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Messaggi di Luglio 2017

Elio Pandolfi a Vivaro Romano. Pensieri sparsi. "Lemmonio Boreo" di Soffici

Post n°958 pubblicato il 31 Luglio 2017 da giuliosforza

Post 878

Domenica 23 luglio abbiamo salutato al borgo il vigilissimo novantunenne Elio Pandolfi (nonna materna vivarese). Come al solito col suo multiforme ingegno tragicomico ci ha divertito, e ci ha anche commosso, evocando, con la sua mimica e la sua voce inimitabili, vicende della sua infanzia e dell’adolescenza a me note, perché in parte convissute, ma non alla maggior parte del pubblico, che ha avuto la felice ventura di nascere negli anni del riposo di Marte. Invitato cortesemente a rivolgergli parole di saluto, ho esordito forse per la prima volta in vita evocando in una circostanza non accademica Dante adattandolo, senza troppo sforzo, datasi la stazza del personaggio, e con un poco di ironia, all’uopo. Ho esordito con Onorate l’altissimo Poeta / l’ombra sua torna ch’era dipartita…Fannomi onore e di ciò fanno bene… Biondo era e bello, e di gentile aspetto. M’è bastato sostituire  ‘poeta’ con ‘maestro’,  ‘biondo’ con ‘bruno’ e il gioca era fatto. Porlo …  sesto tra cotanto senno, con Omero Virgilio Orazio Ovidio Lucano Dante nel Limbo, e assimilarlo al Manfredi del Purgatorio ha divertito l’Elio sornione, e ha divertito anche me per un attimo, autoproclamatomi (operazione per la verità alla mia gigioneria non nuova né difficile) tra cotanto senno settimo, e mi ha permesso di proseguire l’intervento  su una nota lirica giocosa che  l’umor nero, la melàine chole, l’atrabile che in dose eccessiva la mia milza in questi giorni va secernendo, non m’avrebbe consentito, non fosse stato costretto nella sua sede e impedito per una volta di traboccare.

*

Alfonso Antoniozzi è quel grande baritono e regista d’Opera viterbese che tutti conosciamo. Seguirne il diario su fb,  nei suoi esilaranti, ironici ed autoironici, siano essi iconici o verbali, approfondimenti critici è uno dei migliori modi di dar senso alle nostre per lo più mediocri e tediose giornate. Nel recente incontro con Elio  a Vivaro, nel mio breve intervento ho dimenticato di citare un simpatico aneddoto da Antoniozzi riferito:

“Aneddoti di vita teatrale : una signora romana ricorda quante volte ha visto Daniela Mazzucato insieme a Elio Pandolfi. La sua amica dice: ah, ma non era morto Elio Pandolfi? Elio Pandolfi, seduto nella fila dietro e lucidissimo novantenne, fa: "Sì signora, so' morto ma c'ho le chiavi della tomba, esco quando me pare". Lo amo”.

Io li amo ambedue.

*

Se fra tutte le religioni (quelle istituzioni che via via lungo i secoli si arrogano il diritto di ipotecare la cosmica religiosità, leggi il respiro cosmico del Sacro, co-stringendola  -soffocandola, boa constrictores- entro l’angustia delle loro gretole dogmatiche, entro la forza delle loro spire) il cattolicesimo sia la migliore, non so. Ma di certo mi sento di poter affermare la migliore in assoluto, per i miei gusti, essere le sua liturgia, che tutte le altre liturgie nella sua grandiosità assomma e magnifica. Questo mi vien da pensare rivedendo, mentre finalmente  Giove Pluvio riapre le cateratte del cielo e i verdi dei noci, degli ibiscus, delle ortensie, delle rose, delle lavande dei rosmarini del mio giardino già reviviscono , la registrazione di una delle Messe-Concerto che si celebrano nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, alle quali spesso mi invita il mio ex allievo don Elio Lops, animate dalla storica Cappella Musicale Liberiana, fondata nel 1545  per volontà del cardinale Ascanio Sforza,  diretta ai suoi inizi da Pierluigi da  Palestrina e da Nanino, i due colossi della nascente scuola polifonica romana, ed oggi non indegnamente dallo spagnolo Monsignor Miserachs, preside dell’Istituto di Musica Sacra de Urbe.

Non perdetevi una liturgia in Santa Maria Maggiore. Da essa, se credenti, scuramente uscirete rafforzati nella fede, se non credenti tentati di credere, se non più credenti tentati di tornare a credere. Ma una cosa è certa: tutti ne uscirete con cuore e sensi dilatati.

Gelobt seist du jederzeit, Frau Musika!

*

In questi giorni di particolare sofferenza della natura vegetale, mi vengono in mente dei famosi versi di Ronsard per i quali composi una delle più tristi melodie tra quelle da me composte a fini didattici. Son quelli che dicono: "E'coute bûcheron...ascolta boscaiolo, ferma il tuo braccio, non è legno quello che stai tagliando: non vedi il sangue che sgorga a fiotti dalle vene delle ninfe che vivevano sotto la dura scorza?". 
Panismo puro, puro panvitalismo.

 

 

*

 

 

 

Fine moduloSognata una luminosa figura di giovane suora che intende conciliare voti e libertà, il meglio della vita monacale col meglio della vita laicale. Sogno impossibile? Forse il mio inconscio sta ancora elaborando immagini, pensieri, emozioni tratti dalla lettura de 'il silenzio dei chiostri', il bel giallo della Jimenez-Bartlett

 

*

 

 

Ho appena terminata la lettura di quello che ho detto essere forse il primo thriller poliziesco della mia vita (non mi sono mancate naturalmente le riduzioni cinematografiche dei Simenon e delle Christie, che mi dicono per altro tutt’altra cosa dagli originali), Il silenzio dei chiostri della spagnola Alicia Gimenez Bartlett. Mi sono divertito. La Jimenez-Bartlett è garbata e misurata a tal punto e a tal punto finemente ironica che le 527 paginette dell’elegante e curata edizione Sellerio (nemmeno un refuso, nemmeno una virgola fuori posto) si leggono d’un fiato e, come suol dirsi, non vorresti finissero mai. Per la mia confessata ignoranza nel campo non posso naturalmente far paragoni e nessuna presunzione critica possono avere le mie osservazioni. La Spagna che esce dalle pagine della Bartlett somiglia talmente all’Italia per tanti secoli dalla Spagna dominata che par di non uscire dall’uscio di casa: ignoranza, oscurantismo, superstizioni, che l’autrice denuncia esclusiva prerogativa del suo Paese, sono pari pari quelli che noni lamentiamo patrimonio della nostra penisola, in special modo di quelle regioni, le meridionali, che più a lungo furono dalla Spagna dominate e abbrutite, e nelle quali ogni traccia, e fin il ricordo, della Magna Grecia, dello splendore del califfato islamico e dell’illuminato impero federiciano furono  ignobilmente e barbaramente cancellate. La vicenda del romanzo, che ruota tutta attorno ad un macabro delitto avvenuto entro le mura di un convento femminile (uccisione di un monaco e sottrazione del corpo mummificato di un santo sul cui stato di conservazione il monaco è chiamato a indagare) si dipana sotto l’abile penna (l’abile…tasto, ormai bisognerebbe dire!) di Alicia con una garbatezza e una levità che invano cercheresti nella romanzeria moderna del genere, e non solo, pur là dove si fa riferimento ai momenti più intimi della vita privata della protagonista narrante.

*

Tra gli scrittori toscani del primo Novecento ho sempre prediletto, con Papini e Prezzolini, Ardengo Soffici, dei tre probabilmente il più dotato ed eclettico. Tra i libri che ho smarrito e che inutlmente sto ricercando nell’edizione originale Vallecchi 1912, v’è il Lemmonio Boreo (non v’è chi non riconosca nel titolo l’ironica italianizzazione del moine bourru, il fantasma della favolistica francese, lo spauracchio dei bambini). Dei cento episodi esilaranti di cui il romanzo si compone, io ho spesso citato quello dei quattro turisti che chiedono a Lemmonio se parli inglese o francese, e che si sentono rispondere: fuori di qui sì, a casa mia parlo solo italiano. Uno dei modi per dichiarare l’amore per le propria terra.

Trovo in rete un interessante riassunto del Lemmonio Boreo nel sito di Bartolomeo Di Monaco, e lo trscrivo per il piacere dei lettori.

“Lemmonio Boreo ovvero l’allegro giustiziere” (1912)

«Animatore culturale, attento osservatore, forte polemista: la prima parte del Novecento, non solo italiano, ha in questo artista, pittore e scrittore, un autentico protagonista dei dibattiti intorno ai nuovi movimenti che si andavano affacciando in quegli anni. Clamorosa fu l’aggressione che subì a Firenze, alle “Giubbe rosse”, per aver scritto un articolo aspramente critico nei confronti dei Futuristi, da parte di Marinetti, Carrà e  Boccioni.
Collaboratore delle riviste più importanti del tempo, tra cui “La voce” di Prezzolini, egli portò in Italia le novità e l’aria nuova che si andavano respirando a Parigi. Fu amico di Apollinaire, Max Jacob, Picasso, Braque e tanti altri. Quando il cubismo faceva le prime mosse, Soffici fu uno dei primi a prendere le difese di Picasso e Braque e ad esaltare il loro lavoro. Numerosi sono i suoi saggi su movimenti ed artisti del suo tempo.
Si avvicinò alla narrativa con opere quali: “Ignoto toscano“, Firenze 1909; “Lemmonio Boreo“, Libreria de “La Voce”, Firenze 1912; “Arlecchino“, Firenze 1914; “La giostra dei sensi“, Firenze 1918; “Taccuino di Arno Borghi“, Firenze 1933; “Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo” (in quattro volumi usciti con i seguenti titoli: “L’uva e la croce”, Firenze 1951, “Passi tra le rovine”, Firenze 1952, “Il salto vitale”, Firenze 1954, “Fine di un mondo”, Firenze 1955); “D’ogni erba un fascio. Racconti e fantasie“, Firenze 1958; “Diari 1939-1945″ (in collaborazione con G. Prezzoloni), Milano 1962.
Riguardo a “Lemmonio Boreo”, dopo avermene consigliato la lettura, Giorgio Bárberi Squarotti mi scrive, il 23 dicembre 2007: “Quanto al Lemmonio Boreo, per una vera interpretazione è necessario mettere a confronto l’edizione del 1912 con quella del 1923 (quasi uguale a quella del 1943)
Messomi in cerca delle due edizioni suggerite, non sono riuscito a trovarle presso gli antiquari se non a costi troppo elevati per le mie tasche, cosicché ho dovuto ripiegare sull’edizione del maggio 1943, assai più accessibile. Mi scuso quindi con il lettore e con lo stesso amico Giorgio se la mia lettura mancherà degli indispensabili raffronti con le importanti edizioni surrichiamate.

Intanto, sin dalle prime pagine, ci viene subito in mente il fortunato romanzo che Aldo Palazzeschi scrisse nel 1934: “Le sorelle Materassi”. Non vi è dubbio, anche per i rapporti che esistevano tra i due, animatori dei dibattiti letterari del primo Novecento, che Palazzeschi conosceva il romanzo di Soffici, pubblicato nel 1912 e deve averlo tenuto a mente nel redigere il suo vent’anni dopo.
Le sore Borghi e il figlio d’una di loro, Ermanno, sono i protagonisti dell’opera di Soffici, come le sorelle Materassi e il nipote Remo lo sono di quella di Palazzeschi. Con la differenza che mentre Remo è un gaudente e dissipatore, Lemmonio è un trentenne inquieto in cerca della sua strada. Le somiglianze, tuttavia, si fermano qui.
Anche Oblomov, il personaggio di Gonciarov, può essere richiamato. Infatti, come egli ozia tutto il giorno, stando sdraiato nel suo letto, così Lemmonio, “sdraiato nella sua poltrona”, trascorre le sue giornate immerso nella lettura dei libri d’ogni genere, trovando in essi un segno nettissimo di decadenza dell’uomo e della società.
Ciò dà l’occasione a Soffici di lanciare le sue frecciatine contro il mondo della letteratura, così come si veniva esprimendo in quegli anni: “Sembrava che tutta la logorrea del trovatorismo, del petrarchismo, dell’arcadismo, del barocchismo, e del romanticismo meneghino fosse ringorgata da tutta l’Europa su l’Italia, allagandola dall’Alpi alla Sicilia.”
Vi è dunque sintonia con la battaglie di rinnovamento in cui l’autore si trovava coinvolto attraverso la collaborazione a riviste combattive come, soprattutto, “La Voce” (nata nel 1908), e, più tardi, “Lacerba”, da lui fondata, insieme con l’amico Giovanni Papini, nel 1913, a causa di alcuni dissensi con la linea editoriale seguita per “La Voce” da Prezzolini.
Anche il fiorentinismo, che la faceva da padrona, trova in Soffici un ardente propugnatore, non mancando questo romanzo, e i suoi scritti in generale, di nutrirsene: “Per questa volta, messo mi sia, come disse quello; ma un giorno o l’altro gli fo il buccio. Gli è troppo che la bolle.”
Non v’è dubbio, d’altronde, che si respira nell’opera l’atmosfera di una specie di nuovo umanesimo che il personaggio Lemmonio va cercando, umanesimo che torna ad avere come nel Rinascimento il suo punto focale in Firenze e nella toscanità.
Lemmonio è anche un nuovo Prometeo che vagheggia e s’illude di liberare l’uomo (“gli era cresciuto nel cuore un amore sviscerato per il suo popolo e per la sua terra”) dalla nebbia delle falsità e delle ipocrisie che lo hanno imprigionato: “Governanti, uomini politici, impiegati, giornalisti, preti, signori, soldati, artisti, scrittori, mercanti, facevano a chi ne commetteva delle più belle.”; “Tutto si presentava, agli occhi di Lemmonio, avvolto di fariseismo e di meschineria.”
Smette di leggere libri e riviste e decide di partire, ma i primi incontri in cui cerca di riparare alle ingiustizie lo fanno apparire come un novello Don Chisciotte, sconfitto e deriso. In lui vi sono tuttavia i segni di un impeto e di una determinazione ben lontani dal candore seducente che anima l’eroe cervantesco, e mai una qualche illusione ingannevole attenua in lui la consapevolezza delle difficoltà dell’impresa. In ciò resta più Prometeo che Don Chisciotte. In ogni caso, come Don Chisciotte s’accompagnò al saggio Sancho Panza, così Lemmonio scelse per compagno “il bastone” che gli serviva, ossia un certo Zaccagna, un giovane vigoroso e collerico in grado di menar botte ad un ordine di lui, “per raddrizzare, come si dice, le gambe ai cani.” Lemmonio, quando lo prende al suo servizio, gli dice: “Non basta avere un’idea esatta della giustizia, capisci? Per farla valere ci vuol la forza.”
Il fascino del racconto sta molto nell’ambiente rurale in cui si svolge, tra strade impolverate, osterie frequentate da contadini affaticati dal lavoro e dagli stenti; la natura gonfia di una salute primitiva, sotto un cielo ancora capace di riflettere le stagioni.

Anche il Pickwick di Dickens vi si respira, in quella prudente giocosità che suscita il contatto con le situazioni ad opera di due personaggi che restano alfine un po’ astratti e strampalati come i due eroi cervanteschi e dickensiani. L’autore ad un certo punto fa menzione d’un personaggio boccaccesco, sciocco e credulone, Calandrino, protagonista della terza novella dell’ottava giornata nel “Decamerone”, al quale Lemmonio teme di rassomigliare. Della novella toscana, in vero, spesso si condisce questo romanzo che, partito con lo scopo di moralizzare i popoli sconfiggendo il male (una “specie di assurdo apostolato”), si arricchisce via via dei sapori dell’ilarità e dell’arguzia popolari. Si veda, come esempio tra i molti, la storia dell’avaro Morrucci. E tra i personaggi, quel Memmo, che è una sorgente inesauribile di racconti e pettegolezzi.
Alla compagnia si aggiunge ad un certo punto Spillo, un furbo matricolato, che Zaccagna suggerisce a Lemmonio di arruolare per condire di un po’ di astuzia il loro lavoro e non finire sempre per essere scornati dalla gente.
Se, alla fine, si dovesse scegliere tra i richiami letterari più vicini a questo romanzo, senz’altro esso va sempre di più completandosi degli echi dickensiani, per saporosità e leggerezza di scrittura. Lemmonio, se non nell’aspetto, nello spirito almeno, rassomiglia sempre di più al celebre Pickwick.
Che Dickens sia oltremodo presente lo dimostra anche la storia che Spillo racconta sul conto dell’avvocato Ghiozzi, imbroglione e uso ad allungare le cause per taglieggiare i propri clienti e ridurli al lastrico. Ricordate “Casa desolata“?
Ghiozzi è un socialista e Soffici lo tratteggia impietosamente, come fa coi suoi seguaci, tutti dipinti come autentici ceffi e manigoldi. Lemmonio non si perde una parola del comizio, per il quale ha organizzato certi disordini, e infatti qualcosa trascende ed ecco che scoppiano dei petardi causando un fuggi fuggi generale, lasciando il Ghiozzi senza il suo pubblico.
È il momento in cui la brigata dei tre consegue successi uno dopo l’altro, suscitando quadretti di gustosa comicità, in certi casi ricordando perfino il nostro Manzoni, il suo don Abbondio e la Perpetua, con un pizzicore in più. La scena della folla di viaggiatori che per protesta ribalta, su istigazione di Lemmonio, lo scalcagnato tranvai che ogni giorno li lasciava a piedi, dà la misura di una scrittura fresca ancora oggi, intrisa di quella sana popolarità con la quale si riesce ad affrontare senza troppa ambascia le ostilità della vita: “Un urlo generale mescolato a risa e battimani accompagnò il fragore della vettura, che rotolando giù per la scarpata andò a rovesciarsi col tetto in una siepe e le ruote per aria.”
Ecco ora un altro esempio di toscanismo presente nella scrittura di Soffici e che la rende godibile e vigorosa ad un tempo. Si sta combuttando per svelare ciò che Spillo (il furbacchione, il “manfano”) ha scoperto, ossia la tresca di una “vezzosa donzella” che vuol attirare nella trappola della sua finta onestà un ricco babbeo: “Ma allora – saltò su qui Zaccagna che da un pezzo ascoltava senza batter ciglio – O che rob’ella? La figliola che in un posto fa la mammamia e in un altro si fa mantrugiare e mette un povero cristo nel bertaello; i genitori e i parenti che tengono il lume e l’aiutano ad imbrogliar la gente. Per la madonna, qui mi par che sia tutt’un troiaio, altro che storie! E questo manfano che aspetta a ora a dirci come stanno le cose!…”

Il romanzo continua a riserbarci sorprese, e finalmente, nella storia di questa tresca, noi sentiamo tutti i profumi de “La mandragola” del Machiavelli, così che possiamo convenire che Soffici ha condito la sua opera delle migliori tradizioni della letteratura, non solo italiana, facendoci percorrere, in un rinvigorimento e aggiornamento ai nostri tempi, tutti gli snodi inventivi che l’hanno caratterizzata e resa grande.
Non poteva fare omaggio migliore alla sua toscanità, e alla sua Toscana, allorché, attraverso il pensiero di Lemmonio, dedica questi accenti alla sua terra: “Dolce e grande terra! – pensava – beato colui che sa strapparti il tuo segreto, godere della tua magnificenza per più vigorosamente amarti e servirti. Il tuo suolo ferace e adorno, come è prodigo di mèssi, di frutti e di fiori, così è il più propizio ispiratore delle forme della bellezza; l’aria sottile che ti avviluppa stimola il pensiero e l’immaginativa di chi è nato a vivere e operare umanamente nel tuo grembo; tu sei ricca di salute e di forza come sempre fosti, come sempre sarai, perché nessuna virilità, nessuna giovinezza, nessuna infanzia è meglio di questa tua, creata per una fiera esistenza nel mondo; per la lotta vitale dell’ingegno, del lavoro, o delle armi.”
Lo scherzo che Lemmonio ed i suoi compagni combinano a danno dei quattro stranieri che vogliono salire al castello della Pietraia, si colloca a corredo di questo esuberante amore per la propria terra. Ad essi che gli domandano se parli l’inglese o il francese, Lemmonio risponde: “Fuori di qui sì, ma a casa mia parlo italiano.”
Tutto ciò, tuttavia, è destinato ad un fiammata che subito si attenua. L’entusiasmo, infatti, di Lemmonio viene reso dubbioso da uno scrittore, un tempo famoso, che l’esperienza della vita ha indotto a rassegnarsi e a non opporsi al corso naturale degli eventi. Insomma, qualunque buona intenzione di migliorare le cose del mondo, e di sconfiggere l’ingiustizia, gli rivela, è vana; solo gli ingenui possono pensare di riuscirci. Ma dalle parole di un tale artista deluso, Lemmonio trae, infine, il convincimento che la vita e l’arte possono avere un significato solo se sono conquistate a prezzo di sacrificio e di sofferenza. E qui, l’esperienza parigina di Soffici, così legato agli artisti della rive gauche, ha senza dubbio il suo peso e il suo riflesso.
La soluzione che troveranno per scuotere l’ex scrittore famoso, rimasto deluso della vita, sarà tale che lo costringerà a ricominciare tutto da capo.
Quando i tre moralizzatori decideranno di continuare la loro opera in città, e precisamente entrando in Firenze, sanno già che un lavoro più impegnativo li attende, che darà loro, insieme allo stimolo per le difficoltà da superare, quella pace interiore e quella gran soddisfazione che sempre premiano una vita spesa per il bene del prossimo».

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 

 
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Silone e Fontamara. D'Annunzio in TV. Eventi musicali a Tivoli

Post n°957 pubblicato il 20 Luglio 2017 da giuliosforza

 

Post 877

“Il primo di giugno dell’anno scorso Fontamara rimase per le prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione elettrica. Così nei giorni seguenti e nei mesi seguenti, finché Fontamara si riabituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l’olio di oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera”.

Strapaese.

Alla simpatica citazione dell’incipit di Fontamara, il capolavoro di Ignazio Silone, fatta  dall’amico Franco su fb, qualche malizioso ’morzaiolo’ (le Morze, al mio natio borgo selvaggio, sono un angolo della piazza, un angusto passaggio tra un antico fontanile e una casa, per il quale si  procede verso la montagna, e per estensione ognuno dei tre o quattro luoghi della ‘Pischera’ ove si fa capannello; e mi piace perciò far derivare il termine da morse, evocanti forche, forche caudine: dalle morse-forche caudine in cui sono appostati i morzaioli -e le morzaiole: all’avanguardia, almeno in una cosa, vivaddio, è il mio benedetto borgo nei confronti degli altri paesi del circondario: le donne hanno strappato agli uomini, il monopolio delle ‘Morze’, e giorno e notte vi s’appostano al fresco per le loro esilaranti chiucchiurlaie, e guai a chi incappa nella morsa-forca delle loro lingue, quasi come quelle degli uomini più taglienti di una spada) ha voluto veder sottesa una sottile ironia nei confronti dell’amministrazione a motivo dell’oscuramento fortuito di alcune zone di ‘Palaterra’ (il rione sud). A me, che malizioso non sono, la citazione ha offerto l’opportunità di ripensare a Ignazio Silone, uno di quegli illustri figli d’Abruzzo (da Ovidio e Sallustio a Delfico, a D’Annunzio, ai due Spaventa, a Croce a Flaiano, per non dire di Tosti e Michetti) che l’Abruzzo agricolo e pastorale han fatto ricco di altissima cultura; quell’Abruzzo al quale geograficamente e culturalmente, se non amministrativamente, la mia terra appartiene. Silone, ramingo come Ovidio, ‘socialista senza partito, cristiano senza chiesa’, e perciò ‘a Dio spiacente e a li nimici sui’, è un modello dis-educativo eccellente all’interno della mia teoria pedagogica della dis-educazione estetica, una teoria la quale al classico fine dell’educazione come ag-gregazione (reductio ad gregem) contrappone quello della liberazione dal gregge, della de-gregazione, appunto, principalmente attraverso la frequentazione, ma soprattutto l’esercizio, dell’Arte. Nel brano di Fontamara in questione è oltretutto una garbatissioma, in stile siloniano, difesa del chiaro di luna, contro la retorica futurista che ne proponeva,  nel Manifesto ungarettiano, l’abolizione; chiaro di luna finalmente, dopo tanto imperversare di luci artificiali, rivisibile e rigodibile per un provvidenziale infortunio tecnologico (non si dimentichi che Silone, come molti filosofi e letterati suoi coevi, diffidava della scientismo, della  religione cioè di una scienza e di una tecnica, della scienza figlia maggiorata, rischianti di procurare un trauma ontologico, con esiti, dopo un primo momento di infatuazione e di esaltazione, deleteri per l’umano equilibrio). Proporrei ai miei compaesani, così proclivi ai pellegrinaggi, un pellegrinaggio laico a Pescina presso la tomba che, nella roccia sottostante ai ruderi della rocca che fu mazzariniana, custodisce i resti mortali dell’Esule finalmente reso alla sua Terra. Non si adonterebbero la Madonna dell’Oriente a Tagliacozzo, il Sacro Volto a Manoppello, San Tommaso con le sue reliquie a Ortona, la sacra Teca con le testimonianze del miracolo eucaristico a Lanciano, San Gabriele dell’Addolorata  a Isola del Gran Sasso. Dio è grande.

*

Tra gli inni e le sequenze della liturgia cattolica, sublimi ritengo, per dottrina e lirismo, i pentecostali "Veni Creator Spiritus" e il "Veni Sancte Spiritus". l'uno attribuito a Rabano Mauro di Magonza l'altro a Notker Balbulus di San Gallo, due prototedeschi, e non è un caso. Da lì all'hegeliano Geist della Phaenomnologie e al gentiliano Spirito come Atto puro il passo è breve.

*

Questo mio diario oggi registra un evento quasi miracoloso: ieri sera, e in replica oggi in mattinata, su Rai5 è stato trasmesso un programma dal titolo “L’Attimo fuggente” (titolo abusato e per la verità in questo caso improprio, a meno che non si voglia fare riferimento a quel passo del Libro Segreto ove è scritto “Questa è la mia certezza. non vale se non il momento, non importa nell'ordine dell'Universo se non il momento: quello che l'arte profonda esprime, che forse l'arte futura esprimerà convinta che tutto il resto è nulla"), un programma tanto inatteso da lasciar increduli. Per la prima volta sento dire in Rai del Vate come mai in passato, per oscurantismi e moralismi beceri, si era detto; sento dire dell’unicità dell’Uomo, del Poeta, del Guerriero dell’Amante d’Annunzio, restituitoci nella sua straordinaria complessità senza i cedimenti ai luoghi comuni, alle meschinerie, ai pettegolezzi  che già in vita, ma soprattutto in epoca postbellica, contornarono e deformarono la sua immagine. Da quel documentario su D’Annunzio e i suoi luoghi la straordinarietà di  Colui in cui  Iddio volle “del creator suo spirito /  più vasta orma stampar”, per dirla rubando a quel ‘tal Sandro, autor d’un romanzetto, ove si tratta di promessi sposi’, emerge in tutta la sua ineguagliabile ed inimitabile grandezza. Come abbiano potuto, gli autori di quel servizio, sfuggire alla censura subdola dei servi del potere e dei bigotti non so. Sta di fatto che questa volta l’Astuzia della Ragione ha fatto vendetta della meschineria degli invidiosi e dei pavidi e un primo barlume di verità sul Pescarese ha illuminato gli schermi. Un promettente inizio.

*

Tre eventi musicali di rilievo a Tivoli.

Il CDM (Centro Diffusione Musica) ha celebrato il suo quarantesimo anniversario con un bel concerto, tenutosi nell’aula magna del Convitto Nazionale ‘Amedeo di Savoia’, dell’orchestra dei giovani allievi diretti da Federico Biscione, di cui ho goduto soprattutto  ‘Danza degli Spiriti beati’ e ‘Danza delle Furie’ dall’Orfeo di quel Gluck di cui Miger giustamente scrisse «De l'art d'aller au cœur par des accords touchants/Nul autre mieux que lui n'a montré la puissance,/Et de tous ses rivaux c'est le seul dont les chants/Ayent charmé son pays, l'Italie et la France»[1]. Le ho particolarmente godute forse perché mi ricordavano l’harmonium di Provenza della mia adolescenza sul quale ne studiavo le trascrizioni. Al Tempio dell’Ercole Vincitore il complesso corale romano ‘Entropie armoniche’ si è esibito, con la sua solita bravura, nella cornice della Festa europea della Musica. E infine, ciliegina sulla torta, nella Chiesa di San Francesco il giovane ’ensemble “Les Petits Riens” (spiritosi i ragazzi!) formatosi durante gli studi specialistici al Conservatorio reale di Den Haag (L’Aia) (tutt’altro che piccoli nulla il Tiziano Teodori al flauto traversiere, la Sakura Goto al violino, la Garance Boizot alla viola da gamba, il Gabriele Lievi al clavicembalo!) ha eseguito raffinatissima musica barocca di Telemann, Bach, Händel. Tivoli si ri-muove, dunque, anche musicalmente, e sicuramente, dietro la spinta dell’assessore alla cultura Urbano Riario Sciarra Sforza Barberini, non si fermerà più.

Quod est in votis.

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Annamaria Andreoli, Più che l'amore. Libri per le vacanze- Pensieri sparsi.

Post n°953 pubblicato il 05 Luglio 2017 da giuliosforza

Post 876

Completo l'elenco della piccola scorta di libri per le letture delle mie vacanze all’ombra dei noci e dell’ibiscus frainileschi.

Oltre a d’Ormesson (Malgrado tutto direi che questa vita è stata bella e A Dio piacendo, NeriPozzi), mi faranno compagnia il giovane storico israeliano  della Hebrew University di Gerusalemme Youval Noah Harari con Homo Deus (Saggi Bompiani), Alicia Jimenez-Bartlett con Il silenzio dei chiostri (Sellerio), forse il primo thriller della mia vita, e il più impegnativo Glenn Gould con L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica (Adelphi), Del volume di Harari ho già iniziato la lettura delle oltre seicento pagine, di cui cinquanta di fittissima bibliografia, e sono assai curioso degli sviluppi. L’argomento,ultramoderno, è avvincente, e così è riassunto nel risvolto di copertina:

Sapiens ci ha mostrato da dove veniamo. Homo Deus ci mostrerà dove stiamo andando.

Nella seconda metà del XX secolo l’umanità è riuscita in un’impresa che per migliaia di anni è parsa impossibile: tenere sotto controllo carestie, pestilenze, guerre: Oggi è più probabile che l’uomo medio muoia per un’abbuffata da Mc Donalds piuttosto he per la siccità, il virus Ebola o un attacco di di al-Quaida. Nel XXI secolo, in un mondo ormai libero dalle epidemie, economicamente prospero e in pace, coltiviamo con strumenti sempre più potenti l’ambizione antica di elevarci al rango di divinità, di trasformare Homo sapiens in Homo Deus: E allora cosa accadrà quando robotica, intelligenza artificiale e ingegneria genetica saranno messe al servizio della ricerca dell’immortalità e della felicità eterna? Harari racconta sogni e incubi che daranno forma al XXI secolo in una sintesi audace e lucidissima di storia, filosofia, scienza e tecnologia,e ci mette in guardia: il genere umano rischia di rendere se stesso superfluo.Saremo in grado di proteggere questo fragile pianeta  e l’umanità stessa dai nostri nuovi poteri divini?”.

Ne troverò di belle alle mie rinascite!

PS

Ma per le mie estive divagazioni non poteva mancare Lui, riproposto da uno dei suoi più autorevoli biografi, Annamaria Andreoli, che ha insegnato letteratura italiana nelle università di Bologna e della Basilicata e che per circa undici anni(1997-2008) è stata presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani. L’ultimo suo libro, Più che l’amore (Marsilio,collana Nodi, 2017, pp 382), intende fare il punto sulla vexata quaestio dei rapporti fra Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio:fu vero amore? E intende dimostrare  che la leggenda dei divi amanti, narrata e rinarrata da oltre un secolo, era un castello di carta destinato a crollare. Leggo al proposito nel risvolto di copertina:

« Venezia 1894.Trentasei anni lei, trentuno lui: Un incontro fortuito, quello tra Eleonora  Duse e Gabriele d’Annunzio, che segna l’inizio di una storia lunga un decennio.Un breve tratto nell’arco di una vita, ma per entrambi capitale. Gabriele offrirà alla sua nuova musa una serie di capolavori: Eleonora li metterà inscena. Nasce con questo giuramento il motto araldico “More than love”. Lui,infatti, è perentorio: esige ‘più che l’amore’. Lei lo corrisponde a oltranza,recitando un trasporto da Baccante orgiastica: “Vorrei potermi disfare tutta!Tutto donare di me, e dissolvermi”. Al banco di prova, però, la verità sarà un’altra.Occorreranno anni prima che d’Annunzio prenda atto che l’attrice simula un consenso che si guarda bene dall’accordargli. In questo libro Annamaria Andreoli mette in discussione la vulgata, confermata da oltre un secolo, che dipinge la Diva come sottomessa al Vate. Se corrispondono al vero passione, tradimenti e umiliazioni, sono da ribaltare i ruoli: fu lui la vittima e lei il carnefice.E’ quanto emerge dai numerosi documenti, sottoposti a nuovo esame con un’avvertenza: a varare la favola dei divi amanti fu Gabriele, maestro nel creare leggende.La personalità carismatica di una donna lontana dai clichés dell’epoca e lo sfolgorio di una società europea in cui il teatro e la cultura italiana erano protagonisti sono i cardini di una vicenda che non smette di affascinare».

 

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Uno dei tanti interventi del rovianese Artemio Tacchia su fb (sottolineo rovianese per dare risalto al fatto che egli sembra chiuso, sì, nella sua Valle, quella dell’Aniene, di cui conosce ed illustra ogni segreto e che osserva sornione dall’alto di una delle propaggini  del Monte Sant’Elia, ma  è uno dei pochi storici-antropologi-poeti della zona ad essersi accorto “che oltre la sua valle c’è del mondo”), mi porge l’occasione per tornare a dire dell’Amata phegea, la farfallina delle falene dal caratteristico corpicino affusolato nero a pois bianchi e caratteristico anello giallo in coda, che i tedeschi dicono simpaticamente Weissefleck Widderchen, piccolo montone dalle macchie gialle, e i francesi sphynx du pissenlit, sfinge del soffione, del dente di leone, alla lettera piscialletto come, per le sue qualità diuretiche, il dente di leone è denominato: nomi importanti, troppo importanti, ma assai appropriati per un insettino che vola quasi sempre accoppiato, in stato di perenne copula, quasi il suo compito nella sua breve stagione altro non sia che il riprodursi. E noi bambini forse per questo infilavamo al pruncichittu, questo il suo nome nel nostro dialetto, un lungo stecco nel di dietro e godevamo nell’osservarlo agitare freneticamente le alucce, non saprei quanto per il dolore o quanto,forse, per il piacere (o, sadomasochisticamente, per ambedue le cose insieme).In questi giorni di riposo al fresco del mio piccolo giardino immerso nel verde, mi soffermo ad osservarlo a lungo e a meditare sulla sua  sorte e sulla complessa metafora della vita che essa  rappresenta. E penso anche che a noi a infilarci là lo stecco e ad agitarci per gli universi sia quella essenza birichina,  infantile divinità giocosa, detta destino che si diverte con noi al gioco impudico, ma non poi così crudele, ‘egliu zipponculu, per dare forse un senso alla sua diversamente monotona eternità.

 

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Quelle che raduno qui di seguito sono fronde sparse, già disperse in rete per gli amici difb. Non intendo privarne quelli del blog.    

Saltimbanco del sapere, funambolo della cultura. E’ questo che io sono?

Omnia vincit amor et nos cedamus amori.
In questo verso di Virgilio (Bucoliche) e in questi quattro altri del VI libro dell'Eneide (principio coelum ac terras camposque liquentes / lucentemque globum lunae titaniaque astra / spiritus intus alit, totamque effusa per artus / mens agitat molem totoque se corpore miscet) fu e ancora è la summa della mia filosofia. (Una lettrice mi chiede su fb di tradurre -ho fatto il Liceo artistico, si giustifica-. Sia curiosa, le rispondo. Cerchi in rete).

Rituali pellegrinaggi alle Sue case.
Chi cerca D'Annunzio vada a Gardone. Chi cerca Gabriele (anzi Gabbriele, anzi Gabbri) vada a Pescara in Corso Manthoné. Io li cerco ambedue e perciò presto tornerò nei due luoghi dell’annuncio: nel primo spinto da “un immenso desiderio di festa”, come suona l’invito…’guerri-ero’, nel secondo per lasciarmi guidare, dalla Sua Ombra uscita dalle pagine del Notturno, stanza per stanza a respirarne l'aura sacrale da cui tutto ancora è avvolto. 
Gardone e Pescara, Cor unum et Anima una!


Ogni tanto mi avviene di scendere dalle mie nuvole e di guardare freddamente alle cose di questo mondo.
Penso, e il pensiero non è molto originale, che il IV Reich, un IV Reich per ora relativamente pacifico, sia in atto già da prima dell'avvento dell'euro, il quale non ha fatto che rafforzarlo e consacrarlo. La Germania con la sua strapotenza ha ormai invaso economicamente l'Europa tutta,e non solo, acquiescente o per impotenza o per viltà. L'Inghilterra con la sua uscita fa intendere di voler prendere le distanze e di prepararsi, col supporto degli Stati Uniti, ad una reazione decisa che, alla prima scintilla (una nuova Danzica) potrebbe diventare, gli dei ce ne scampino, anche armata. L'incognita sarebbe solo la posizione della Cina, nuova superpotenza, che pesa sempre di più per gli equilibri del mondo. 
A questo punto deve far riflettere il fatto che due Guerre Mondiali, una più disastrosa dell'altra per la Germania, non son bastate a impedirle di risorgere più forte dalle sue ceneri. Quali sono stati gli errori dei suoi avversari? Non tentano di ripeterli con una politica cieca che si rifiuti di riconoscere l'oggettiva superiorità, in termini di genio, di tenacia, di lavoro, e non ultimo di ricchezza, del popolo tedesco, e di lasciargli di conseguenza nel mondo lo spazio di cui necessità, purché non prevarichi? Che l'Assoluto, come direbbe il tedesco Hegel, sia per tornare a fare il suo nido in Europa, e precisamente in Germania, anche geograficamente suo cuore? La Merkel non mi piace, per mille motivi, e l'ho anche più di una volta scritto. Ma non farci i conti, come vorrebbero in molti, è impossibile, e intestardirsi a non volerceli fare è ancor peggio, è da mentecatti.

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ChàireteDàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima,altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)




 

 

 

 
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