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Messaggi di Luglio 2016

Del suicidio. Autobiografia

Post n°917 pubblicato il 30 Luglio 2016 da giuliosforza

Post 846

Sto pensando seriamente al suicidio.

Sì. Sto pensando seriamente al suicidio.  Rifletto molto sul suo senso filosofico, non prendendo in considerazione quello religioso, che non mi appartiene. E Il succo dei miei pensamenti è il seguente: scegliere di nascere non ci è concesso; sì, per chi ne abbia il coraggio e sia abbastanza stoico da farlo, di morire. Il suicidio, per chi non accetti il determinismo cosmico, che prevede pur esso una sorta di trascendenza che elimina in partenza il problema,  per il quale la stessa libertà è una illusione in quanto ogni suo atto è anch’esso predeterminato (inutile cavillo: traverso la mia libertà la  causa determinante si auto determinerebbe, eliminando in radice la questione) è’ l’unico vero atto di libertà consentitoci da una Natura, una cieca Voluntas, per lo più interessata solo, schopenhauerianamente,  alla conservazione della  specie, e completamente indifferente nei riguardi dell’individuo, vittima sacrificale sull’altare della Totalità.  A ben riflettere ogni scelta volontaria e cosciente di rinuncia è una scelta di morte (se scelta è rinuncia a ciò che non si sceglie), un esercizio di suicidio. E c’è chi crede opportuno  rinunciare a tale stillicidio e assommare in un unico gesto di autodistruzione un suicidio…in pillole!

Non tema, il mio affezionato lettore! Sto in parte celiando e non ho, per ora, pur tentazione e motivi cominciando ad esserne numerosi, di togliermi ex abrupto la vita. Ma sto decidendo di cominciare ad abituarmi all’idea rinunciando, in piena avvertenza e deliberato consenso, prima cioè che la baudelairiana ala del rimbambimento io avverta alitarmi intorno  e un esecrabile evento cerebrale decida per me, a quella parte determinante della mia vita consistita nell’operazione il più delle volte di imbonimento e di affabulazione ma più, nei miei intenti almeno, di provocazione e de-gregazione in che consiste la funzione didattica. Insomma : dopo sessantaqattro anni di insegnamento in scuole di ogni ordine e grado, la maggior parte dei quali all’Università, sto seriamente pensando di recedere, pur nel pieno ancora  delle mie forze cerebrali e nella quasi integrità , grazie ad Asclepio e a Ippocrate, di quelle fisiche. Non dunque perché sia   timidus et formidolosus (Qui timidus est et formidolosus recedat, ancora recita il detto antico, inciso nel peperino della porta  d’ingresso del deturpato convento cappuccino della Palanzana, immerso nel verde dei Cimini occidentali, ove un 26 luglio di or sono mill’anni  fui spergiuro) recedo, ma perché l’istinto di morte comincia a farsi avvertire e  la matera inizia a esser sorda a rispondere.

*

A quei pochi curiosi di me, che mi amano e stimano e mi chiedono di scrivere la mia autobiografia (i turbolenti eventi della mia vita si presterebbero a un racconto esilarante; ma qualcosa ho già pubblicato, quale intermezzo ad Aquae nuntiae Aquae iuliae col titolo Infanzia puerizia e prima adolescenza di Atem)  rispondo: che è questo mio blog, giunto già all’ottavo anno e che, stampato, riempirebbe otto volumi di fitte pagine, se non una lunghissima, appassionata e pletorica autobiografia, in cui ogni evento della mia vita, soprattutto intellettuale ma anche affettiva e professionale, è ‘spiattellato” coram universo mundo,  senza pudore alcuno affidato all’etere in edizione virtuale, generosamente e disinteressatamente offerto alla bramosia di terrestri e, perché no, di alieni? Messo t’ho inanzi, omai per te ti ciba, lettore avido e curioso di conoscenza! Mi manca il tempo, ma soprattutto mi manca la voglia, di ‘mettere ordine’ (vale a dire di tradire) a questi disordinati, ma colti nell’atto del loro vivo farsi, sentimenti e pensieri dei quali la trama della mia vita si intessé e continuerà, chissà, anche post mortem a intessersi: ché se Piaga per allentar d’arco non sana, la freccia dei pensieri e dei sentimenti per allentar d’arco, per il venir meno dello slancio vitale, non frena il suo corso, e  procede inarrestabile per la sua via, per la sua vita eterna.

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano) 

 

   

 

 

 

 

 

 

 
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Canicola ...algida

Post n°916 pubblicato il 17 Luglio 2016 da giuliosforza

Post 845

Irruzione improvvisa e assassina dell'inverno nel bel bezzo della canicola. Alla Peschiera soffia una tramontana simile a quella che nei giorni del forzoso riposo di Proserpina fra le braccia di Pluto nel suo talamo ctonio, dopo aver sorvolato i ghiacciai di Gran Sasso Velino Sirente e Maiella ed essersi ben congelata si precipita coi suoi algidi soffi a squassare alberi e persone e cose nella piazza e pei vicoli del mio borgo. Mi rifugio al caldo della mia cella nel romitorio del Frainile. E penso e penso e scrivo e scrivo, e dei lontani urli del vento di settentrione beatamente mi infischio. Caldo è il mio corpo, e ancor più calda è l'anima, arsa dai fantasmi che da mill'anni l'inabitano.
*
Sono un simbolista e non mi piace il realismo, in nessun tipo di arte. Ma leggere in Rome di Zola le pagine descrittive di un tramonto dal Pincio mi crea una tale emozione quale solo le migliori pagine dello specialista Gabriele sono capaci di procurarmi. Non c'è nulla da fare: dove è grande arte non è realismo simbolismo neorealismo surrealismo impressionismo che contino. Mi godo l'arte viva nella sua "totalità attuosa". Lascio ai notomisti della critica le loro vivisezioni.
*
A proposito di realismo
In una di queste notti ho rivisto, in mancanza di meglio, Ladri di biciclette di De Sica, un classico per antonomasia del genere. Non mi sono divertito ma in compenso ho rivissuto alcuni momenti della storia urbanistica di Roma di cui fui testimone. In una delle scene del film, per esempio, apparivano uno dei caratteristici camion a cilindro per la raccolta dell'immondizia gestita dall'impresa Tudini -Talenti, e uno dei caratteristici autobus Sira, sempre di Talenti, che collegavano Monte Sacro col nuovo quartiere di Monte Sacro Alto dal Talenti costruito, e che da lui prese il nome che tutt'ora vanta. Quando io andai ad abitarvi nel 1965 la zona era ancora tutta un cantiere. Fino ad allora non v'erano che isolate cooperative della polizia e delle ferrovie, il resto era ancora tutta campagna adibita a pascolo e ad uliveti. La Tudini -Talenti, poi solo Talenti, era in forte credito col Comune per il servizio di nettezza urbana e il Comune si era sdebitato concedendole migliaia di ettari di terreno fabbricabile compreso tra la Nomentana e la Bufalotta, fino alla Marcigliana, ora riserva naturale, e alla Cesarina. Ne nacque Il nuovo quartiere, con pretese di medio-alta borghesia, detto Talenti o Monte Sarto Alto, che crebbe velocemente attorno all'asse via Ojetti- via Renato Fucini che la tagliano a Croce, e Via Capuana e Via Romagnoli. che con via della Bufalotta lo delimitano ad ovest. Con l'andare del tempio il quartier si allargò e continua ad allargarsi a dismisura, fino a comprendere tutta l'area dell'ex IV Circoscrizione, ora terzo Municipio, che si estende ben oltre il GRA fino a lambire Mentana Monterotondo e più a ovest la salaria e il Tevere.
Nella zona dove ora abito, con le mie figlie piccole in lunghe passeggiate si veniva a raccogliere le olive da metter in salamoia e i fiori campestri da portare alla mamma. Dalla finestra dello studiolo ove in questo momento scrivo guardo i pioppi folti e svettanti, le acacie robuste e contorte e le vaste chiome ad ombrello dei pini, forse gli stessi alla cui ombra si faceva merenda, e che ora formano il piccolo parco delle tartarughe, con immenso amore curato dai volontari della zona. Poco distante era un bosco semi selvaggio, forse là dove ora l'ultimo orto coltivato s'è salvato dal cemento, nei cui anfratti ombrosi, in un piccolo spazio ove filtrava qualche raggio di sole, mentre le bimbe giocavano io leggevo Hölderlin Trakl Rilke. Per il piccolo parco delle Tartarughe ora darei tutto il celebrato nuovo parco delle Sabine, che le ditte costruttrici ancora non consegnano al Comune, e che già sembra avvertire la sorte di decadenza che è, prima o poi, il triste destino di tutti i giardini e parchi pubblici di Roma.
*
Fra tutto il chiacchiericcio umorale, punto politico e culturale, fatto intorno al Mein Kampf hitleriano in occasione della furbesca iniziativa sallustiana di pubblicarlo in allegato al suo 'Giornale', poche cose m'è accaduto di leggere che meritasse considerazione. Le cose più intelligenti m'è ancora una volta toccato di trovarle sul 'Sole 24 Ore' domenicale del 19 giugno, in un articolo di Armando Massarenti dal titolo Hitler secondo l'anarchico Feyerabend. Spero di far cosa utile riportandolo qui.

"Dopo la recente affermazione della destra xenofoba in Austria, a un passo dal vincere le elezioni, ho ripensato a ciò che scriveva Paul K. Feyerabend nella sua splendida autobiografia, intitolata Ammazzando il tempo e uscita per Laterza nel 1994, anno della sua morte, a 70 anni di età. Esordiva fin dalle prime pagine avvertendo degli strani scherzi che può fare la memoria: quelli in forza dei quali magari oggi ci si stupisce del rinascere di certe idee che pensavamo del tutto tramontate.. Aveva deciso di scrivere quel libro nel 1988, durante il cinquantenario dell'unificazione tra Austria e Germania.

"Ricordavo che gli austriaci avevano accolto Hitler (che era austriaco di nascita, per chi l'avesse dimenticato nota mia) con straordinario entusiasmo, ma ora mi ritrovavo ad ascoltare condanne secche e toccanti appelli umanitari. Non che fossero tutti in malafede, eppure suonavano vuoti; lo attribuii alla loro genericità e pensai che un resoconto in prima persona sarebbe stato un modo migliore di fare storia. Ero anche piuttosto curioso. Dopo aver tenuto per quarant'anni lezioni in università inglesi e americane, mie ero quasi dimenticato dei miei anni nel Terzo Reich, dapprima come studente, poi da soldato in Francia, Iugoslavia Russia e Polonia".

Persino lui, Paul K. Feyerabend, dunque, già allora quello spirito libero che poi sarebbe divenuto famoso come l'epistemologo dell'anarchismo metodologico, aveva subito una forma di attrazione per il regime, e aveva anche meditato di entrare nelle SS,

"Perché? Perché un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava meglio di un comune mortale: le mie ragioni erano estetiche, non ideologiche".

Finalmente un democratico, un libertario capace di non cadere nelle trappole dell'ipocrisia! Ho pensato ai tempi leggendo Ammazzando il tempo. E che ci fa capire meglio perché il nazismo potesse attrarre le giovani generazioni. Anche rivedere l'immagine stereotipata di Hitler era per Feyerabend un modo per capire meglio la realtà. Abbiamo visto mille volte spezzoni di documentari che ce lo mostrano come una macchietta in preda all'ira. Si tratta di una precisa scelta della propaganda post bellica. Feyerabend descrive invece così la sua arte oratoria:

"Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone. Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli i inconvenienti aumentava il volume e la velocità del parlare: Gli accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute in tutto il mondo, erano preparati con cura, ben interpretati e utilizzati con un umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di controllo, non di rabbia, odio o disperazione".

Ancora oggi, se del nazismo cerchiamo di capire le ragioni interne, e magari non ci spaventiamo a rileggere il Mein Kampf, non sapremo mai perché esso ha appassionato così tante persone. E sarà anche più difficile difendere i nostri valori più cari: libertà, pluralismo, democrazia. Benché l'intelligenza critica di Geyerabnd fosse già piuttosto acuta, al punto di commentare la lettura di Mein Kampf (ad alta voce alla famiglia riunita) come un "modo ridicolo di esporre un'opinione, "rozzo, ripetitivo, più un abbaiare che un parlare", egli stesso, pochi giorni dopo, avrebbe concluso un tema scolastico su Goethe legandolo proprio a Hitler. Non solo la memoria collettiva può fare brutti scherzi: anche la nostra attenzione critica è qualcosa di quanto mai fragile. Ma lo è ancora di più se ci rifiutiamo di rileggere senza ipocrisia le pagine più buie della nostra storia".

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(Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 
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Biscion e Cara. Pan-ina. Goethe e Constant

Post n°915 pubblicato il 05 Luglio 2016 da giuliosforza

Post 844
Importante evento musicale a Roma, all'UNAR di via Ulisse Aldovrandi, nella raccolta sala alla quale s'accede per una terrazza aperta sui pini e sul mare di verde e di colori di Villa Borghese e di Valle Giulia. Ivi per "Percorsi contemporanei" un trio di Clarinetto (Irene Tiberini), violoncello (Francesco Malerba), pianoforte (Annie Corrado) ha eseguito egregiamente musiche di Paolo Coggiola (Quattro interludi sottomarini"), Alessandro Cusatelli (Trio per clarinetto, violoncello e pianoforte), Alberto Cara (Piccole contraddizioni), Federico Biscione (Preludio, Notturno e Finale).
Se è questa la musica contemporanea, che essa sia benedetta, e Frau Musika sempre se ne compiaccia. Tutta l'ho gustata, trovandola né d'avanguardia né di retroguardia, ma felicemente attuale ("attuosa", dirò meglio col Filosofo dell'Atto), viva e presente, in grado di assimilare il meglio del passato e di preavvertire ( ahnen, più icasticamente) le aure dei paesaggi musicali avvenire. In particolare (e non solo per motivi affettivi) ho amato i brani di Federico e di Alberto, il più giovane dei quattro, convertitosi anima e corpo ormai al culto dell'Isi Velata. Nei loro brani freschezza ironia potenza (il diabolico ‘finale' di Federico, oltretutto una sfida per la capacità tecnica degli esecutori, m'è ancora nell'orecchio sano) si risolvono in un godibilissimo intreccio di emozioni ove ‘musica pensante' e ‘pensiero musicante', mi si passi la parafrasi heideggeriana, felicemente s'abbracciano consentendo il disposarsi delle ragioni della mente con quelle del cuore
Complimenti, e grazie, Maestri e amici! E che Euterpe vi sia sempre più intima.
*
Di tanto in tanto, per esercitare il mio intelletto e sentirmi ancora battere in petto un cuore, torno alle rime petrose ("ei dice cose e voi dite parole", così il Berni ai petrarchisti)) di Michelangelo, che amo, e che posseggo di varie edizioni fra le quali una della insel taschenbuch curata, nelle note critiche e nella traduzione tedesca ritmata e rimata -che oltre tutto possiede il pregio, non ci crederete, di rendere chiari molti concetti ostici nel duro italiano del Gigante corrucciato- da Michael Engelhard. Stamane ho riletto alcune delle liriche ove si accenna a Vittoria Colonna, colei che teneva, amore altissimo e purissimo, ambo le chiavi del cuore del Capresano; e tra queste quella breve (tre strofe di tre versi, un endecasillabo e due settenari, più una coda di due) che inizia col famoso verso "Un uomo in una donna, anzi uno dio". Una mia alunna femminista ebbe da ridire su questo verso: non celebrerebbe la donna di per se stessa. Per la verità io non credo si possa meglio inneggiare alla "evità" ( m'inventai questo neologismo per la mia seconda raccolta poetica: trovavo il termine più intenso che femminilità), e celebrare nella donna il compendio della creazione, creatore compreso. Se è vero che a Eva si deve la Conoscenza, ottenuta mediante una trasgressione all'ordine d'un improbabile Iddio (che prima farebbe l'uomo a sua immagine e somiglianza poi gli vieterebbe la sua "scienza", se non l'onniscienza, che è una vera e propria insensatezza), nessuna meglio della Principessa di Ischia e di Pescara (sangue sforzesco per via di nonna materna) ne incarna la figura. Non di una diminutio dunque, si tratta, se mai di una sopravvalutazione dettata da Amore, che nessuna donna meritava più della vedova di Francesco d'Aragona, animatrice a Roma e nel castello ischitano di uno dei più celebrati circoli culturali del Rinascimento.
Un uomo in un donna, anzi uno dio / per la sua bocca parla, / ond'io per ascoltarla / son fatto tal che ma' sarò più mio. / I' credo ben, po' ch'io / a me da lei fu' tolto, / fuor di me stesso aver di me pietate; / sì sopra il van desio / mi sprona il suo bel volto, / ch'i' veggio morte in ogni altra beltade: / O donna che passate / per acqua e foco l'alme ai lieti giorni, / deh, fate c'a me stesso più non torni.
*
Leggo nei Diari di Benjamin Constant che egli era solito rivolgersi a Madame de Staël, all'epoca della loro intensa e contrastata relazione, col vezzeggiativo di Minette. Mi plagiava! Minette io chiamai, ignaro, una mia donna, realissima e immaginaria, con la quale concepii una bimba, realissima e immaginaria, dal nome Pan-ina che ancora, in forma di ciottolino ben levigato, vive la sua immaginaria, quanto reale, vita dentro una minuscola teca d'argento sul mio pianoforte. Oltre vent'anni ha ormai Pan-ina, ma ella preferisce non crescere e non uscire dal suo bozzolo d'argento, dal suo argireo sogno, felice accanto alla sua immaginaria e reale sorella di padre nomata Désirée.
*
Afferma il Francofortese:
"Wer Wissenschaft und Kunst besitzt der hat auch Religion. Wer jede beiden nicht besitzt der habe Religion (Goethe, Zahme Xenien IX) che mi pare di poter correttamente così rendere: "Chi possiede scienza e arte, ha già (in esse) la sua religione. Chi non possiede nessuna delle due abbia una Religione". Si tratta sostanzialmente della stessa interpretazione dei bruniani tedeschi della Giordano Bruno Stiftung che esplicitano meglio, nella logica della distinzione bruniana tra religione del dotto e religione dell'ignorante, il concetto sostituendo il "der hat auch Religion" con "der braucht keine Religion", non ha bisogno di alcuna religione. Nell'illuminista Benjamin Constant trovo una opinione alquanto diversa. In Adolphe, riferendosi ai riti dell'estrema unzione richiesta da Eléonore, egli scrive: "La lasciai e non rientrai che con tutta la sua gente per assistere alle ultime solenni preghiere. In ginocchio in un angolo della sua camera, a volta a volta mi inabissai nei miei pensieri, o guardai con una sorta di curiosità involontaria, tutte quelle persone riunite; il terrore degli uni, la distrazione degli altri e quella strana indifferenza che l'abitudine introduce in tutte le pratiche prescritte e che fa riguardare le cerimonie più solenni ed auguste come delle cose convenzionali e puramente formali: intesi quella gente ripetere macchinalmente le parole funebri come se essi non dovessero mai essere attori di una scena consimile, come se anch'essi non dovessero morire un giorno! Io era ben lungi dal disdegnar quelle pratiche, ve ne è dunque una sola, di cui l'uomo, nell'abisso della sua ignoranza possa proclamare l'inutilità? Esse davano a Eleonora un poco di calma; esse l'aiutavano a varcare quel terribile passo verso il quale noi tutti marciamo senza che nessuno di noi possa presentire ciò che proverà in quell'or! La mia sorpresa non è nel fatto che l'uomo abbia bisogno di una religione: ciò che mi stupisce è che egli possa talvolta credersi così forte, così al riparo dalla sventura da osare di rifiutarne una: mi sembra che egli dovrebbe essere portato dalla sua debolezza a invocarle tutte; nella notte fonda che ci avviluppa vi è forse una luce che noi possiamo respingere? Nel gorgo del torrente che ci trascina vi è una mano a cui possiamo rifiutare di abbrancarci?" (pp. 93-94) .
Molto ci sarebbe da riflettere su questi concetti (concetti poi od emozioni?) di Constant... Sul piano del sentimento non è difficile concordare. Ma su quello della ragione qualcosa stride. L'affermazione pascaliana che "esistono delle ragioni che la ragione non può comprendere", combinata con quella del Piccolo Principe ("non si vede bene che col cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi"), afferma qualcosa che può facilmente rovesciarsi nel suo contrario: si danno delle ragioni che il cuore non può avvertire, un'essenza che non sfugge agli occhi della mente e che il cuore vela. Oggi non mi sento però di prender parte per l'una o per l'altra opinione. Raccontano che il cardinale Cusching si dimettesse e si recasse missionario in Africa dopo aver confessato un vegliardo sul letto di morte alla maniera tradizionale chiedendogli conto della sua fede nei dogmi contenuti nel Simbono niceno. A un certo punto il vegliardo non rispose più; e al cardinale che lo scuoteva per accertarsi se fosse ancor vivo disse: padre, io sto morendo e lei si diverte con gli indovinelli...
Ecco, oggi i lascerei le Essenze al loro Mistero.
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Chàirete Dàimones!
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Bruno Nolano)

 

 

 
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