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Messaggi di Agosto 2017

Notturno triste. Giovannino Di Pietro (fratel Alessandro). Loreto Michetti ("C'era vita alla vecchia fonte)

Post n°961 pubblicato il 25 Agosto 2017 da giuliosforza

Post 881

Tra i numerosi auguri che hanno allietato il mio compleanno, uno ve n’è di una ex allieva straniera che mi ha particolarmente emozionato,  e che voglio riportare, anche se con un po’ di imbarazzo,

 

“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento. C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio: se si riflette, non lo si fa” (Sartre).

 

«Non so se la citazione sia effettivamente attribuibile a Sartre, ma mi ha fatto tornare in mente i ricordi delle sue lezioni, i riferimenti all'esistenzialismo e "i voli pindarici" che facevo ad occhi aperti seduta al mio banco.
Penso a Marcel, al metaproblematico, all'amore, alla musica..al canto intonato insieme in aula, ai versi della poesia di Goehte –Wie herrzlich leuchtet mir die Natur! Anche il ricordo dell'esame sostenuto con lei ha il tono della gioia e il sapore della "metanoesi".
Oggi prof, la ringrazio, ancora una volta, per il seme dell'entusiasmo che è riuscito a risvegliare in me.
Sarà il ricordo più ricco che porterò ovunque andrò
.

Chàirete daimones!»

 

Anche il mio ricordo sarà indelebile e la mia nostalgia incolmabile. Per quell’amore vissi, per quello morirò.

 

*

Alta è la notte, profondissima la quiete, e i miei pensieri annegano nell’eterno. E mi sovviene delle morte stagioni e delle nuove, e mi son compagni il genio triste del Recanatese, e l’Ecclesiaste e Cioran che ammiccano sbeffeggianti dai loro inferni. Eppure dovrei esultare, mille voci devote e beneauguranti mi espressero affetto, gratitudine, ammirazione, e dovrei esultare come un infante alle porte della nuova fanciullezza e della novella adolescenza che mi sarà dato a breve di vivere. Ma il mio attuale chimismo non me lo consente, dovrò attendere che il sangue torni pulito a fluire nelle vene e ad alimentare in fiotti potenti cervello e cuore. Fra poco la nuova alba fugherà le tenebre. Già mi giungono di tra gli aridi rami che nessuna rugiada da tempo irrora i suoi primi timidi bagliori.

*

Due eventi m’hanno avuto in questi giorni protagonista.

Il 13 u. sc. m’è stato chiesto, dalla Sindaca, di ricordare, spero non solo per meri motivi anagrafici, nella nostra piccola biblioteca, la bella figura (in ogni senso, fisico e morale) di Giovannino Di Pietro,…in arte Fratel Alessandro, religioso della congregazione laicale dei Fratelli Maristi delle Scuole, direttore negli anni della seconda guerra mondiale, dell’Istituto San Leone Magno, una della scuole religiose allora più prestigiose di Roma, che aveva avuto dagli ultimi anni dell’Ottocento sede in Via Montebello 124 a ridosso delle mura aureliane (ora sede del Liceo Scientifico Plinio Seniore), e dal ’56 trasferitosi il Piazza Santa Costanza nel quartiere Nomentano -Trieste. L’Istituto, recentemente tornato all’onore delle cronache per le vicende narrate da Albinati nel suo discusso La scuola cattolica, premio Strega 2016, di cui mi sono a lungo occupato in questo diario. ospitò in quell’epoca tragica, come la maggior parte delle scuole religiose e dei conventi, col tacito consenso delle autorità fasciste, molti ebrei e personalità politiche della dissidenza, salvandoli dalla deportazione, e il suo direttore Fratel Alessandro  trovò negli anni Novanta per questo motivo posto fra i circa trentamila “Giusti tra le Nazioni”, l’albo d’Onore creato dalla Stato di Israele a perpetua memoria. Fratel Alessandro, nativo del mio stesso borgo, Di Pietro per parte di padre, Sforza per parte di madre, era entrato ancora fanciullo nel probandato marista di Mondovi, aveva fatto noviziato  e studentato e quindi pronunciato i suoi voti a Ventimiglia, e ben presto era stato chiamato ad occupare ruoli di dirigenza: non era nato per fare l’intellettuale e l’insegnante, il suo savoir faire e le sue doti diplomatiche, unite al suo prestante aspetto fisico, lo destinavano ad altra…carriera: ancor giovane, nel 1949 fu chiamato a rivestire la carica di Procuratore generale della congregazione, una sorta di ambasciatore presso il Vaticano che aveva il compito di patrocinare le Cause dei Santi (sotto di lui il Fondatore Marcellino Champagnat fu beatificato) e di seguire le varie pratiche burocratiche riguardanti vicende che vedevano implicati i membri della congregazione in ogni parte del mondo, comprese quelle abbastanza complesse e delicate dello scioglimento dai voti dei …rinuncianti fedifraghi. Alla sua decadenza Fratel Alessandro rientrò, come suol dirsi, nei ranghi, destinato per lo più ad umili ruoli di collaboratore di segreteria o di economato, ruoli che adempì con semplicità fin quasi al termine dei suoi giorni che avvenne, lui ormai quasi novantaquattrenne, nella squallida, stando alle parole di un testimone, casa di riposo di Carmagnola.

Il compito che m’ero scelto nella commemorazione era essenzialmente quello di tratteggiare con distacco e serena obiettività, con indipendenza e spregiudicatezza di giudizio, gli eventi storici e politici che avevano fatto da contorno alla Shoà quale fu vissuta in Italia e a Roma  e dei quali ero stato testimone, e stemperare, con riferimenti ‘lievi’ letterari ed estetici, la “durezza” della materia. Forse Fratel Alessandro meritava un ricordo più …devoto e compunto, ma mi ci fossi adeguato avrei tradito la mia natura di storico disincantato e non appigionato, corrotto la sostanza dei fatti e ridotto a pio sermone domenicale una disanima critica. Giovannino Di Pietro avrebbe gradito?

*

L’altro evento era di tutt’altra natura. Si trattava di presentare un opuscolo assai originale, nello stile e nel contenuto, del mio eclettico ex allievo Loreto Michetti, la cui ingegnosità multiforme confina con la genialità: laureato con lode da me con una tesi sul colore e le sue implicazioni pedagogico-didattiche, è anche pittore non da crosta che promette di dedicarsi, nella sua splendida casa di campagna, ormai giovane pensionato, all’arte di Apelle con rinnovata e più continuativa passione. L’opuscolo, dal titolo C’era vita alla vecchia fonte, illustrato in copertina da una suggestiva immagine tratteggiata a matita dallo stesso autore, contiene una serie di brevi racconti evocanti scene bucolico-pastorali di cui il fanciullo Loreto fu testimone ed attore e che sotto la sua penna di forbitissimo, elegantissimo, dottissimo narratore splendidamente si rianimano. La “vecchia” fonte (ora, come tanti altri luoghi delle nostre terre, trasformata, meglio sarebbe dire offesa e deturpata, da improvvidi interventi restaurativi) è situata ai margini di un vecchio tratturo, ora asfaltato, tra i boschi di Nespolo, borgo dell’estremo lembo della bassa Sabina, ai confini dei territori degli Equi e dei Marsi, adagiato in una conca verde che immagino lo preservi dai rigidi inverni e dalle estati affocate; e posto  ad una altezza di circa mille metri, prossima a quella di Collalto Sabino, svettante, gigante solitario, di fronte al Cervia selvaggio (in una cui valletta amena, presso la cima, in un giorno fatato intonammo, io e il mio stuolo di baccanti inebriate, attorno a un gigantesco faggio solitario l’inno della Metanoesi sacra al Wotan mediterraneo). Picchiava sull’anfratto non più folto di fronde un sole ostinato tardo ad attenuare, in quei giorni di anomala canicola leonina, i suoi raggi, ma il numeroso pubblico accorso alla commemorazione e lo stesso antico oratore resistettero tetragoni, il loro fuoco interiore temperando (“vivere ardendo e non sentire il male”: così, ignara, per l’Arso immenso del Campo la sublime Gaspara Cortigiana d’Amore) anzi quasi spegnendo l’ardenza dell’aria. Non fui per Loreto Michetti scarso di elogi: “fannoti onore e di ciò fanno bene”; parafrasai per lui l’autoelogio vergiliano del Limbo dantesco; lodai la ricchezza d’annunziana di suoi lessici, la ricercatezza, la classicità, non la vecchiezza, del suo stile: ché classico è, dissi, ciò che è sempre attuale, sempreverde che resiste alle tramontane, non stipa di cui gli autunni del tempo faranno seccume; celebrai l’originalità aristocratica della sua prosa, che fa del suo opuscolo della memoria un unicum che toto coelo differt dai pur  numerosi memoriali dei borghi del circondario, in quanto traduzione in un linguaggio che può apparir aulico, ma è solo ricco e nobile, di emozioni nate dal profondo animo popolare, che la sua terra avverte come prolungamento della sua anima e del suo corpo, le cui linfe e forze recondite nella sua anima e nel suo corpo assorbe ed assimila a tal punto da sentirsi, rousseuaianamente, come “la sua terra che cammina””.

Un solo appunto ho fatto a Michetti: totalmente assente la musica fra le sue memorie. Eppure nulla come il canto popolare rende il canto delle acque, ed è impensabile una fonte senza che attorno ad essa si intonino cori che si disperdono nell’aria delle alte notti agostane, echeggiando per i profondissimi silenzi degli spazi ad accompagnare  il rito sacro delle braciolate di pecora (pagana comunione anch’esse con l’iddio panico che in ogni sua creatura si incarna) e in essa il vino sacro si immerga a rinfrescarsi per il brindisi bacchico. O fons Bandusaie, dulci digna mero non sine floribus!           

Michetti s’è impegnato a fare ammenda del fallo nel suo prossimo capolavoro.

 

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Grazie dei fior... Aragon per il mio compleanno

Post n°960 pubblicato il 19 Agosto 2017 da giuliosforza

Post 880

JE DIRAI MALGRE’ TOUT QUE CETTE VIE FUT BELLE…

Con questo breve post intendo ringraziare quanti oggi hanno avuto, hanno e avranno per me pensieri beneauguranti in occasione del mio compleanno

Alla mia mamma e al mio papà, che 84 anni or sono al mezzogiorno di oggi mi consegnavano alla luce

Un Trilussa che ignoravo.

Quann’ero reagazzino mamma mia / me diceva: ricordati, fijolo / quanno te senti veramente solo / tu prova a recità n’Ave Maria. / L’anima tua da sola spicca er volo / e te solleva come pe’ magia. / Ormai so vecchio, er tempo m’è volato; / da un pezzo s’è addormita la vecchietta, / ma quer consijo nun l’ho mai scordato. / Come me sento veramente solo / io prego la Madonna benedetta / e l’anima da sola pija er volo

*

Aragon per il mio compleanno

C’est une chose étrange à la fin que le monde / Un jour je m’en irai sans en avoir tout dit / Ces moments di bonheur ces matin d’incendie / La nuit immense et noire aux déchirures blondes

Il y aura toujours un couple frémissant / Pour qui ce matin-là sera l’aube première / Il y aura toujours l’eau le vent la lumière / Rien ne passe après tout si ce n’est le passant

Je dirai malgré tout que cette vie fut telle / Qu’à qui voudra m’entendre à qui je parle ici / N’ayant plus sur la lèvre un seul mot que merci / Je dirai malgré tout que cette vie fut belle.

Cosa davvero strana infine questo mondo / Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto / Quei momenti di felicità quelle albe infuocate /La notte immensa e nera dai biondi brandelli.

I sarà sempre una coppietta fremente / Per la quale quel mattino sarà come la prima alba del mondo / Ci saranno sempre l’acqua il vento la luce / Dopotutto nulla passa se non il passante

Dirò malgrado tutto che tale fu la mia vita / Che a chi vorrà ascoltarmi colui al quale sto parlando / Non avendo più sul labbro se non la parola grazie / dirò malgrado tutto che questa vita fu bella.

Ebbene sì, Aragon non fu tra i miei poeti preferiti: troppo ideologica la sua poesia, troppo ‘impegnata’. Ed io almeno in questo, in poetica, sono crociano: la poesia che non sia pura intuizione lirica è didascalismo puro, è prosa ritmica  (so di condannare così anche buona parte della mia produzione, che è poco male per le patrie muse). Ma questi versi, riportati alla pagina 341 dell’autobiografia d’ormessoniana, mi piacciono assai nella loro estrema semplicità, direi nella loro nudità , spogliati come sono di ogni pur minimo orpello, persino della punteggiatura. E dicono tutto quanto v’è da dire sulla vita e sulla morte, sul senso dell’esserci intemporale e dell’esserci stati, sulla bella terra e sul dolce rimpianto del suo abbandono. Sono versi delicati d’un uomo al tramonto che vive serenamente, seppur nostalgicamente, i suoi giorni estremi ed è grato alla Vita per essersi voluta in lui celebrare. Sono versi trasparenti d’un’anima bella nei quali tutto il suo cosmico attonimento si svela. E’ per questo motivo che amo offrirli ai miei amici come ringraziamento per il loro ricordo in questo mio quasi centesimo genetliaco, risparmiando loro il mio retoricissimo Inno Inno alla Vita (Hymnus an das Leben, che apre i mie Canti di Pan e ritmi del thiaso, e che i curiosi potranno trovare su queste pagine (site:blog.libero.it/disincanti/ Inno alla vita).

 

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Chàirete Dàimones!

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Charles Péguy

Post n°959 pubblicato il 14 Agosto 2017 da giuliosforza

Post 879

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    Alba al Frainile. "Comme de longs échos qui de loin se confondent / les parfums les couleurs et les sons se répondent" (Ch. B.)

 

*

    Non so a quanti dei miei lettori possa  interessare Charles Péguy. Per me rappresenta una delle più belle figure della Francia a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo. Lo frequentai soprattutto come poeta, ma ora lo riscopro saggista di vaglia (probabilmente lessi in gioventù Notre jeunesse, ma non ne ho precisa memoria). Ed ora che avevo deciso, in queste affocate vacanze, di vacare anche dal pensare, eccomi proditoriamente piombare addosso l’ebreo “laico” di origine polacca Alain Finkelkraut, accademico di Francia e professore di Cultura generale e Storia delle idee all’École polytéchnique, col suo studio L’incontemporaneo. Péguy, lettore del mondo moderno (Lindau, Torino 2012, pp157) che, con lo scopo di recuperare l’Autore francese alla cultura libertaria contro tutti i fraintendimenti, ideologici e strumentali, della sua vita e del suo pensiero, obbliga ad un rilettura critica di tutti i personaggi  implicati nella vicenda, deyfusardi ed antidréyfisardi, progressisti e reazionari, socialisti e conservatori, filosofi e letterati, tutto il fior fiore della vita culturale dell’epoca, dai Taine, i Michelet, i Bergson, i Bernanos, gli Zola, le Arendt, gli Husserl ai Maurras, i Jauress, i Benda, i Renan, i Lazare....e quant’altri mai.  Gli anni della vita di P. furono tra i più difficili di tutta la storia di Francia, faticosamente  impegnata nel riprendersi dall’umiliante disastro di Sédan e travagliata dalla bagarre ideologica generatasi intorno all’Affaire Dreyfuss che per anni divise l’opinione pubblica risollevando non solo la questione ebraica ma alimentando un dibattito acceso su ogni tema ad essa collegato, economico, politico, sociologico, storico, estetico, religioso.

   

“Perché Péguy oggi?’, si domanda l’autore. “Che cosa hanno da dirci le inquietudini di questo scrittore francese, ‘morto sul campo dell’onore’ un secolo fa nella prima battaglia della Marna? Socialista, dreyfusardo, poi convertito al cattolicesimo, tradizionalista, patriota, Péguy appare agli occhi di Finkelkraut come un ‘profeta disperato’ del malessere spirituale moderno. Animo perennemente insoddisfatto, sempre alla ricerca di una verità più grande di quella contemplata dalla scienza e dalle ideologie del suo tempo e comunque non limitata all’orizzonte della storia e del sapere umano, Péguy è stato emarginato dalla cultura di sinistra cui pure appartenne, ma di cui rifiutò dogmi e pregiudizi. Eppure la sua riflessione sulla modernità – sulle implicazioni dell’affare Dreyfus, sul nazionalismo che avrebbe portato alla prima guerra mondiale, sui cambiamenti sociali prodotti dal progresso tecnologico, sulla scomparsa della tradizione, sul declino della religiosità, sulla miopia degli intellettuali, sulla decomposizione della famiglia – è imprescindibile per chiunque voglia capire la crisi di certezze che caratterizza il nostro tempo” (dalla nota editoriale).

«Impossibile essere moderni», scrive a sua volta Finkelkraut, «vale a dire lasciar fare al tempo. La guerra infligge alla religione del progresso un’impietosa sconfessione. Essa mostra a Péguy che tutto si muove senza che nulla cambi, che le scoperte si susseguono e le invenzioni si accumulano, ma la storia balbetta, che allo sviluppo sfolgorante della tecnica fa da contraltare il mantenimento opprimente dell’orrore: Bisogna dunque concludere che la barbarie non è la preistoria dell’umanità, ma l’ombra fedele che accompagna ciascuno dei suoi passi. Quando il nostro mondo, per il fatto stesso di dirsi moderno, afferma che dopo è sempre meglio che prima, generalizza il modello cumulativo delle scienze e delle tecniche estendendolo abusivamente a tutti i settori dell’esistenza”.

   

E Péguy: «A questo gioco oggi è giunta l’umanità, un mondo di barbari, di bruti, di villani; più che una panidiozia, più che la temibile panidiozia annunciata, più che la temibile panidiozia constatata, una panvillania senza limiti; (…) un mondo che non solo scherza, ma che non sa far altro che scherzare, che fa ogni genere di scherzi e si prende gioco di tutto».

   

    Fra le citazioni  di Finkelkraut trovano spazio anche due brani nicciani, uno tratto dall’Anticristo, l’altro da Al di là del bene e del male, che possono essere letti come ‘terribili obiezioni’ a Péguy. Ma così, naturalmente, non è, Nietzsche è l’altro spirito antimoderno di cui continua a farsi brandelli da quanti, spirti deboli, sono spaventati dalla verità tragica dei suoi paradossi. Le citazioni qui riportate sembrano scritte stamane:

«La conclusione di tutti gli idioti, che una causa per la quale taluno affronta la morte (o che, come quella del primo cristianesimo, genera addirittura bramosia di morte in forma epidemica), abbia un valore – questa conclusione è diventata una remora enorme all’indagine, allo spirito di indagine e di cautela (…). I martiri recarono danno alla verità. Ancora oggi basta un’asprezza della persecuzione per dare un nome rispettabile a un settarismo in sé ancora insignificante». E l’altra, che sconcerterà quanti, non avvezzi alle imprevedibili provocazioni (e alle benedette contraddizioni) del Folle di Röcken, contrabbandato dai grossi come antisemita (sol per aver avuto un cognato invasato ed una sorella di lui degna) e protonazista, con la quale, riferendosi alla febbre nazionalista che cominciava a infiammare l’Europa, la definì “crisi di ristupidimento”.

    Dopo aver riletto il saggio di Finkelkraut ho ancor meglio capito perché Péguy tanto piacesse al mio venerato e poi hegelianamente ‘superato’, mai rinnegato, ‘maestro’ Gabriel Marcel (al cui pensiero dedicai la mia tesi di laurea, poi pubblicata col titolo Metaproblematico e Pedagogia. Motivi pedagogici marceliani). Con Schelling fra i Romantici, Heidegger e Jaspers fra i così detti esistenzialisti (tra i quali Marcel stesso viene, contro la sua volontà, annoverato, preferendo egli dirsi un ‘socratico cristiano’) Péguy fu l’autore da Marcel più frequentato, condividendone l’antiscientismo precritico, colpevole di quel ‘trauma ontologico’ di cui è vittima il deluso adepto della religione positivistica, il concetto di ‘trascendenza, o Mistero, incarnata’, di Io assoluto, di lotta allo spirito di oggettivazione, di comunione ontologica e di molti altri che pari pari in ambedue si ritrovano.

     Se Finkelkraut sia molto o poco riuscito a recuperare ad una sinistra critica, ad un progressismo illuminato, Charles Péguy, non saprei. Ma una cosa è certa: l’aver riportato l’attenzione su di lui in epoca di Europa in crisi di identità, e averlo fatto con tanta sapienza e tanta passione, è aver fatto a tale Europa un enorme, impagabile servizio.

     

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