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Messaggi di Ottobre 2017

Superomismo. Solitudine. Zolla e Blondet. Zolla e Eco. "Zolla e la ricerca dell'Oltre" alla Libreria Rotondi

Post n°966 pubblicato il 27 Ottobre 2017 da giuliosforza

Post 886

Un colpo basso a tradimento per il mio superomismo, al mio risveglio, da Goethe (Mit Goethe durch das Jahr, 14 Ottobre):

Es glaubt der Mensch sein Leben zu leiten, sich selbst zu führen, und sein Innerstes wird unwiderstehlich nach seinem Schicksale gezogen. Ritiene l’uomo esser lui a orientare la sua vita, a guidare se stesso, mentre il suo io profondo viene ineluttabilmente trascinato verso il suo destino.

Non spetta dunque a me la decisione? Non posso dunque, con Ludwig, afferrare il destino per la gola? Non posso con Fritz  Ja sagen al destino che sono?

*

Pauci satis, unus satis, nullus satis. Uno alla volta, o per morte o per abbandono, vanno i miei amici. Farmene una ragione? Fedelissima mi resta la Solitudine, che “solo un Dio può riempire di sé (Lamartine).

*

Mi chiede Thirsenos  (post 884): “Un dubbio: perché al sommo Deus ex machina, al secolo U. Eco, Zolla non andava a genio? Stesso dicasi per il meno "deus" Maurizio Blondet che nel suo " Gli Adelphi della dissoluzione" ne fa oggetto d'inquisizione da Sant'Uffizio...

Ho più volte espresso la mia opinione su Umberto Eco, intelligenza lucidissima, informazione sconfinata, poligrafo ineguagliabile con una malcelata tendenza alla presunzione d’inerranza. Cattolico di formazione, una formazione ortodossamente tomistica, Eco era crescendo approdato a un radicale illuminismo voltairiano ulteriormente laicizzato (non credo ne accettasse il deismo), mantenendo per altro il peggio della cultura di provenienza e non accogliendo il meglio di quella di arrivo: il peggio, la predisposizione al dogmatismo, il meglio quella alla tolleranza, all’apertura mentale, alla disponibilità intellettuale. Ferreamente razionalista, egli non concepiva le ragioni del cuore, e dalla carta geografica dello spirito aveva semplicemente cancellato le regioni del sentimento e del mistero. Poteva amare Zolla, l’uomo e lo studioso attento ai fenomeni esoterici di ogni tipo, ai misticismi, allo sciamanesimo? Il suo antizollismo dunque non mi stupisce più di tanto, né me ne scandalizzo, ma spero che la denominazione “Reparto dei cretini”, ch’egli aveva dato, leggo, agli scomparti della sua biblioteca presumibilmente riservati agli scrittori capaci ancora di stupirsi (uno degli ultimi libri di Zolla s’intitolava  Lo stupore infantile) fosse stata da lui pensata con un bonario sorriso sulle labbra e non con un beffardo cachinno. Sarebbe imperdonabile.

Per quanto riguarda Maurizio Blondet (che non è una mia frequentazione -frequentai ed amai invece molto in gioventù un suo quasi omonimo, quel Maurizio Blondel filosofo de L’Action che, col Renouvier de l’Uchronie, col Bergson de L’Evolution créatrice, col Marcel del Journal métaphysique fu uno dei punti cardini della mia formazione) non ho che informazioni di seconda mano. Ho appreso che è un giornalista cattolico integralista, ho letto qualche vivace e combattiva intervista, poco in verità ma sufficiente a permettermi di esprimere una opinione. Io come Eco (ma ahimé senza l’ingegno di Eco) vengo da una formazione ortodossamente cattolica, anche se fin dagli inizi sofferta: i credi niceni costantinopolitani  con tutta la serie di elucubrazioni più o meno geniali che ne sono lungo i secoli discese (straordinario aspetto della letteratura fantastica è la teologia, secondo Borges, e condivido) mi andavano per natura stretti, ma finché potei ne ressi la morsa. Quando per onestà intellettuale  me ne liberai e ritrovai il mio “neopaganesimo”, gnostico panteistico e lirico, di cui ero evidentemente per  nascita impastato (son convinto  chi si converte ad una fede averla sempre avuta, chi ne esce non averla mai posseduta), non volli tenere, come molti son tentati di fare, due piedi in una staffa: non si possono accettare trascendenza, incarnazione,  unione ipostatica etc   senza accettarne tutte le implicazioni,. Insomma: o tutto o niente. Il cattolicesimo (quella particolare interpretazione e codificazione della religiosità cristica- non oso dire cristiana, già essa stessa  per molti manipolazione paolina dell’autentico messaggio del Nazzareno) con tutto il suo bagaglio dogmatico va o in toto accettato o in toto rifiutato, e in questa luce ho rispetto per la posizione dei fondamentalisti  alla Lefebvre o alla…Blondet. Capisco anche l’Indice dei libri proibiti riscavato dall’Opus Dei -nel quale sono immodestamente finito anch’io! Grazie a Dio e alle lotte per la libertà che a qualcosa sono pur servite, le crisi di fede hanno oggi molte possibilità di sbocchi: chi  non ne esce riconfermato può uscirne senza rischiare il rogo (almeno quello materiale) passando ad altre confessioni, le classiche “ortodosse” greco-bizantine (che mi risultano vivere una stagione di rifioritura) per esempio;  le postriformiste,  le  neomoderniste,  e perché no le buddiste e le scintoiste, con la variegata New Age oggi variamente di moda, che dovrebbero placare le ansie di chi non se la sente, in buona fede si spera, di fare il salto verso la sponda del pensiero libero.

Con tutto questo che hanno a che fare Blondet e Zolla? Blondet  auspica a Zolla l’inquisizione, e non c’è, per un giornalista fondamentalista cattolico, nulla di strano.  Il buon Elémire se la ride  nel suo Oltre (spiegherò in un secondo momento l’uso che faccio di questo termine). Il guaio di chiunque vede le cose dall’alto (il veder giusto) e non da vicino (il veder bene), è che nella sua visione universalistica trovano comprensione tutte le visioni particolaristiche, ma non viceversa (come dico ai miei amici preti: per il vostro Dio nel mio c’è posto, nel vostro per il mio no) e, paradosso dei paradossi, colmo dei colmi, ha l’obbligo morale (per coerenza intellettuale) del rispetto e della tolleranza anche nei confronti del più radicale degli intolleranti. Se ciò sia un bene o un male, non so. So solo che, se fregatura è, si tratta di una nobilissima fregatura.          

*

Ancora a proposito di Zolla.

Proprio nei giorni in cui ne ricordavo su queste pagine la figura, mi giunse l’invito ad una conferenza dal titolo  “Elémire Zolla e la ricerca dell’Oltre” che sarebbe stata tenuta dalla vedova Grazia Marchianò (già docente di estetica all’Università di Siena-Arezzo e lei stessa assidua frequentatrice di culture e spiritualità orientali nonché fedele custode e divulgatrice della  memoria del marito) presso la nota Libreria antiquaria  “A. Rotondi o delle occasioni” (via Merulana 84), specializzata in Religioni, Filosofia, esoterismo, oriente, fondata da quell’Amedeo Rotondi, in arte Vico di Varo (egli era vicovarese di nascita) o, esotericamente, A. Valdben, che fu maestro elementare e, quale cultore di varia spiritualità, autore di numerosi volumi iniziatici  diversamente giudicati. La conferenza prevedeva la presenza del noto teologo dissidente ed ex sacerdote Vito Mancuso, da anni presentissimo nel dibattito culturale sui media di ogni tendenza e autore di fortunate opere di divulgazione dalle quali risalta il dramma spirituale che egli vive: quello di una irrisolta competizione tra le ragioni della trascendenza e quelle dell’immanenza assoluta. Confesso che la presenza del Mancuso mi intricava assai, dal suo intervento m’attendevo parole chiarificatrici  (eventualmente dal pubblico e anche da me provocate) sui temi più scottanti dell’attuale dibattito culturale e sulla sua posizione nei loro confronti. Ma purtroppo l’intervento di Mancuso dovette ridursi a una nervosa, schematica  enunciazione degli argomenti che avrebbe voluto trattare e che la mancanza di tempo gli impediva di sviluppare: ché la Marchianò lo aveva tenuto confinato all’angolo per oltre due ore, tanto era durata la sua relazione la quale, partita dall’intenzione di approfondire il concetto filosofico-religioso dell’ Oltre  in Zolla (attorno, sopra, dentro?),  s’era poi essenzialmente dilungata sulla vita e l’opera del Pensatore torinese nelle sue varie fasi. Peccato per Mancuso. Eppure egli era lì, vivo e vegeto, l’asciutta figura ancora più intensa e visibilmente contratta e un poco turbata: quale migliore occasione per comprendere pensieri, emozioni, affetti, turbamenti d’un’anima bella e viva in travaglio?

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Chiesa dei Martiri Canadesi. Renzo Piano e lo ius soli. Mario Sforza pittore

Post n°965 pubblicato il 16 Ottobre 2017 da giuliosforza

Post 885

Nella Dolce vita felliniana una scena è ambientata nell’allora appena inaugurata, ma non ancora consacrata, chiesa di nostra Signora del Santissimo Sacramento e dei Santi Martiri Canadesi, in Via Giovanni Battista de Rossi, nel quartiere Nomentano-Trieste, quasi all’incrocio di Viale 21 Aprile con la Nomentana, all’altezza del massiccio monumento al finanziere che guarda il comando generale della Finanza: si tratta della scena di un concerto d’organo, al quale Mastroianni assiste in non ricordo bene quale veste (immagino in quella di cronista, il ruolo che nel film interpreta). Il caso volle che fossi presente alla ripresa di quella scena: le circostanze,  in quel periodo della mia vita in cui la mia apostasia, da sempre latente, non era ancora esplosa, mi conducevano spesso in quella chiesa, sicuramente una delle più belle fra le nuove chiese di Roma, ricca di mosaici, maioliche e  pregiate opere in legno e vetro  (confessionali –oggi in disuso: ho visto confessare all’interno su normali panche coram populo e persino all’esterno, nel sagrato antistante , prete e penitente seduti su un muretto di cemento…-, panche, vetrate), ma soprattutto per l’architettura interna: una serie di arcate neogotiche ogivali  in cemento armato lavorato, che da terra attingono il soffitto, e creano uno straordinario effetto prospettico in direzione del grande baldacchino del presbiterio, totalmente ricoperto di preziose ceramiche policrome.

La chiesa è officiata dai Padri Sacramentini, addetti all’adorazione perpetua, fondati da San Julien Eymard, uno dei tre canonizzati della Congregazione della Società di Maria, o Padri Maristi, con Marcellin Champagnat, a sua volta fondatore dei Piccoli Fratelli di Maria o Fratelli Maristi delle Scuole, e Pierre Chanel, protomartire dell’Oceania. Curioso che il cofondatore e capo del…direttorio, Jean-Pierre Colin, non abbia fatto carriera, chissà per quale motivo, e si sia  fermato, se non vado errato, a Servo di Dio, che del processo è la prima tappa. La Società di Maria fu una delle tante congregazioni religiose sorte in Francia dopo la Rivoluzione con lo scopo preciso di ricristianizzarla. Quanto tal fine sia stato raggiunto non saprei giudicare.

*

Questa settimana l’illustrazione dei giornali italiani e il colloquio con gli ascoltatori di Mattino Rai Tre sono affidati a una mia parente assai brava, Francesca Sforza, che da molti anni lavora alla “Stampa”. La ascolto con curiosità comprensibile, con maggiore concentrazione di quella che normalmente l’orario, che è quello della toilette, consente. Tra le segnalazioni più curiose che Francesca ha fatto è quella di una intervista  di non so quale quotidiano a Renzo Piano, un personaggio che come uomo e come artista (lo ritengo, mi si perdoni la bestemmia, coi suoi celebratissimi interventi, dal Centre Pompidou al romano Auditorium, un deturpatore di ambienti) e come uomo “superimpegnato” non colloco nella mia dissacrante graduatoria  degli uomini illustri, e ne sarò punito. Considero poi il fatto che sia stato creato senatore è vita una delle ultime canagliate dello stalinista salottiero radical chic senza erre moscia Giorgio Napolitano. Dunque in quella intervista Piano non parlava di architettura ma diceva la sua sullo ius soli (e diceva tutto quello che uno s’attende dica uno come lui) e, se non ho sentito male,  intendeva lo ius latino come il Jus franco-inglese, e attorno all’accezione di succo bellamente ricamava. Io spero, ripeto, di aver male inteso, e che a intendere male non sia stato Piano, nuovo, in questo caso, belliano marchesino Eufemio che “latinizzando esercito distrutto / disse exercitus lardi ed ebbe il premio”.  

*

Mentana, l’antica Nomentun, ormai può dirsi un quartiere di Roma, pur respirandovisi, geograficamente e culturalmente, aria sabina. Raggiungerla non mi è stato difficile in questa mattina chiara come nessun altra, per una via Nomentana serpeggiante fra vigneti e oliveti (ormai, per la verità, quasi tutti scomparsi, avendo ceduto il posto a un nuovo grande comune, Fontenuova, che ha assorbito Santa Lucia e Tor Lupara e le molte ville ivi esistenti di noti personaggi  come lo storico dell’arte  Zeri, il canterino Morandi e Roberto Rossellini che proprio al limitare est del comune di Roma, in località Prato Lauto, ivi a lungo soggiornò all’epoca dei suoi amori con la Magnani prima, la Bergman poi e per ultima l’indiana Sonali das Gupta). Frequentai in tempi andati a lungo Mentana (la nonna materna delle mie figlie aveva oltretutto qui le sue radici), in occasione di incontri didattico- culturali nelle scuole, nella galleria Borghese e nel Museo garibaldino, che conserva i non gloriosi cimeli della disfatta del 1867, l’ultima prima di Porta Pia, dalla cui breccia non sarebbe entrata l’Italia in Roma, ma sarebbe uscito il Vaticano alla conquista dell’Italia.

Questa volta sono andato alla Galleria Borghese per un particolare Vernissage, non mondano e rutilante di colori di vesti di dame salottiere  e  di discorsi criptici di critici prezzolati, ma intimo, raccolto, intenso per ‘in-genuità’ e serenità, le stesse emergenti dall’autopresentazione dell’artista, un giovane  quarantenne dallo sguardo puro e splendente come quello di un che il mondo guarda con gli occhi di chi la bellezza del mondo sa cogliere, e di essa sa godere, anche sotto la scorza della realtà più ruvida e rude. Realtà ho scritto, e questo è il termine migliore per descrivere il mondo di Mario Sforza (questo anche il suo cognome, ma nessun rapporto di parentela, almeno recente, sì di conterraneità, con me e con la  Francesca di cui sopra). Realista infatti egli non ha paura di definirsi, pur non disdegnando, nella sua multiforme attività, che ingloba archeologia architettura restauro indagine scientifica, esperienze e metodologie d’avanguardia. I suoi maestri, superfluo dirlo, sono i più grande maestri del passato che egli rivisita: con l’amatissimo Caravaggio Correggio, Michelangelo, Bernini, il Volterra, David, Goya, Canova, Van Gogh, Cézanne e Monet, partendo dai quali il suo realismo spontaneamente trapassa nel surrealismo, nel tentativo di disvelare quella ‘realtà’ onirica che definisce la vita, se la vida es sueño, se we are such stuff as dreams are made on.

Sono grato a Mario Sforza (cell. 348 091 0440, mail mariosforza @yahoo.it, web mariosforza1977,facebook.it) per le emozioni che sa suscitare con la sua opera concepita nella gioia e partorita nel dolore: ché come tutti i veri artisti egli è sacerdote e vittima sacrificale insieme, immolante e immolantesi sull’altare dell’Arte  per la salvezza ( la Bellezza) del mondo.

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