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Messaggi di Aprile 2017

Sunt lacrimae rerum. "Controcanto" di Sandro Arciello

Post n°940 pubblicato il 19 Aprile 2017 da giuliosforza

Post 869

Pasqua grigia, pasqua triste. Sunt lacrimae rerum. Distillano lacrime i ramoscelli nuovi del noce che lambiscono il vetro della finestrella della mia cella al Frainile,  piangono dimessamente i bocci nuovi delle rose e i tulipani del mio giardino. E sullo sfondo, oltre i verdi novelli, i muri fatiscenti d’ una casa deserta di presenze,  e i ruderi del castello Borghese incombenti su la Piana del Cavaliere, lago di nebbia, stamane, che sale a lambire le pendici stesse della Lacciara. Problematico in questo clima risorgere, eppure m’è d’obbligo tentarlo, docile all’Oportet nasci denuo, conscio che il ri-nascere presuppone il morire. E così  il ‘memento mori’ non mi suonerà più  funereo  e antivitalistico , ma  si trasformerà nel goethiano  Gedenke zu leben, ricordati di vivere. E nuovi risuoneranno i canti.

*

Controcanto

C’è un bel gruppo corale romano, del quale mi è avvenuto di parlare qui spesso, ‘Entropie Armoniche’, da qualche anno  oramai maggiorenne, ma dallo spirito sempre giovanilmente goliardico e  non ingrigito come  i capelli dei suoi componenti.  Son felice di ridirne ora, in occasione dell’uscita di uno spigliato volumetto intitolato Controcanto (Albatros editore, Roma) dovuto alla penna felice  di uno dei suoi membri, da sempre voce ufficiale del gruppo di cui fu, con la maestra Claudia Gili , uno dei padri fondatori. Dico di Sandro Arciello, torinese trapiantato a Roma, tecnologo in una società internazionale. E patito di Euterpe Tersicore e Polimnia (non è raro che un che per mestiere eserciti una professione di per sé in-estetica si trovi poi a suo perfetto agio in Elicona fra le muse  danzanti, corifeo l’Elio solare). E’ in buona compagnia, l’Arciello: potrei porlo, e non è tutta celia, accanto  a un tal Heinrich von Hardemberg, in arte Novalis, per mestiere contabile nella paterna miniera di Heissenfels, e a un tal Franz Kafka, ancor più prosaicamente impiegato  nella filiale di una società assicuratrice, ambedue immolatisi giovani –sacerdoti e vittime insieme- sull’altare dell’arte per l’elevazione di una  per lo più immeritevole e prona (non in adorazione, ma pecorum ritu) umanità.

 

La magia legata alla parola canto, verbo e sostantivo, e ai suoi composti e derivati (incanto, discanto, controcanto, disincanto…) mi catturò  fin dall’ infanzia e non fa dunque meraviglia che io mi getti con curiosità su un libro che dal  titolo potrebbe far pensare a una  “critica”, nel senso di  disanima oggettiva,  del fatto corale, a una  analitica riflessione sulla fenomenologia dello spirito nel suo farsi lirico. Ma non di ciò fortunatamente si tratta, bensì di un vero e proprio, nella sua spassosità profondo e geniale trattatello di filosofia, pedagogia, sociologia e psicologia del Gruppo in generale, ove il fatto che il gruppo qui sia corale, se non è indifferente, non è di certo determinante. Ciò si fa intendere, e se ne chiarisce l’intento, in quarta di copertina, che non perfettamente, secondo me, rende giustizia al libro: “Avete mai avuto l’opportunità di vedere e ascoltare un coro? E’ una esperienza incredibile, perché agli occhi dello spettatore (soprattutto se un po’ inesperto) tutto sembra avvenire in maniera dinamicamente perfetta, e quando i componenti iniziano a cantare… beh, si entra in un’altra dimensione, quasi magica. Ma è sempre così? Cari lettori, dietro ad ogni piccolo momento c’è tantissimo lavoro ‘umano’ e soprattutto un mondo di sentimenti, azioni, pensieri che caratterizzano le belle famiglie quando creano qualcosa di speciale…ma sappiamo anche che la famiglia perfetta non esiste, e quante discussioni a volte! Sandro Arciello, con il suo delizioso libro, ci parla proprio di questo universo con uno stile non impegnativo e a tratti umoristico ma anche con tanta passione e dedizione, portandoci alla scoperta dei segreti del canto corale nella sua veste più profonda. La sottolineatura è qui mia, poiché non condivido l’opinione: lo scopo di Arciello, chiaro ad ogni lettore minimamente attento, non è di trascinarci con sé nei meandri della tecnica corale, né, magari, di propinarci morceaux di una filosofia del fatto corale quale, da Platone a Schopenhauer  a Nietzsche a Gabriel Marcel ad Adorno , si è andata delineando. Il fine di di Arciello è quello di  informare, e di informare divertendo, su  i ‘comportamenti’ del pre durante e dopo-concerto, su le ‘persone e i personaggi’ (coristi e direttori), i ‘rapporti e la vita di gruppo’, i ‘repertori’ nella loro varietà (a cappella, o con accompagnamento d’organo o di piano o d’ orchestra) e gli ‘eventi’. E questo fine Arciello meravigliosamente attinge: non avrebbe potuto essere più esaustiva le disamina di quelle dinamiche che , nei loro risvolti, come già notato, psicologici, sociologici, pedagogici,  attraversano il gruppo coro nel suo costituirsi e proporsi. Né maggiori avrebbero potuto essere lepidezza, chiarezza, trasparenza, proprietà e levità di linguaggio, sicché avverti  non di star leggendo un ennesimo saggio serioso e tedioso  di uno di quei  barbassori che anche in ambito musicale dilagano,  ma di star  vivendo dall’interno, come uno del gruppo, le emozioni gli entusiasmi le passioni le attese le tensioni di ciascuna delle dramatis personae  che quel gruppo compognono.

Ho letto le circa duecento pagine di Controcanto  d’un fiato, regalando a me stesso, alle mie senili inquietudini,  preziosi istanti di serenità. Ne rendo grazie ad Arciello.    

   ­­­_______________________

 

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 
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Dare in brocca. Novalis, Inni alla notte

Post n°939 pubblicato il 12 Aprile 2017 da giuliosforza

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Dare in brocca, colpire il bersaglio al centro, come suona uno dei motti del Vate. Io vorrei dare in brocca al Destino, come Ludwig avrebbe voluto afferrarlo per la gola. Ma temo non mi sia dato, come a nessuno, nemmeno a Iddio, temo sia dato. E pensare che fui  negatore della Moira e celebratore del santissimo Caso!

*

Rileggo Novalis e Kafka, Heine e von Platen. La mia mente è capricciosa come questa primavera. Vaga di fiore in fiore, prima che vento pioggia e grandine li strappino ai rami e agli steli. Stamane il mio relitto d’auto, vecchio  come me, è tappezzato del  rosa dell’albero sotto cui sempre più a lungo ahimè riposa. Perché non anche io? Fulcite me floribus, coronate me rosis, quia amore langueo. Nostalgia della sposa del Cantico.

*

A proposito di nostalgia.

Gli Inni alla notte di Heinrich von Hardenberg, in arte Novalis (terra vergine  offerta alla seminagione), ‘fanciullo’ consumato dalla Sehnsucht (desiderio, brama, tensione, attesa, attesa di Casa, la casa  dell’assoluto che ha nome Dio, che ha nome Sophie) tornano a rischiarare e rasserenare le mie notti (i miei giorni). Li rigusto nella traduzione, testo originale a fronte, di Roberto Fertonani a cura di Virginia Cisolti (Biblioteca Mondadori 1982-84).

"Ora so quando sarà l'ultimo mattino - quando la luce non fugherà più la notte e l'amore - quando il sonno sarà eterno e Un  unico  inesauribile. Una celeste stanchezza sento in me.- Lungo e spossante fu per me il pellegrinaggio al sacro sepolcro, opprimente la croce. L’onda cristallina che, impercettibile ai sensi comuni, sgorga dall’oscuro grembo del tumulo, ai cui piedi si frange il flutto terrestre, chi l’ha gustata, chi stette in alto sulle montagne a discrimene del mondo, e ha guardato in giù nella nuova terra, nella sede della notte - in verità costui non tornerà più al tramestio del mondo, nella terra dove in perenne inquietudine la luce dimora" (ivi, IV, p.75).

Dopo un alternarsi irregolare di prosa poetica e di versi, gli Inni si concludono con un’ode, tale non posso non  dirla anche se dimesso ne è il  tono, alla Morte (Sehnsucht nach dem Tode, nostalgia, brama di morte) in strofe di sei versi,  ottonari tronchi  e settenari piani, i primi quattro in rima alternata, tronchi e a rima baciata gli ultimi due. Importante la metrica, quasi da ballata, in questa serena Danza della morte, cui la traduzione non  rende sempre giustizia.

Che cosa ritarda il nostro ritorno, / i più cari riposano già da lungo. / Ci sbarra la vita il loro sepolcro, / ci assale l’ansia e il cruccio. / Ogni nostro cercare è senza scopo (pessima traduzione del verso zu suchen haben wir nichts mehr, che significa semplicemente non abbiamo più nulla da cercare) - / il cuore è sazio – il mondo è vuoto. (vv.43-49)

Questa strofa conforta una riflessione che da sempre è la mia. Allorchè più cupo si fa il sentimento della morte come, per chi non creda nella sopravvivenza dell’anima individuale, il dissolversi della individuale coscienza (coscienza del proprio esserci nell’esserci di tutte le cose) nella impersonalità del Nulla-Tutto, il pensiero che tutti coloro che ho amato, che mi hanno generato e nutrito nel corpo e nella mente, quanti hanno alimentato in me l’ebbrezza della santa Terrestrità e quanti l’hanno con me condivisa, i filosofi i poeti i musicisti che ‘sforzarono’ per la mia gioia ‘il mondo a esistere’ e ispirarono il mio Inno alla Vita, lo sconforto si placa; e quando l’angoscia e il timore, pur superati a livello di concetto, tornano a premere a livello di sensibilità (…Ove più il sole / per me alla terra non fecondi questa / bella d’erbe famiglia e d’animali / e quando vaghe di lusinghe innanzi / a me non danzeran l’ore future /….. / né più nel cor mi parlerà lo spirto / della vergini Muse e dell’amore, / unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro …) l’idea (l’illusione, la speranza?) di ritrovarmi, una volta ridissolto nell’insondabile Assoluto, in una diversa dimensione  con essi in una qualche comunione ontologica, se non basta a rasserenarmi del tutto, certo un poco lo vale. Gelobt sei dunque uns die ewige Nacht, / gelobt der ewge Schlummer. / Wohl hat der Tag uns warm gemacht / und welk der lange Kummer. / Die Lust der Fremde ging uns aus, / zum Vater wollen wir nach Haus. / Lodata sia tu, eterna notte, lodato sia l’eterno sonno. Se il giorno ci ha dato calore, ci ha avvizziti il lungo affanno. Non ci attirano più terre lontane, vogliamo tornare a casa dal Padre. (vv. 6-12)

Buona Pasqua di Morte e … Resurrezione!

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  

 

 

 
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