcuni aspetti forti della tradizione partenopea che ruotano attorno ai due simboli del presepe e del menu natalizio.

Le celebrazioni natalizie cominciano ufficialmente l’8 Dicembre ( Festa dell’Immacolata Concezione) giorno in cui si inizia la preparazione del presepe e terminano alla Befana (6 Gennaio), quando il presepe viene disfatto.

il menu Natalizio

Cenone della Vigilia (24 Dicembre)
- Spaghetti con le vongole (o lupini)
- Baccalà e capitone fritto
- Insalata di rinforzo e broccoli al limone

Pranzo di Natale (25 Dicembre)
- Minestra maritata
- Gallina al brodo
- Insalata di rinforzo e broccoli al limone

Dolci di Natale (tutte le festività natalizie)
- Struffoli
- Roccocò
- Mustaccioli
- Susamielli
- Pasta di mandorle

queste sono solo alcune prelibatezze che si usano mangiare a Napoli nel periodo Natalizio.

 
 
 

il presepe Napoletano

Post n°17 pubblicato il 17 Dicembre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

A Napoli si ha notizia del presepe già nel 1025, in un documento che menziona la Chiesa di S. Maria del presepe, e nel 1324 quando viene citata ad Amalfi una "cappella del presepe di casa d'Alagni". Nel secolo XV compaiono i primi "figurarum sculptores" che realizzano sacre rappresentazioni in chiese e cappelle napoletane - le più importanti sono quelle dei presepi di San Giovanni a Carbonara dei fratelli Pietro e Giovanni Alemanno, San Domenico Maggiore, Sant'Eligio e Santa Chiara. Sono statue lignee policrome a grandezza naturale colte in atteggiamenti ieratici di intensa religiosità, poste davanti ad un fondale dipinto. Verso la metà del 1500, con l'abbandono del simbolismo medioevale, nasce il presepe moderno per merito, secondo la tradizione, di San Gaetano da Thiene che nel 1530 realizza nell'oratorio di Santa Maria della Stelletta, presso l'Ospedale degli Incurabili, un presepe con figure in legno abbigliate secondo la foggia del tempo. Nel corso del secolo iniziano anche a comparire i primi accenni al paesaggio in rilievo che sostituisce quello del fondale dipinto; al bue e all'asinello - unici animali presenti nella rappresentazione - si aggiungono via via cani, pecore, capre. Durante il '500 si intensifica anche la costruzione dei presepi con figure di dimensioni sempre più ridotte fino a giungere alla realizzazione del primo presepe mobile a figure articolabili, allestito dai padri Scolopi nel 1627. Il secolo d'oro del presepio a Napoli è il '700 e coincide con il Regno di Carlo III di Borbone, sovrano mecenate che riporta la città partenopea al livello delle più ferventi capitali europee, alimentando una meravigliosa fioritura culturale e artistica, testimoniata anche dalla magnifica produzione presepiale. Cambiano le tecniche di realizzazione del "pastore" - termine con il quale s'individua qualsiasi personaggio presepiale - sostituendo la statua scolpita, la cui realizzazione richiedeva troppo tempo, con manichini con un'anima di fil di ferro, arti in legno e teste di terracotta ricavate da piccoli stampi, che avevano anche il pregio di poter essere articolati come richiedeva il personaggio, rappresentato nell'atto in cui veniva colto, dando l'impressione del movimento. Il "figurinaio" diviene una vera e propria professione, che coinvolge anche le donne di casa adibite al taglio e cucito delle vesti, con specializzazioni diverse, nella realizzazione di pastori, di animali di strumenti di lavoro e musicali, di prodotto dell'orto e minuterie varie tutti riprodotti in scala. Tra questi eccelle Giuseppe Sammartino e per gli animali Saverio Vassallo. Nasce lo "scoglio", una sorta di sperone roccioso che, a seconda delle dimensioni può ospitare la scena del "Mistero" (Maria, Giuseppe, Gesù, Angeli, bue e asinello) o costituire la base per tutto il paesaggio presepiale. La grotta, con una miriade di Angeli che scendono dall'alto viene sempre più spesso sostituita con le rovine di un tempio pagano; la scena della Natività è sempre più defilata e quasi soffocata nello scenario circostante sovrabbondante di personaggi e paesaggi, nei quali spicca il corteo dei magi reso più esotico dal seguito dei "mori" abbigliati con vesti orientali dai colori sgargianti. Aumenta il numero dei personaggi che diventano folla di contadini, pastori, pescatori, artigiani, mendicanti, popolo minuto e notabili, tutti colti nelle loro attività quotidiane o in momenti di svago, nei mercati, nelle botteghe, taverne, vie e piazze in scorci di vita cittadina o paesana. Il presepe diventa una vera e propria moda. Lo stesso re, abile nei lavori manuali e nella realizzazione di congegni, si circonda di scenografi, artisti e architetti. Tra questi G. B. Nauclerio che, attraverso tecniche di illuminazione, simulava il passaggio dal giorno alla notte e viceversa e ancora Cappello e De Fazio nonché il dilettante Mosca impiegato e geniale presepista. La regina e le dame di corte confezionano minuscoli abiti per i manichini con le stoffe tessute negli opifici reali di San Leucio. Il presepio immenso, viene allestito in alcuni saloni del Palazzo Reale di Napoli, con centinaia di personaggi e una gran cura per i dettagli. I nobili naturalmente imitano il sovrano rivaleggiando tra loro per sontuosità e ricchezza dei materiali utilizzati: gemme preziose, magnifiche stoffe catturano l'attenzione del "popolino" - ammesso nelle case patrizie per ammirare il presepio - forse più della scena stessa. Famosi i presepi allestiti per il principe di Ischitella, con i Magi abbigliati con vesti dove brillavano innumerevoli gioielli. Il presepio si diffonde anche presso il popolo partenopeo, anche se in forma naturalmente meno sontuosa; ogni casa ha comunque il suo presepio seppure con pochi "pastori" raggruppati su un minuscolo "scoglio", dentro la "scarabattola", una teca da appendere al muro o tenere sul comò. E' tale la frenesia del presepe di Napoli da suscitare le pur bonarie critiche dell'architetto Luigi Vanvitelli che nel 1752 scrivendo al fratello Urbano a Roma, definisce il presepe una "ragazzata" pur rilevando "l'abilità" e la "efficace applicazione" dei napoletani così "goffi nel resto". E' chiaro che il presepe settecentesco, non a caso definito cortese, di sacro conserva ben poco. Si rivela più una esperienza mondana dei nobili e ricchi borghesi: l'avvenimento e il passatempo principale delle festività natalizie, quando il re e la corte visitavano i presepi più rinomati della capitale del regno che talvolta riuscivano a stupire anche la regina come accadde a Carolina nel 1768, alla visita del presepe allestito nella chiesa di Gesù Nuovo. Tuttavia l'universalità e la spettacolarità che si accompagnano all'evento presepio del '700 e le critiche che ne conseguirono, nulla tolgono alla valutazione del fenomeno come concreta espressione d'arte barocca naturalistica, né ai suoi caratteri di tangibile documento storico, descrittivo dei costumi, delle usanze e delle tradizioni del popolo napoletano in un'epoca che vide Napoli splendida capitale di cultura e d'arte e meta irrinunciabile di colti viaggiatori italiani e stranieri. Dopo il regno di Ferdinando IV il presepe cominciò a decadere. La maggior parte dei presepi furono definitivamente smontati, i pastori venduti o dispersi. Di questi fantastici presepi non è giunto fino a noi quasi nulla. Tra i pochi salvati, va ricordato il magnifico allestimento Cuciniello, donato dallo scrittore Michele Cuciniello alla città di Napoli e conservato nel Museo della Certosa di San Martino.

 
 
 

San Gregorio Armeno

Post n°16 pubblicato il 11 Dicembre 2006 da corenapulitano
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Chi vuole, può naturalmente acquistare un presepe già fatto, comprando poi separatamente i pastori con cui addobbarlo. In genere si parte dai 30-45 euro per modelli semplici, ma realizzati con molta cura,  per i pastori da 5 cm fino a giungere alle migliaia di euro per le grandi realizzazioni basate sulle riproduzioni dei pastori classici del Settecento.

Via San Gregorio Armeno può essere naturalmente  visitata durante tutto l’anno: le gran parte delle botteghe sono sempre aperte e hanno in mostra i loro manufatti, benchè in numero ridotto. Però è possibile osservare i pastori ed ammirare gli artigiani a lavoro con maggior calma che nel periodo natalizio, dove il grande afflusso dei turisti rende la strada molto affollata.

 
 
 

LA PIZZA

Post n°15 pubblicato il 09 Dicembre 2006 da corenapulitano
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Molte migliaia di anni fa ......... l'uomo diventava agricoltore e raccoglieva i chicchi di grano: quando ne aveva bisogno pestava questi chicchi e se ne nutriva......... Scopri' anche che poteva impastare quel grano macinato il piu' finemente possibile con acqua, e arrostire quell'impasto, a forma di disco su pietre roventi. I primi che fecero questo aprirono la strada alla conquista del pane, delle schiacciate, delle pizze, e in seguito delle lasagne e degli spaghetti. Da nomade inerme divenne cacciatore e pescatore, poi ancora addomestico' alcuni animali perche' ci fu una specie di patto, di mutuo sostegno e con il loro aiuto l'uomo divenne anche pastore........ Quello che possiamo dire e' che pane, pizza, focacce e via dicendo sono insieme, all'origine nella stessa radice della nostra civilta'. Quelle schiacciate di pasta arrostite sulle pietre furono cotte, man mano anche in modo piu' comodo....... Il grande passo successivo fu quando venne scoperto il principio della lievitazione, e fu inventato il primo forno. Questo avvenne circa seimila anni fa: e in Egitto.

In tutta la zona del vicino Oriente, chiamata anche la mezzaluna fertile, dal Nilo all'Eufrate, la storia aveva camminato piu' in fretta che nelle terre circostanti.
C'era stato chi aveva notato che l'impasto, per quello che genericamente era chiamato il pane, veniva a volte invaso da forze misteriose le quali lo facevano gonfiare e poi guastare. Alcuni consideravano impura quella pasta e la buttavano via, alcuni, invece pensarono di strumentalizzare il fenomeno: tutto dipendeva dalle concezioni religiose.

Gli ebrei, per esempio, erano tra i piu' rigidi e rifiutavano sempre il pane lievitato e nei loro riti non era ammesso (ancora oggi, nella Messa cattolica, si usa l'ostia non lievitata come pane).
Gli egizi impararono, dunque, a utilizzare quella pasta, a cuocerla e a conservarne qualche pezzetto per trasmettere ad altra pasta la stessa forza di crescere. Gli egiziani inventarono il forno, di questo abbiamo informazione certa, che era a forma di cono.

Il fuoco si metteva dentro, fuori si appiccicavano letteralmente i panetti: quando cadevano voleva dire che erano cotti da una parte, ma venivano riappiccicati dall'altra per completare la cottura. Solo in un secondo tempo venne l'idea di dividere in due il forno per mettere sotto il fuoco e sopra, per cuocere, le schiacciate di pasta e acqua lievitate.
Questo cibo, intanto, aveva un carattere religioso unico, il punto e' che certamente ci furono pani in forme rituali, migliaia di anni fa, come offerte alle varie divinita' e in varie circostanze.......... ne troviamo ancora molti in uso in varie regioni d'Italia e in altre parti del mondo, anche se si sono persi per via i significati votivi originari.
Tra questi pani ce n'erano anche di quelli arricchiti con olive, ciccioli di maiale, antenati delle focacce e delle torte rustiche di oggi; ce n'erano anche di quelli arricchiti con miele, uvetta, pinoli, canditi, che sono diventati i vari panettoni, pangiallo, pandolce, e via dicendo, delle diverse tradizioni.
Come che sia, qualche riferimento anche di carattere linguistico su quelle e primitive schiacciate che accompagnarono la vita italiana dall'eta' romana a quella medioevale e oltre, lo troviamo proprio al passaggio emozionante dell'anno Mille, quando in tanti aspettarono la fine del Mondo..........
 

Tornando a Napoli, verso il Mille si parla di lagano ma compare anche il termine picea, non sappiamo se in alternativa o per indicare una preparazione diversa, nel senso di avere gia' il disco di pasta coperto da ingredienti colorati e saporosi prima di mandarlo in forno; e compare subito dopo il termine pizza: non dimenticando pero' che il termine pizza indica anche oggi nel sud d'Italia non solo la classica pizza, la schiacciata candita e mandata in forno, ma anche dischi di pasta ripieni e fritti, focacce ripiene, o preparazioni analoghe.........

Nel Seicento, in una deliziosa operetta napoletana, il Cunto de li Cunti, cioe' il racconto dei racconti, serie di storie legate l'una all'altra a catena, ce n'e' una intitolata " Le due pizzelle", ma non si capisce esattamente che cosa siano, salvo il fatto che almeno una e' fatta con un disco di pasta ripiegato su un ripieno.

Bisogna ancora arrivare al Settecento per veder comparire la pizza delle pizze, quella che poi ha fatto il giro del mondo: la pizza col pomodoro, in diverse versioni, ma sempre con questa sua rosseggiante immagine.
La ragione di un cosi' tardivo accoppiamento e' la stessa che presiede alla nascita degli spaghetti al pomodoro, che conquistarono Napoli (dove fino allora, contrariamente a quanto molti credono, il piatto piu'comune era una zuppa di cavolo e ritagli di carne) e poi partirono alla conquista del mondo. La ragione e' che il pomodoro in Europa non esisteva fino a quando non venne introdotto dall'America; e questo non avvenne in un giorno. Passo' un secolo e mezzo prima che gli europei scoprissero le virtu' del pomodoro in cucina e i napoletani in particolare ne facessero una loro bandiera culinaria. Vedete, e' solo in tempi recentissimi rispetto alle migliaia di anni che abbiamo varcato, prima, che nascono la pizza al pomodoro, e gli spaghetti al pomodoro.

E' questa pizza in particolare, per il nostro discorso, fu quella che conquisto' tanta popolarita' ovunque, in un certo senso ci ha portati a distinguere tutte le pizze di ogni parte del mondo come una ghiottoneria a se' stante.........
Verso la fine del Settecento dunque si incomincia, se non a mangiare, a distinguere in modo particolare la pizza, a Napoli, prima che spicchi il suo volo nel mondo.

E la rossa pizza di pomodoro e' anche quella che rida' interesse, e richiama l'attenzione su tutte le altre pizze, tra le quali le prime probabilmente erano state quelle con aglio e olio a crudo, o a cotto, quella con mozzarella e acciughe salate, quella coperta di pesciolini minutissimi, detti cicinielli, che sembra anche una delle piu' antiche. E ancora si parla di una pizza ripiegata a libretto che forse era una sorta di calzone, col suo ripieno.


Dobbiamo, ancora, arrivare al 1830 per avere notizia certa dell'esistenza di una pizzeria vera e propria (fino allora i pizzaiuoli avevano solo dei banchi all'aperto) che viene considerata la prima nata a Napoli, detta Port'Alba, perche' si trovava a fianco dell'arco che da piazza Dante imetteva in via Costantinopoli.

Era una pizzeria con il suo bravo forno rivestito di mattoni refrattari e il fuoco alimentato a legna.

In seguito fu considerato ideale il forno rivestito all'interno addirittura con lapilli vesuviani, piu' adatti ancora dei mattoni a toccare l'alta temperatura richiesta e ad ottenere le migliori pizze. La pizzeria Port'Alba molto tempo dopo divenne un ritrovo di artisti e scrittori famosi, forse fu li che D'Annunzio, sul piano di marmo di un tavolino, scrisse i versi di una delle piu' stupende canzoni napoletane: A vucchella.
E tra i frequentatori illustri fu , certo, Salvatore di Giacomo, che pure alla pizza ha dedicato piu' volte i suoi versi. Del resto sono tanti i poeti, gli scrittori, i musicisti, che in epoca moderna alla pizza hanno dedicato qualche favilla del loro ingegno e del loro estro. Se ne occupo anche estesamente il padre dei Tre Moschettieri, Alessandro Dumas, nel corso di una serie di scritti di viaggio, una sorta de servizi di inviato speciale, raccolti nel "Corricolo". Dumas mise insieme, sulla pizza, osservazioni acute e informazioni cervellotiche.

Scrisse, ad esempio che "la pizza e' una specie di stiacciata come se ne fanno a St. Denis: e' di forma rotonda, e si lavora con la stessa pasta del pane. A prima vista e' un cibo semplice: sottoposta a esame, apparira' un cibo complicato". Aveva ragione, e quel riferimento alle schiacciate di St. Denis ci conferma che una sorta di pizza e' cibo universale...........

Dumas ricordava anche i vari tipi di pizza: i piu' comuni, quindi, nella prima meta' del XIX secolo; e cioe' all'olio, al lardo, alla sugna, al formaggio,al pomodoro, ai pesciolini ( i cicinielli, appunto). E dichiarava, tranquillamente, che c'era anche una pizza detta "a otto" che si cucinava una settimana prima di mangiarla. Aveva preso una grossa cantonata, la pizza a otto, istituzione rimasta a lungo, forser ancora in auge ai nostri giorni, voleva dire che la pizza si mangiava subito ma si pagava a otto giorni di distanza, anche se questa facilitazione costava in vero un qualche sovrapprezzo. 

Finalmente, si parla molto di pizza anche in una celebre opera "Usi e costumi di Napoli" di un autore di nome francese: il De Boucard, che pero' era tutto napoletanizzato e che si valeva comunque dell'aiuto di un superesperto - diremmo oggi - il cavalier Emanuele Rocco.
Siamo verso la meta' del XIX secolo, ormai, verso il 1850, cito dal testo:

"La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perche' si fa col fiore (di farina) e perche' e' una specialita' dei napoletani, anzi delle citta' di Napoli (sentite il giusto orgoglio patriottico e la sottile polemica). Prendete un pezzo di pasta (da pane), allargatelo col mattarello o percuotetelo con le palme delle mani, metteteci sopra quanto vi viene in testa, conditelo di olio o strutto, cuocetelo al fuoco, mangiatelo, e saprete che cosa e' la pizza. Le focacce e le schiacciate sono alcunche' di simile, ma sono l'embrione dell'arte. Poi anche questo testo enumerera' le varieta' di pizza piu' in uso: e sono quelle con aglio e olio a cui si aggiungeranno origano e sale; con formaggio grattuggiato, strutto, basilico; oppure con pesce minuto; altre ancora con mozzarella, con prosciutto, arselle; e compare, ma non in funzione di primaria importanza, il pomodoro.


Cosi' arriviamo alla fine del secolo, con un episodio celebre, che bisogna pur raccontare nei suoi veri termini.
Siamo esattamente nel 1889.Quella estate il re Umberto I con la regina Margherita, la trascorsero a Napoli, nella reggia di Capodimonte, come voleva una certa regola della monarchia, o per fare atto di presenza nell'antico regno delle due Sicilie.
La regina era incuriosita dalla pizza che non aveva mai mangiato e di cui forse aveva sentito parlare da qualche scrittore o artista ammesso a corte.
Ma non poteva andare lei in pizzeria cosi' la pizzeria ando' da lei; cioe' fu chiamato a palazzo il piu' noto rinomato pizzaiuolo del tempo che si trovava alla salita Sant'Anna, a pochi passi da via Chiaia.
Don Raffaele venne, vide e vinse, utilizzando i forni delle cucine reali, assistito dalla moglie donna Rosa, che era poi la vera maestra di pizze, la vera autrice di quelle classiche che furono presentate ai sovrani (le cronache del tempo ci hanno informato di tutto): una con sugna che e' una sorta di strutto, formaggio e basilico; una con aglio, olio e pomodoro e una terza con mozzarella, pomodoro e basilico, cioe' con i colori della bandiera italiana, che entusiasmo' in particolare la regina Margherita, e non solo per motivi patriottici.
Don Raffaele, da bravo uomo di pubbliche relazioni, colse al volo l'occasione e chiamo' questa pizza " alla Margherita", il giorno dopo la mise in lista al suo locale ed ebbe, come si puo' immaginare, innumerevoli richieste........
E questa e' la storia vera; solo che la pizza alla margherita o pizza margherita, come si incomincio' a chiamarla, passava per una novita', una invenzione vera e propria, mentre si sa che esisteva gia' prima. Non era considerata tra le piu' classiche e importanti pero' a Napoli si faceva gia'. Per esempio, per un'altra regina, la borbonica Maria Carolina, che di pizze era ghiotta, tanto che aveva voluto a corte, nel palazzo di San Ferdinando, un forno apposito.
Carolina amava molto quella pizza bianca, rossa e verde; ma forse, se avesse potuto immaginare che quelli sarebbero stati i colori dell'Italia unita sotto un'altra dinastia, che avrebbe cacciato la sua, non ne sarebbe stata piu' tanto entusiasta...............
Le due pizze che hanno fatto piu' strada sono la cosiddetta napoletana uguale alla margherita ma con l'acciuga; e la stessa margherita. Pero' storicamente, l'abbiamo visto, altre precedono e vantano patenti di nobilta' di autenticita' partenopea..............

 
 
 

LA LEGGENDA DEL MONACIELLO

Post n°14 pubblicato il 01 Dicembre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

Ogni abitazione, nella città di Napoli, poteva attingere acqua dalla cisterna sottostante tramite un pozzo al quale aveva accesso il "pozzaro", una classe di liberi professionisti che si muovevano con destrezza in questi antri  di napoli sotterranea camminando lungo stretti cunicoli e arrampicandosi su per i pozzi grazie a dei fori praticati a distanza più o meno regolare.

Questi personaggi, veri signori del mondo sotterraneo avevano libero accesso a tutte le case mediante i pozzi e hanno dato origine ad aneddoti e leggende ancora vive nell'immaginario napoletano come quella dei "monacielli", spiriti benevoli o maligni che si occupavano più della padrona di casa che della rete idrica, ed usavano le vie sotterranee che conoscevano bene, per sparire o apparire, sotto il mantello da lavoro che, nella penombra, somigliava appunto al saio di un monaco.

Sara questa la vera storia sul monaciello???

 
 
 

NAPOLI SOTTERRANEA

Post n°13 pubblicato il 01 Dicembre 2006 da corenapulitano
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A quaranta metri di profondità sotto le vocianti e caratteristiche vie del centro storico di Napoli, si trova un mondo a parte, per molto ancora inesplorato, isolato nella sua quiete millenaria eppure strettamente collegato con la città.

E' il grembo di Napoli, da cui essa stessa è nata. Visitarlo significa compiere un viaggio nel tempo lungo duemila e quattrocento anni.

Ogni epoca, dalla fondazione della Neapolis alle bombe della seconda guerra mondiale, ha lasciato traccia sulle mura di tufo giallo, pietra con cui la città è costruita.

Una lunga profonda storia
Ai romani e al loro talento ingegneristico per le opere civili va attribuito il merito, dopo uno studio del territorio, di aver costruito una fitta rete di cunicoli idrici, che si collegavano ad acquedotti maggiori. Le cave di tufo continuarono per molti secoli, fin dall'epoca paleo- cristiana, ad essere adibite al culto dei morti e alle pratiche religiose. Tra le catacombe più note quelle di San Gennaro, che hanno custodito le spoglie del patrono cittadino fino all'817 e gli ipogei nella zona della Sanità. Un affascinante percorso sotterraneo è quello di Vico Traetta ai Cristallini. La struttura sottostante sorregge un palazzo settecentesco. Da un cortile del vicolo, scendendo alcuni scalini, si giunge ad un piccolo tempio, ornato da colonne scavate nel tufo. Attraverso un foro a misura d'uomo si passa in camere mortuarie, non tutte ben conservate, ma dalle pareti affrescate. Ancora più noto è il "cimitero delle fontanelle", annesso alla parrocchia di S. Maria del Carmine, costruita alla fine dell'Ottocento, all'imbocco di una cavità usata anticamente come cimitero abusivo, poi cimitero dei poveri, in seguito cimitero di appestati e infine come deposito di ossa provenienti dalle terre sante delle chiese.

Nel cuore della Napoli sotterranea
L'affascinante viaggio per esplorare Napoli sotterranea può continuare da una zona particolarmente ricca di storia e di fascino: i quartieri spagnoli. Si entra proprio dal cuore della città, vicinissimi a San Gregorio Armeno. All'ingresso della sede dell’
Associazione Napoli Sotterranea (tel. +39 081 296944), che organizza le visite guidate, si apre una scala che ci conduce in basso, scavata nel tufo giallo su cui poggia tutta la città. Se ci può stupire dapprima per la vastità, non meno sconcertante risulta il silenzio sovrannaturale che vi regna, del tutto in contrasto con il brulichio di suoni e di voci della città partenopea. La guida che ci ha accompagnato potrebbe chiedere anche a voi di sostenere una sorta di "prova del silenzio": un minuto trascorso nell'oscurità, in assoluta mancanza di suoni.

1943-1945: la guerra nei sotterranei
Si scende per circa 40 metri, in senso orario, e alla fine si sbuca in un'ampia cavità a forma di campana, da cui si diramano passaggi e cunicoli che collegano con altre cavità. Subito si scorgono in alto i sostegni dei fili elettrici che illuminavano le stanze scavate nel tufo nell'ultima guerra, quando centinaia di persone tra il '43 e il '44 vi si rifugiarono anche per mesi durante i bombardamenti aerei. I sedili in muratura, provvisorie divisioni dei locali - alcuni adibiti a servizi igienici - ricordano i mesi vissuti senza luce naturale. Lo stato di reclusione non ha impedito di lasciare alcuni graffiti, volti di donna e profili di D’Annunzio e Mussolini.
Esiste anche una "sala degli sposi", con i nomi e la data dei due promessi, forse il regalo di uno spazio riservato all'intimità da parte dei rifugiati , o forse no.
Questo ed altri misteri restano prigionieri della Napoli sotterranea

 
 
 

La Reggia di Portici

Post n°12 pubblicato il 24 Novembre 2006 da corenapulitano
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A lungo si è creduto che il Palazzo fosse stato ideato e realizzato in funzione delle ville preesistenti acquistate da Re Carlo; oggi però, gli studiosi, in base ad un’attenta lettura delle antiche proposte progettuali (che non furono accettate dal Sovrano perché finalizzate allo spostamento della strada regia), trovano spiegazione della particolare costruzione della Reggia non tanto in motivazioni architettoniche quanto piuttosto in motivazioni di carattere politico e sociale: Re Carlo voleva cioè «sperimentare una nuova forma di palazzo che incarnasse verso l’esterno l'idea di “monarchia clemente”, che consentisse al popolo di sentirsi materialmente e fisicamente più vicino al sovrano» (Barbera).

Nato come dimora estiva della Corte, il Palazzo Reale divenne col tempo residenza reale e sede del Museo Ercolanense, voluto da Re Carlo per raccogliere gli oggetti portati alla luce ad Ercolano (Portici divenne così una delle mete del Grand Tour).
Terminati i lavori nel 1742, la Reggia si rivelò però insufficiente ad ospitare tutta la corte, e così molte famiglie aristocratiche, per star vicino ai sovrani, acquistarono o fecero costruire ville nei dintorni, creando quel patrimonio artistico caratteristico dell’area, noto come “Ville Vesuviane”.
Il Palazzo presenta una superba facciata con ampie terrazze e balaustre ed è costituito da una parte inferiore ed una superiore, divise da un vasto cortile attraversato dall’antica “Strada regia delle Calabrie”, attualmente viale Università.

Dal vestibolo si accede al primo piano attraverso un magnifico scalone lungo il quale sono poste statue provenienti da Ercolano; ed anche per i pavimenti di alcune stanze furono usati mosaici provenienti dagli scavi delle cittadine vesuviane.
Al primo piano vi sono la Sala delle Guardie e la Sala del Trono, che ancora conservano parte delle decorazioni originarie; da ammirare, poi un gabinetto Luigi XV ed un altro cinese sempre con pavimentazione proveniente da Ercolano.


Tra le realizzazioni più preziose, ricordiamo il salottino di porcellana della Regina Maria Amalia, splendido esempio della perfezione raggiunta dalla Real Fabbrica delle Porcellane di Capodimonte: attualmente si trova presso il Museo di Capodimonte a Napoli.
Anche la splendida cappella barocca conserva due colonne di marmo rosso che, impiegate per la realizzazione dell'altare, provengono dalla scena del teatro di Ercolano.

Come per la Reggia di Caserta e di Capodimonte, il parco costituisce una delle meraviglie del Palazzo: si tratta di un giardino all’inglese dolcemente degradante verso il mare, caratterizzato da lunghi viali: notevole è la Fontana delle Sirene, una statua di scavo raffigurante la “Vittoria”, il “Chiosco” di Re Carlo, con un tavolino con mosaico, la Fontana dei Cigni e la statua di “Flora”, anch’essa di scavo; vi è poi un anfiteatro a tre ordini di scale.
Interessante anche l'area per “il gioco del pallone”, o “gioco delle fortificazioni”, destinata ad ospitare un’antica forma sportiva, oggi scomparsa, simile alla pelota spagnola.

Al di là del giardino si estendeva il bosco, realizzato secondo le tipiche attrazioni adibite agli svaghi di corte: il recinto per il gioco del pallone, la piazza forificata per le esercitazioni militari, la fagianeria, ecc. Nel 1742 vi fu messo uno zoo con animali esotici, tra cui un elefante regalato a Re Carlo dal sultano Mahmud, per il quale fu pubblicato anche un opuscolo, Dissertazione dell’Elefante, del 1766.
 

 

 
 
 

PIAZZA DEL PLEBISCITO

Post n°11 pubblicato il 21 Novembre 2006 da corenapulitano
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OVVERO LARGO E PALAZZO, QUESTO IL VERO NOME DELLA PIAZZA FINO AL 1861

Piazza del Plebiscito è diventata il simbolo del recente rinnovamento di Napoli da quando è stata recuperata alla sua funzione rappresentativa in occasione del G7 (oggi G8, la ricorrente riunione dei paesi più industrializzati del mondo) tenutasi qui nell'autunno 1994. Da allora questa area è una isola pedonale lasciata alla fruizione di turisti e cittadini. Viene di tanto in tanto utilizzata per concerti e manifestazioni oppure per esporre installazioni di arte contemporanea.

 

Inizialmente nello spazio della piazza si trovavano alcuni conventi. Il primo fu il monastero francescano di Santa Croce, costruito per volere degli Angioini e corrispondente pressappoco all'odierno Palazzo di Salerno che chiude a sud la piazza e che ingloba nei suoi muri l'antica chiesa di Santa Croce, dove fu sepolto il giovane erede al trono. Il monastero fu demolito nel 1775 e il nuovo palazzo costruito al suo posto fu prima sede militare e ministeriale, poi abitazione personale del Principe di Salerno, da cui il nome. Oggi è di nuovo sede di un comando militare.

La parte settentrionale della piazza ospitava invece il Monastero del Santo Spirito, vicino al quale si sviluppò un piccolo borgo attorno a una piazza ("Largo di Santo Spirito") corrispondente alla attuale Piazza Trieste e Trento. Il monastero fu demolito nei primi anni del Seicento per la costruzione nuovo Palazzo Reale, allo scopo di allargare lo spazio davanti alla facciata principale. Il palazzo che oggi chiude a Nord la piazza, in corrispondenza simmetrica con quello di Salerno, è il Palazzo della Foresteria, costruito nel 1815 e che oggi ospita la Prefettura.

Al centro della attuale piazza, sorse poi sotto gli Aragonesi il Convento di San Luigi, fondato dal cosentino San Francesco di Paola che qui si stabilì al ritorno dal suo leggendario pellegrinaggio dal Re di Francia. Un aneddoto racconta che il Santo, in risposta alle obiezioni di Re Ferrante che gli sconsigliava la scelta di questo luogo, abbia predetto che sarebbe diventato "il più regale e onorato della città". Il convento fu poi definitivamente distrutto nei primi anni dell'Ottocento per far posto alla nuova piazza del Foro creata dal governo napoleonico del Decennio Francese (1805-15) con il colonnato semiellittico in stile neoclassico progettato da Leopoldo Laperuta.

Al ritorno dei Borboni, Ferdinando IV Re di Napoli (e I come Re delle Due Sicilie) volle conservare le nuove opere ma volgendone il significato celebrativo in funzione della restaurazione monarchica. Fece così porre al centro dell'emiciclo colonnato (di fronte al Palazzo Reale) la Basilica dedicata a Francesco di Paola, non solo perché tradizionalmente amato e venerato a Napoli, ma anche perché fondatore proprio di quel convento distrutto per fare posto al nuovo Foro napoleonico.

La chiesa, costruita tra il 1816 e il 1836 su progetto di Pietro Bianchi, è una imitazione del Pantheon romano, a pianta circolare e coperta da una cupola emisferica con lacunari in pietra. L'elemento di maggior valore è senz'altro l'altare maggiore, riccamente intarsiato di marmi, opera del 1751 di Ferdinando Fuga e originariamente posto nella chiesa dei Santi Apostoli, nel centro storico. Precede la chiesa un pronao in stile neoclassico, sormontato da un timpano ai cui vertici si trovano le statue della Religione, di San Francesco di Paola e di San Ferdinando.

Nei due fuochi della ellisse che definisce la pianta del colonnato furono poste due statue equestri in bronzo. Quella a nord è opera di Antonio Canova, che aveva ricevuto da Giuseppe Bonaparte la commissione di una statua del fratello Napoleone a cavallo, ordine poi confermato da Ferdinando di Borbone, cambiando però la figura in quella del padre Carlo. Ferdinando ne chiese poi una seconda per sé stesso di cui Canova fuse però solo il cavallo e che fu completata dal suo allievo napoletano Calì.

 
 
 

PALAZZO REALE

Post n°10 pubblicato il 21 Novembre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

La genesi del palazzo reale di Napoli risale all'epoca vicereale: ai primi del '600 i viceré spagnoli sentirono l'esigenza di una reggia ampia e elegante che potesse ospitare sfarzosamente la corte, e i sovrani nel corso dei loro viaggi in città. Il progetto fu affidato a Domenico Fontana (proveniente dalla corte papale), che si ispirò a canoni tardo-rinascimentali; successivi ampliamenti e abbellimenti si ebbero nel '700 e nell'800.
Dal 1600 al 1946 il Palazzo Reale è stato ininterrottamente la sede del potere monarchico a Napoli e nell'Italia meridionale: suoi inquilini furono dapprima i viceré spagnoli e austriaci, poi i Borbone e infine i Savoia. Dal 1919 il complesso ospita il Museo dell'appartamento storico, e la Biblioteca Nazionale.

Nella facciata si apre una serie di archi e di nicchie; all'interno di queste ultime, i Savoia vollero far porre 8 statue rappresentanti i più illustri sovrani delle varie dinastie ascese al trono di Napoli compresa la statua che raffigurasse Vittorio Emanuele II nonostante il fatto che prima lui centrasse poco con i Re di Napoli e delle due sicilie, e che poi lui non era il capostipide dei Savoia, quindi la sua statua era ed è decisamente fuori luogo.

Dal cortile d'onore si accede al Museo dell'Appartamento storico di Palazzo Reale, che conserva l'arredo e le decorazioni del piano nobile; incantevole è lo scalone di ingresso del palazzo, rivestito di marmi e stucchi, e molto interessanti sono il teatrino di corte e la Cappella Reale. Suggestivi sono anche i giardini, mentre di fondamentale importanza culturale è la ricchissima Biblioteca Nazionale, ospitata nella parte posteriore del complesso.

 

 
 
 

MASCHIO ANGIOINO

Post n°9 pubblicato il 21 Novembre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

Il Maschio Angioino, o Castel Nuovo, sorge nel mezzo dell'ampia Piazza Municipio, al lato dei giardini del Palazzo Reale, e a pochi passi dal porto di Napoli. In effetti, sia il castello, sia il parco, sia il porto furono edificati nello stesso periodo, sotto la dinastia di Carlo I d'Angiò (a cui si deve la prima denominazione della fortezza), periodo in cui tutta la zona ebbe una particolare fioritura.

Il castello, caratterizzato da cinque possenti torrioni cilindrici, fu eretto tra il 1279 e il 1282, su progetto affidato dal sovrano angioino ad un architetto francese. La seconda denominazione, quella di Castel Nuovo, gli fu attribuita in seguito agli integrali lavori di rifacimento commissionati da Alfonso d'Aragona dopo la sconfitta dei francesi, e il passaggio della città in mano spagnola: artisti catalani e fiorentini ampliarono e fortificarono la struttura, abbassando le torri e inspessendo le mura (l'aspetto originario è oggi visibile solo nella Cappella di Santa Barbara, che ospita resti di affreschi di Giotto e di suoi allievi). Di particolare rilevanza è l'arco marmoreo di accesso al castello, ideato per celebrare il successo e la potenza della dinastia aragonese, con un richiamo rinascimentale agli archi di trionfo romani.

Il castello è sede della Società Napoletana di Storia Patria e il Museo Civico; inoltre, la Sala dei Baroni ospita le sedute del Consiglio Comunale.

 
 
 

CASTEL DELL'OVO

Post n°8 pubblicato il 21 Novembre 2006 da corenapulitano
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   Sull'antico Isolotto di Megaride sorge imponente il Castel dell'Ovo. Una delle più fantasiose leggende napoletane farebbe risalire il suo nome all'uovo che Virgilio avrebbe nascosto all'interno di una gabbia nei sotterranei del castello. Il luogo ove era conservato l'uovo, fu chiuso da pesanti serrature e tenuto segreto poiché da " quell'ovo pendevano tutti li facti e la fortuna dil Castel Marino"

Da quel momento il destino del Castello, unitamente a quello dell'intera città di Napoli, è stato legato a quello dell'uovo. Le cronache riportano che, al tempo della regina Giovanna I, il castello subì ingenti danni a causa del crollo dell'arcone che unisce i due scogli sul quale esso è costruito e la Regina fu costretta a dichiarare solennemente di aver provveduto a sostituire l'uovo per evitare che in città si diffondesse il panico per timore di nuove e più gravi sciagure.

 
 
 

Il cristo velato (cappella SanSevero)

Post n°7 pubblicato il 04 Novembre 2006 da corenapulitano
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Il Cristo velato è una delle opere più famose e più suggestive al mondo e ha sempre destato stupore e ammirazione.

Tra i moltissimi suoi estimatori vale la pena ricordare Antonio Canova il quale dichiarò che sarebbe stato pronto a dare dieci anni della sua vita pur di essere l'autore di un siffatto capolavoro.


Datato e firmato dal Sanmartino, il Cristo ha un precedente nel bozzetto in creta del Corradini, conservato nel Museo di San Martino. Dopo la morte del Corradini, Raimondo de Sangro commissionò l'opera al giovane scultore napoletano che tenne poco conto del precedente bozzetto.

Vero è che in quest'ultimo, come nella Pudicizia, è nel velo l'originale messaggio stilistico, ma vero è ancor più che i palpiti e i sentimenti tardo - barocchi del Sanmartino imprimono al sudario un movimento e una significazione distantissimi dai canoni corradiniani.

La moderma sensibilità del Sanmartino scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancora più nude ed esposte le povere membra, ancora più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato.

La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le traffitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore minuziosamente "ricama" i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo. L'arte del Sanmartino si risolve in una evocazione drammatica che giunge ad essere, ad un tempo, avvio ed approdo di una inchiesta che trascende se stessa, nell'istante in cui il Cristo diventa simbolo del destino e del riscatto dell'umanità intera.
 
 
 

canzone napoletana

Post n°6 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da corenapulitano
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Con l'espressione "canzone napoletana" si indica comunemente tanto quella produzione che si afferma dalla seconda metà dell'Ottocento - la canzone d'autore del periodo d'oro, la "classica" - che buona parte della musica vocale con testo in dialetto. Nasce nell'Ottocento come punto di arrivo di un lungo processo storico in cui giocano un ruolo fondamentale le condizioni culturali e politiche insieme alle forme poetiche e musicali.

Dal 1880 ha inizio quella che viene considerata l'epoca d'oro della canzone napoletana. È l'anno in cui viene composta e diffusa Funiculì funiculà, destinata a diventare una delle canzoni più eseguite e popolari in tutto il mondo. Tutto contribuisce, negli ultimi vent'anni del secolo, all'esplosione del fenomeno "canzone napoletana", che avrà inizialmente carattere locale e guadagnerà poi una diffusione nazionale e internazionale.

È in questo periodo, durato più o meno quarant'anni, che la canzone napoletana non segue più due percorsi diversi: non più canto popolare nelle taverne e villanelle colte nelle case aristocratiche, non più canzoni occasionali per i cantanti di strada e romanze nei salotti. Nelle cantine di via Tribunali e nei ristoranti eleganti di Posillipo, nei vicoli poveri e nelle case dei "signori" si cantano le stesse canzoni. Queste diventano patrimonio di tutte le classi sociali, svolgendo così una funzione aggregante delle diverse anime della città, che in essa si riconosceranno.

Si vengono a creare contemporaneamente condizioni favorevoli ed irripetibili:
- si forma un gruppo di autori di assoluto valore: compositori e poeti, alla cui testa è Salvatore Di Giacomo, che scrivono canzoni di grande bellezza e popolarità;
- nasce un'editoria musicale ricca di competenze e iniziative, e nei primi del Novecento muove i suoi primi passi l'industria del disco;
- la canzone si lega in modo indissolubile alla tradizione della festa di Piedigrotta, il cui mito ne diventa un formidabile veicolo promozionale;
- nascono i primi caffè-concerto e i primi teatri di varietà, che diventeranno punti di riferimento stabili, dove poter ascoltare, più o meno quotidianamente, canzoni napoletane;
- il varietà produce i suoi primi divi che legano il loro nome alle canzoni di successo e le diffondono anche fuori di Napoli;
- i posteggiatori, oltre che nei ristoranti, trattorie e caffè napoletani, cominciano a essere ricercati e si esibiscono in tutto il mondo;
- le canzoni napoletane entrano nel repertorio della maggior parte dei cantanti lirici che le diffondono, specialmente all'estero, nel corso dei loro concerti;
- l'ultimo elemento, non meno importante, è l'assenza di una vera concorrenza: non esiste ancora la canzone italiana, né giungono gli echi di musiche straniere.

Tratto da: Salvatore Palomba, La Canzone Napoletana
Ed. L'ancora del Mediterraneo - Napoli 2001

 
 
 

il parco Virgiliano

Post n°5 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da corenapulitano
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- Il Parco Virgiliano -

Sistemato nel 1930 in occasione del bimillenario della nascita del Poeta, il Parco è uno dei luoghi più suggestivi della città. L'antica tradizione che vuole qui sepolto Virgilio non trova riscontri in alcun dato storico, mentre è certo che il poeta abitò a lungo nel territorio di Napoli e che espresse il desiderio di essere sepolto a Posillipo, dove aveva una villa.

Quella che è detta Tomba di Virgilio, situata su un alto banco di tufo e accessibile per una scaletta, è in realtà un colombario romano d'età augustea. A destra, in basso, si apre la Grotta Vecchia, detta dagli antichi Crypta Neapolitana, risalente al I sec. a.C. Si tratta di una galleria all'interno del parco, lunga circa 700 metri, realizzata per agevolare le comunicazioni tra Napoli e Pozzuoli, e oggi resa inaccessibile da una serie di frane.

Il Parco ospita inoltre la Tomba di Giacomo Leopardi, morto per colera a Napoli, il 14 giugno del 1837. L'amico Antonio Ranieri riuscì faticosamente ad ottenere dal Governo che la salma non fosse gettata nelle fosse comuni, com'era previsto, per legge.

Il Parco si presenta, con un sistema di terrazze, sulla sommità di Posillipo, estrema punta del Golfo di Napoli; i panorami che si possono ammirare sono letteralmente mozzafiato: il golfo di Napoli e quello di Pozzuoli, il Vesuvio, Sorrento, Capri, Nisida, Bagnoli, Capo Miseno, Procida e Ischia sono da qui completamente a disposizione dello sguardo del visitatore.

In occasione del primo centenario della nascita del Poeta, la tomba, caduta in abbandono, fu ricostruita e dichiarata monumento nazionale.

 

 

 Il Parco si presenta, con un sistema di terrazze, sulla sommità di Posillipo, estrema punta del Golfo di Napoli; i panorami che si possono ammirare sono letteralmente mozzafiato: il golfo di Napoli e quello di Pozzuoli, il Vesuvio, Sorrento, Capri, Nisida, Bagnoli, Capo Miseno, Procida e Ischia sono da qui completamente a disposizione dello sguardo del visitatore.

 

 
 
 

Masimo Troisi

Post n°4 pubblicato il 17 Ottobre 2006 da corenapulitano
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19/2/1953 : A San giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, figlio di Elena Adinolfi e di Alfredo, nasce Massimo Troisi.

1969: dopo tanta gavetta, Massimo fonda con Lello Arena ed Enzo Decaro, il gruppo di cabaret
"I Saraceni".

1976: il gruppo, ormai famoso, è intanto diventato "La Smorfia" ed approda in TV a Non Stop, per la regia di Enzo Trapani.

1979: sono tra i protagonisti di "Luna Park",ancora un programma televisivo di tendenza.

1981: esordio cinematografico di Massimo Troisi con "Ricomincio da tre". A Taormina riceve per questo film il suo primo premio: Il David di Donatello, come miglior film.

1989: Mostra d'arte Cinematografica di Venezia: Massimo Troisi riceve la Coppa Volpi come miglior attore ex-aequo con Marcello Mastroianni per "Che ora è" di E. Scola

1994 : Esce "Il Postino" di M. Radford e purtroppo, pochissimi giorni dopo aver ultimato le riprese del film, Massimo Troisi ci lascia per un infarto a soli 41 anni (il 4 giugno).

1996: Il Postino riceve 5 nominations all'Oscar: miglior film, miglior regia, migliore attore protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora, vincendo solo quest' ultima statuetta.

Una curiosità: ad una recente Mostra di antiquariato, tenuta alla Reggia di Caserta nel mese di settembre 1996, c'è stato uno stand dedicato ai valori postali ed alla filatelia, in cui erano disponibili anche i francobolli di Massimo Troisi.

 
 
 

Eduardo

Post n°3 pubblicato il 16 Ottobre 2006 da corenapulitano
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Grande commediografo e attore di vaglia Eduardo De Filippo nacque il 24 maggio 1900 a Napoli, in via Giovanni Bausan, da Luisa De Filippo e da Eduardo Scarpetta. Al pari dei fratelli cominciò ben presto a calcare le tavole del palcoscenico: il suo debutto avvenne alla verde età di quattro anni al teatro Valle di Roma, nel coro della rappresentazione di una operetta scritta dal padre.

Dopo quella prima breve esperienza prese parte ad altre rappresentazioni sia come comparsa, sia rivestendo altre piccole parti. A soli undici anni, per il suo carattere un po' turbolento e per la scarsa propensione agli studi, venne messo nel collegio Chierchia di Napoli. Ma ciò non servì a farlo riappacificare con le istituzioni scolastiche, per cui solo due anni dopo, quando era al ginnasio, interruppe gli studi. Continuò la sua istruzione sotto la guida del padre Eduardo che lo costringeva per due ore al giorno a leggere e ricopiare testi teatrali non disdegnando, quando capitava l'occasione, di prendere parte a lavori teatrali nei quali dimostrava una innata bravura, in modo particolare per il repertorio farsesco.

All'età di quattordici anni entrò nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, nella quale recitò ininterrottamente per circa otto anni. In questa compagnia teatrale Eduardo fece di tutto, a cominciare dal servo di scena, all'attrezzista, al suggeritore, al trovarobe, fino a quando nel 1920 non s'impose per le sue doti recitative nei ruoli di comico primario e per la sua spiccata propensione all'inventiva. E' datato 1920 il suo primo atto unico pubblicato: "Farmacia di turno".

Il suo impegno artistico era tale e tanto che anche durante il servizio militare Eduardo, nelle ore libere, si recava in teatro a recitare.
Finito il servizio militare nel 1922 Eduardo De Filippo lasciò la compagnia di Vincenzo Scarpetta passando a quella di Francesco Corbinci, con il quale esordì al teatro Partenope di via Foria a Napoli con Surriento gentile di Enzo Lucio Murolo; fu in questo lavoro che Eduardo si cimentò per la prima volta in una regia impegnata.
Nel 1922 scrisse e diresse un altro suo lavoro teatrale, "Uomo e galantuomo".

Lasciata la compagnia di Francesco Corbinci ritornò nella compagnia di Vincenzo Scarpetta nella quale rimase fino al 1930.
In questo periodo conobbe e sposò Doroty Pennington una americana in vacanza in Italia e recitò anche in altre compagnie come quella di Michele Galdieri e di Cariniù Falconi; nel 1929 con lo pseudonimo di Tricot scrisse l'atto unico "Sik Sik l'artefice magico".

Nel 1931 con la sorella Titina ed il fratello Peppino formò la compagnia del Teatro Umoristico, debuttando al teatro Kursaal il 25 dicembre con il capolavoro "Natale in casa Cupiello" che all'epoca era solo un atto unico.
Rimase a capo di questa compagnia fino al 1944 riscuotendo ovunque successi e consensi, diventando inoltre una vera e propria icona di Napoli.

Eduardo De Filippo muore il 31 ottobre 1984 nella clinica romana Villa Stuart dove era stato ricoverato pochi giorni prima. La sua eredità artistica è stata portata avanti degnamente dal figlio Luca.

 

 
 
 

totò

Post n°2 pubblicato il 13 Ottobre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

   Totò nasce il 15 febbraio 1898 nel rione Sanità come Antonio Clemente,sua madre nel 1921 sposa Giuseppe de Curtis dalla cui relazione era nato Antonio,nel 1928 il de Curtis riconosce Antonio come suo figlio,nel 1933 il marchese Antonio de Curtis viene adottato dal marchese Francesco Gagliardi Foccas,e nel 1946 il tribunale di Napoli gli riconosce il diritto a fregiarsi dei nomi e dei titoli di:Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio,altezza imperiale,conte palatino,cavaliere del sacro Romano Impero,esarca di Ravenna,duca di Macedonia e di Illiria,principe di Costantinopoli,di Cicilia,di Tessaglia,di Ponte di Moldavia,di Dardania,del Peloponneso,conte di Cipro e di Epiro,conte e duca di Drivasto e Durazzo.

  Indubbiamente .........TOTO'.

 fonte "muroloweb.it"

 
 
 

il perche del blog

Post n°1 pubblicato il 10 Ottobre 2006 da corenapulitano
Foto di corenapulitano

Salve, con questo blog vorrei mettere in risalto tutte le cose stupende della mia terra, cerchero di publicare ogni cosa che trovo su Napoli, inutile dire che ogni suggerimento sara accettato.

 
 
 
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