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Messaggi del 12/03/2018

Il contagio dannunziano parte seconda

Post n°978 pubblicato il 12 Marzo 2018 da giuliosforza

 

Post 898

(segue dal post 897)

ad osare solo dopo aver, nell’introspezione diuturna, nella diuturna meditazione, scavato in fondo a sé stessa per trovare in quel fondo le stesse radicazioni dell’universo e di Dio, il senso ultimo della Verità (rousseauiano sondare  nel pozzo del proprio cuore, agostiniano rientrare in sé, ché in interiore homine habitat veritas).

Quale più alto programma educativo?

Avvicinarsi a D’Annunzio è avvinarsi non solo a colui che ha celebrato la “bellezza del mondo, il dinamismo del pensiero, l’unicità del vivere” (Guerri) come nessun altro, ma a colui che ha offerto sé stesso in sacrificio (come ogni grande creatore che nel dolore partorisce e con depressioni e sconforti indicibili e inconcepibili dal profano paga lo scotto delle sue estasi e delle sue esaltazioni) per l’umanità, per riscattare l’uomo e il suo stesso presunto Liberatore (Erlösung dem Erlöser, Parsifal wagneriano) da sé stesso, e avviarlo al superuomo. E ciò usque in finem. Il tetrastico evocato a conclusione del Libro Segreto, che ai bigotti piagnoni evoca il fallimento del progetto vitalistico d’annunziano, ne fa testimonianza. Il 

 

Tutta la vita è senza mutamento

ha un solo volto la malinconia

il pensiere ha per fine la follia

e l’amore è legato al tradimento

 

è prova di uno di tali momenti di angoscia inesprimibile da cui nemmeno il Cristo fu alieno (Tristis est anima mea usque  ad mortem… Deus meus, deus meus, ut quid dereliquisti me?’). ma non può essere inteso che nel complesso dell’opera totale, dagli scritti giovanili alle prose giornalistiche, ai grandi romanzi, alle raccolte poetiche, ai drammi italiani e a quelli francesi, alle prose così dette intimistiche e memorialistiche (dico i così poco frequentati Notturno, Le faville del Maglio, Di me a me stesso, Taccuini, e naturalmente il Libro segreto) nei quali l’itinerarium mentis (et cordis, aggiungerei) in deum (quale che sia il dio d’annunziano) è soprattutto un itinerario estetico che si disnoda fra  triboli e  spine sì, ma soprattutto fra rutilanze di colori e fragranze di profumi, tra fiori e canti ed inni ed urla di gioia alla Vita che, sempiterna, celebra nell’universo, in quell’universo primieramente che è il cuore dell’uomo, i suoi fasti.

Se è vero che Angedenken an das Schöne/ ist das Heil der Erdensöhne  (“nella contemplazione del bello è la salvezza dei figli della terra”: due versi goethiani dai quali discende, ma chi lo nota?, l’abusatissimo dostoevskjiano “la bellezza salverà il mondo”), al Pescarese deve guardarsi come all’apostolo insuperato della Bellezza, come a Colui  che il Bello più di ogni altro in sé-opera-d’arte-totale incarna, celebra, gode e soffre, e addita, lui, l’immanentista panteista irriducibile, come possibile auspicabile esito trascendente di una teleologia infine per il Bello salvifica. Ens et Pulchrum per Gabriele convertuntur, Bello è l’attributo essenziale di quell’Iddio “che nel dì novissimo rinnovellerà il volto dei suoi eletti a simiglianza della sua Bellezza recondita”, come a lettere cubitali fa scrivere tutt’intorno alla volta della cappella del tempio del suo battesimo, il San Cetteo dalla sua munificenza ridonato a vita e splendore novelli, in cui volle dalla tomba interrata di  San Silvestro traslate le spoglie dell’adorata, “santissima Madre”.

E’ troppo chiedere che D’Annunzio, al pari di Dante, sia introdotto come classico obbligatorio nei programmi delle scuole della Repubblica? Come, e più di Dante, Egli è moderno, ma, soprattutto, come Bruno e Nietzsche, è futuro: verrà il giorno in cui la Conoscenza, da troppo tempo pregna, finalmente partorirà il superuomo, l’uomo “estetico” dalla sensibilità (aisthesis)  raffinata, dilatata,  rimbaudianamente s-regolata: la sensibilità del Corpo (dell’Iddio) cosmico. Sarà quello il suo Giorno, e il Giorno della nostra impavida speranza.

Nitimur in vetitum.

 

Civitavecchia 12 05 2013

 

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* Dell’intervento, tenuto a braccio a conclusione del convegno di Civitavecchia del 12 Maggio 2013, do qui una ricostruzione più ordinata, di proposito per altro mantenendole quel carattere disinvoltamente, goliardicamente ludico e quello stile discorsivamente affabile che ad un vegliardo si perdonano.

 

*

A MO’ D’APPENDICE

 

Brevi divagazioni su Alcyone e su Il Piacere

 

Indubbiamente Alcyone con Maia brilla di più sfolgorante luce fra le cinque Pleiadi dannunziane.

Quello che Enrico Thovez, simpatico rodomonte, forse antenato per via materna (Maria Berlinguer) del mite marchese catalano Enrico Berlinguer segretario pcista, e primo e più accanito denunciatore dei presunti “plagi” dannunziani, era solito dire provocatoriamente di Callimaco e di Saffo, cioè che avrebbe volentieri dato tutta la letteratura italiana per un loro verso, io mi sento di dirlo, un po’ meno  provocatoriamente, di D’Annunzio: per un verso di Alcyone darei, se non  tutta,  buona parte della letteratura italiana contemporanea.

 

Chi voglia penetrare lo stile e l’anima del Poeta e non sia disposto a lasciarsi fascinare, spoglio di pregiudizi pre-critici e di riserve mentali, dall’attonito mondo alcionico ed in esso nudo profondare, rinunci. E’ necessario offrirglisi, abbandonarglisi, semplicemente e totalmente, come a una grazia di Dio; lasciarsi trascinare da suoi ritmi come da un'onda di musica wagneriana; attoniti attendere, come Berenson bambino in contemplazione davanti ad un quadro, che l’Opera da sé si dis-veli e parli “dentro”.

A questo fine non giova far precedere all’immersione la lettura delle sagge e fredde analisi introduttive dei critici. Le analisi sono anatomie. E le anatomie, è risaputo, vogliono il cadavere. Esse si esercitano in corpore vili. E corpo vivo è invece l’Opera nella quale stai per tuffarti. Sarebbe come avviarsi ad un banchetto con l’animo non di chi voglia godere dei profumi e dei sapori dei cibi ma di chi voglia sottoporli ad un esame di laboratorio. Cosa buona e prudente è dunque  non farsi avviare, o sviare, alla lettura dal dotto critico e dalle sue erudite e cavillose introduzioni. Se mai ad esse, per pura curiosità, potrà tornarsi in fine, ormai attrezzati  all’uopo. Ma si sarà allora già usciti d’estasi, già riemersi, si sarà, dal gorgo, si potrà, per puro gioco, problematizzare, fuor d’emozione e di commozione, col disincanto del critico, l’improblematizzabile. Per gioco, ripeto, per puro gioco.

 

La fortuna dei critici sono gli scrittori. Quanto più gli scrittori son grandi tanto più i …rampicanti (non oso per rispetto dirli parassiti) hanno spazio ed opportunità per abbarbicarsi, come un’edera al tronco di un sequoia. Ma la sfortuna dello scrittore, quanto più grande esso è, sono i “cattivi” critici. E del lettore. Nessuno come il  critico “cattivo” è in grado di attossicare il cibo al quale ti avvicini bramoso di nutrirtene e di goderne. Egli spende il suo tempo ed il suo talento (ne ha, sovente, di talento, anche grande, ne ha di ingegno, non ha, ahimé, di genio, ed è ciò probabilmente a rodergli, a renderlo astioso e bilioso, a farne quella “vendetta dell’intelligenza sterile nei confronti dell’arte creativa” che, secondo Elias Canetti, è) a trovare il pelo nell’uovo, a sfogare tutta la sua burbanza e pedanteria con mille ma e mille se, felice quando glie se ne offre l’occasione da un inciampo, da un incidente di percorso, da una caduta di stile, che è così naturale (non può esser perennemente teso l’arco della creatività), se “spesso anche il grande Omero sonnecchia”. Naturalmente non tutti i critici dannunziani sono “cattivi”. Francesco Flora era, ad esempio, delizioso. A leggerlo hai la felice impressione dell’affabile forbito signore che con finezza garbo ed intuito ti introduce alla gioiosa fruizione dell’opera d’arte. E sa farlo con fine arte maieutica e poietica, con pudore e rispetto,

Di tutti i critici dannunziani egli fu certo il migliore. Degli attuali, per quanto riguarda Alcyone, Gibellini e Roncoroni sono indubbiamente i più dotati, e per di più la loro analisi non è viziata da quei pregiudizi ideologici che caratterizzarono e caratterizzano gli antidannunziani viscerali, anche se i ma e i se e i distinguo del comasco, sinceramente fastidiosi. Giordano Bruno Guerri, poi, in veste di narratore disincantato e insieme appassionato, e Annamaria Andreoli in quella di critica ma soprattutto di eccellente biografa, rappresentano due casi a sé di illuminata dedizione alla causa del Vate, ne sono uno il   Giovanni l’altra la Maddalena, e noi fanatici ne siamo loro grati.

Tra le tante accuse che accompagnarono, soprattutto agli esordi, il Pescarese, quelle di plagio furono sicuramente le più numerose. Per lo più accuse ridicole e risibili, dettate da acrimonia, come ridicoli e risibili i loro autori, compreso l’Olimpico Croce.  Non c’è artista che non abbia bisogno di uno spunto, di una spinta, di una qualche “poca favilla”, cui “gran fiamma seconda”.

Esplicitamente lo riconobbe Goethe quando scrisse: “Jeder grosse Künstler”, cito dall’almanacco Mit Goethe durch das Jahr,  reisst uns  weg, steckt uns an, ogni grande artista ci attira a sé, ci contagia”. Ed esplicitamente lo riconobbe lo stesso D’Annunzio quando, già nel suo primo capolavoro, Il Piacere, scrisse:

“Gli (ad Andrea Sperelli) vennero alla memoria i primi versi di una canzone del Magnifico:

“Parton leggieri e pronti

Dal petto i miei pensieri…”

Quasi sempre, per incominciare a comporre, egli aveva bisogno di una intonazione musicale datagli da un altro poeta; ed egli usava prenderla quasi sempre dai verseggiatori antichi di Toscana. Un emistichio di Lapo Gianni, del Cavalcanti, di Cino, del Petrarca, di Lorenzo de’ Medici, il ricordo di un gruppo di rime, la congiunzione di due epiteti, una qualunque concordanza di parole belle e sonanti, una qualunque frase numerosa bastava ad aprirgli la vena, a dargli, per così dire, il la, una nota che gli servisse da fondamento all’armonia della prima strofa. Era una topica applicata non alla ricerca degli argomenti ma alla ricerca dei preludii”. (edizione zanichelliana tascabile del 2009, introdotta da Eugenio Ragni, pag.235).

Roncoroni puntualmente, con zelo forse eccessivo, insiste nel mettere in risalto i presunti, numerosi debiti di D’Annunzio alcionio nei confronti del simbolista Henri de Régnier, di lui pressoché coetaneo (1864-1936), soprattutto quello dei Jeux rustiques et divins  usciti nel 1897. Mi sono procurato, scaricandola da internet, la raccolta régnieriana e la sto leggendo attentamente. Ebbene, se è innegabile che lo stesso clima panico si respira nell’opera, per me assai godibile, del Poeta di Honfleur, e da essa prendono abbrivio molte situazioni alcionie, vero è pure che  di molto queste superano i modelli originali in afflato, evocatività, contagiosità; gli stessi modelli, seppur di valore, dalla perizia lirica e linguistica dannunziana vengono ulteriormente valorizzati, reinseriti come sono in nuovo, preziosissimo castone che ne esalta il primitivo splendore.

In quarta di copertina del volume (Oscar Mondadori, 1982) si fa finalmente piazza pulita delle pedanterie e si va al sodo. Senza più i cavilli ermeneutici dell’interprete togato, che presume di anticipare al lettore ciò che dell’opera  sarebbe vivo e ciò che sarebbe  morto, vietandogli il gusto di scoprirlo eventualmente da sé (non risparmierebbero gli editori se ci liberassero dalle dotte disquisizioni introduttive e ricorressero ad un semplice chiosatore di redazione per quel minimo di note indispensabile alla comprensione del testo?), in poche parole vien detto l’essenziale, quanto al lettore basta per motivarsi all’impresa (ché una vera e propria impresa è tentar di penetrare l’arcano insondabile di un’Anima grande distesasi sulla carta), per la quale occorrono curiosità, disponibilità, apertura mentale, intelletto scevro da pregiudizi di ogni sorta  (gli idòla specus tribus fori theatri), umiltà. Cito integralmente:

 

Alcyone, terzo libro, dopo Maia ed Elettra, delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, è unanimemente considerato il capolavoro del D’Annunzio poeta. In esso, vero e proprio diario lirico di una breve stagione estiva vissuta tra le colline di Fiesole e le spiagge della Versilia, tra le Apuane e il mare e, nel contempo, storia di un impossibile sogno di totale divinizzazione dell’uomo attraverso i sogni e attraverso il mito, D’Annunzio trasfigura e traduce musicalmente sensazioni, impressioni e immagini e scardina il lessico, la sintassi e il metro tradizionali per conseguire il massimo della suggestione e dell’estasi panico-naturalistica. Con le sue 88 poesie, perfetta sintesi di immediatezza lirica e di elaborazione tecnica, di “natura” e di “arte”, Alcyone rappresenta il momento più felice della creatività dannunziana e segna il punto di partenza di tutte le esperienze poetiche novecentesche”.

 

*

Delle quattordici Upanishad vediche, o commentari, trasmessi per lo più oralmente e solo tardivamente raccolti, una solo ne conosco bene, per averne fatto oggetto di un corso accademico nei primi anni novanta per il ciclo “La Pedagogia dei grandi Libri”: il Bhagavad Gīta, che per taluni studiosi sarebbe oltre tutto entrato abusivamente nel catalogo upanishadico. Ne ho solo perciò nozioni raccogliticce, tratte, in prima seconda o terza mano, dalla traduzione latina settecentesca di Anquetil-Duperron.

Una delle mie predilette citazioni, oltre al Tat twam asi, approssimativamente tutta questa Vita sei tu, caro al Wagner che lo dedica a Cosima in una notte stellata di Bayreuth, trovai per la prima volta proprio ne Il Piacere, là dove Andrea, in convalescenza (“purificazione e rinascimento”) per le gravi ferite riportate in duello, s’abbandona all’estasi panica  nel giardino di Schifanoia in compagnia di Krishna Schelley e Byron (“Are not the mountains, waves and skies, a part of my soul, as I of them?... I live not in myself, but I become Portion of that around me; and to me high mountains are a feeling” –Byron, Childe Harold’s, III, 75 e III, 7):

 

“Hae omnes creaturae in totum ego sum et praeter me aliud ens non est”.

Tutte queste creature in tutto io sono, e fuori di me non è altro essere”.

Non son forse già qui tutto Bruno, tutto Spinoza, tutto Hegel, tutto Beethoven, tutto Goethe, tutto Schelling, tutto Wagner, tutto Nietzsche, tutto Gentile, tutto D’Annunzio?

 

Amor labor vitast. Risus quoque vitast. Et mihi confricor (Formiggini)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Il contagio dannunziano. Parte prima

Post n°977 pubblicato il 12 Marzo 2018 da giuliosforza

Post 897

Nel 2013, in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dannunziano, tenni per gli amici di un circolo culturale di Civitavecchia un discorso che riporto qui senza mende. E’ il mio modo di onorare oggi il 158° compleanno del Pescarese.

IL CONTAGIO DANNUNZIANO*

 Chàirete Dàimones!

A voi il mio saluto classico, e con esso il saluto di Colui dal quale l’appresi, il “Folle” di Röcken, quel Friedrich Nietzsche (“il Barbaro enorme/ che risollevò gli iddii sereni/ dell’Ellade su le vaste porte/ dell’Avvenire”) che del panico Ermapollodionisio pescarese (mio è l’endecasillabo), fu Maestro fra i maestri; al nome del quale, e non certo solo per l’ode celebrativa “Per la morte di un Distruttore”, il suo nome sarà per sempre legato, alla cui Ombra sarà la Sua in eterno inseparabilmente unita, due corni della tessa fiamma, come  l’Ulisse e il Diomede danteschi.

Mi fu data l’opportunità di provare a contagiare della mia passione dannunziana un numerosissimo ed attentissimo pubblico di adolescenti e di giovani, o di spirito giovani, nel nobile liceo intitolato al Vate nella “sua” Città, sulle sponde del “suo” fiume, l’undici marzo scorso, vigilia dell’Anniversario. Ancora caldo e carico di quella grande emozione, una tra le più forti e grandi, se non la grandissima, della mia vita (ché, pur se numerose altre volte abbi occasione di celebrare il vate,  mai mi sarei atteso dagli dei il dono di poterlo fare di fronte ad una platea di adolescenze in fiore nella pienezza della mia ancor vigile vecchiezza, non ancora perciò turpe e tediosa) eccomi ora a voi con l’intenzione di tentar di plagiare, se ce ne fosse bisogno, anche voi della mia passione per Colui che un critico ed uomo politico cattolico, Domenico Magri, in anni in cui pur il solo pronunciare il nome di D’Annunzio era ritenuto blasfemo, ebbe l’animo di celebrarlo, con le parole dal Manzoni  dedicate alla memoria del Còrso (“qui, nell’ode d’Hugo, plus grand que César, plus grand même que Rome/ absorbe dans son sort le sort du genre humain”) come Un di coloro in cui volle Iddio “del creator suo Spirito/ più vasta orma stampar”.

 

Sono qui a dirvi liberamente, senza ritegni, senza remore, senza freni, se non qualche fren dell’arte, affabilmente ma anche affabulatoriamente, ai limiti del cialtronesco (non è forse sfarzo anagramma di Sforza?) della mia  ormai pressoché centenaria passione dannunziana, del mio invasamento, della mia possessione.

Non sono un “esperto” di D’Annunzio, non sono un dannunzista, non sono un filologo, non sono, sia detto senza offesa, uno spulciatore (uno di quelli ai quali dobbiamo la nostra ammirazione e la nostra gratitudine per l’erudita e paziente opera di scavo, di cernita, di ripulitura, di chiarificazione); semplicemente un dannunziano innamorato sono, un “intimo”, anzi intimissimo, di Gabriele, con stigma,  cum labe (et tabe)  originali nunciana conceptus, nato drogato d’abruzzesità e di d’annunzianesimo: come Lui porto “il limo della mia terra (d’elezione) alla suola delle mie scarpe, al tacco dei miei stivali”; i colli e le valli della mia terra equa, dura ed altera come la contigua terra dei Marsi,  respirano abruzzesità con le arie dell’ “Adriatico selvaggio”, del Gran Sasso e della Maiella le quali, travalicati il Sirente, il Velino, i monti della Duchessa, giungono a carezzarli o sferzarli, fresche d’estate, rigidissime d’inverno; ancora l’Ombra del mio possibile avo Muzio Attendolo, fondatore della stirpe sforzesca (potrei aver nelle vene il sangue di uno dei nove figli di Maria da Marzano Contessa di Celano sua moglie) affogato nei turbini del Pescara alle sue foci nel tentativo di strappar loro un suo cavaliero, vaga fra le selve e i monti della mia terra; ancora l’anima di Vittoria Colonna (figlia di  Agnese, figlia di  Battista Sforza e di Federico da Montefeltro, marchesa d’Ischia e di Pescara, confidente e musa ispiratrice -“Un uomo in una donna, anzi uno Iddio”-, nel Cenacolo romano da lei fondato dopo la morte prematura nella battaglia di Pavia del marito Francesco d’Avalos, del solitario di Macel de’Corvi, di Colui che …”nuovo Olimpo/ alzò in Roma ai celesti…”) attraversa con l’Ombra del Sulmonese di stirpe sabella la mia piana del Cavaliere; ancora l’Ombra di Lui, che ebbi ospite assiduo per un trentennio nella casa di via delle Caserme, alla sua casa prossima, messami a disposizione dalla  magnanimità di amici carissimi, colma di Sé, insieme agli Amici di Turingia, i silenzi delle mie stanze romane.

 

Il D’Annunzio di cui vorrei contagiarvi non è certo quello degli stereotipi ricorrenti  che lascio ai cultori di pettegolezzi. Io intendo dirvi di Colui che, come Novalis, intuì il mistero delle cose ed affidò all’arte, che sola ne possiede il segreto, il compito di svelarli; di Colui che fece suo, ed in sé (Orbo veggente, Arcangelo coclite) elevò al massimo grado, spingendolo  fino al parossismo, il programma dall’adolescente Rimbaud (ange ou démon?) affidato al Poeta Veggente: “un long, immense, raisonné dérèglement de tous les sens”; di Colui che, sforzando alle estreme conseguenze il panismo ed il cosmismo bruniani (a loro volta  corollari obbligati delle premesse, cusaniane e copernicane, della Coincidentia oppositorum e del De revolutionibus orbium coelestium, in grado di operare una vera e propria revolutio mentium terrestrium, per le ardite teorie dell’infinità dei mondi, della circolarità dell’essere in cui tutto è centro e periferia, dell’identità di causa creante ed effetto creato, di finito e di infinito, di Dio e Mondo. di Mens super omnia e di Mens insita omnibus: teorie inauguranti l’era dell’immanenza-trascendenza quale tensione interna, eroico furore, “raptamento” atteonico, del particolare che avverte in sé il respiro dell’universale, del Tutto divino che ad ogni ente in cui storicizzandosi si significa conferisce pari divina dignità, fondamento dell’unica possibile ecologia come discorso intorno all’universo mia casa e mio corpo), seppe liricamente rendere (“ par da scorza tu esca”, “sei fatta virente”, heideggeriana, ma già bruniana e nicciana denkende Dichtung, poesia pensante), in tutta la sua vastissima opera, dalle prose e dalle poesie adolescenziali all’estremo, sublime quanto criptico, Libro Segreto o  Cento e cento e cento pagine di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, l’invocazione rinascimentale ad una metanoesi e ad una metantropologia che sono ancora tutte, ahimé, di là da venire.  Dell’onnivorace celebratore della Vita voglio dirvi, “dono grande e terribile del dio”, in ogni suo momento ed in ogni suo aspetto, dalla nascita all’odiata vecchiezza, nella gioia e nel dolore, nel bene e nel male, al di là del bene e del male; del curioso insaziabile fino all’estremo anelito, come il Vegliardo dell’incisione giuntalodiana evocata nelle ultime pagine del Libro segreto nella quale un antico Veglio si trascina a fatica col suo girello mentre un cartiglio sulla sua testa recita “Anchora apprendo”; di Colui che nel Notturno confida: “Nulla sfugge agli occhi senza posa attentissimi che la natura mi ha dato e tutto m’è alimento e aumento. Una tal sete di vivere è simile al desiderio di morire e di eternarsi” (parole da incidere, come programma che tutti gli altri annulli, sugli architravi e sugli stipiti delle porte di ogni scuola, dal giardino d’infanzia all’Università); di Colui che con il sindacalista Alceste de Ambris s’inventa nella Carta del Carnaro la più “bella” costituzione del mondo, che tenta in Fiume la costruzione di uno stato etico in quanto estetico, che nei “Fondamenti” (art.14) scrive:

 

“Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nelle università dei Comuni giurati:

“la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà:

l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono:

il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia ben eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo.”;

 

che sesta corporazione dice quella comprendente

 

 “il fiore intellettuale del popolo: la gioventù studiosa e i suoi maestri: gli insegnanti delle scuole pubbliche e gli studenti degli istituti superiori: gli scultori, i pittori, i decoratori, gli architetti, i musici, tutti quelli che esercitano le arti belle, le arti sceniche, le arti decorative”;

 

che  prefigura ed auspica la decima (Energeia Euplete Euretria)  come quella non avente

 

arte né novero né vocabolo. La sua pienezza è quella che è attesa come la decima Musa. E’ riservata alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. E’ quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all’apparizione dell’uomo novissimo, alle trasfigurazioni ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l’ànsito penoso e il sudore di sangue.

E’ rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta una antica parola toscana dell’epoca dei Comuni, stupenda allusione ad una forma spiritualizzata del lavoro umano:

“Fatica senza fatica”;

 

che nel paragrafo “Dell’Istruzione pubblica” scrive (art, 50):

 

“Per ogni gente di nobile origine la cultura è la più luminosa delle armi lunghe…La cultura è l’aroma contro le corruzioni. La cultura è la saldezza contro le deformazioni…Qui si forma l’uomo libero.

Qui si prepara il regno dello spirito, pur nello sforzo del lavoro e nell’acredine del traffico…

 

e all’art. 54:

 

“Alle chiare pareti delle scuole aerate non convengono emblemi di religione né figure di parte politica.

Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza dio.

Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita.

Ma ricorrono sulle pareti quelle iscrizioni sobrie che eccitano l’anima, come temi di una sinfonia eroica, ripetute non perdono mai il loro potere di rapimento.

Ma ricorrono sulle pareti le imagini grandiose di quei capolavori che con la massima potenza lirica interpretano la perpetua aspirazione e la perpetua implorazione degli uomini”;

 

di Colui che nel paragrafo “Della edilità (art. 63) rinnovella il collegio degli

 

Ufficiali dell’Ornato della città” che “impedisce il deturpamento…allestisce le feste civiche di terra e di mare con sobria eleganza…persuade ai lavoratori che l’ornare con qualche segno di arte popolaresca la più umile abitazione è un atto pio….si studia di ridare al popolo l’amore della linea bella e del bel colore…”;

 

di Colui che nel paragrafo “Della Musica”, con cui emblematicamente la Carta si conclude, stabilisce (art. 64):

 

“Nella Reggenza italiana del Carnaro la Musica è una istituzione religiosa e sociale.

Come il grido del gallo eccita l’alba, la Musica eccita l’aurora, quell’aurora…

Intanto negli strumenti del lavoro e del lucro e del gioco, nelle macchine fragorose

che anch’esse obbediscono al ritmo esatto come la poesia, la Musica trova i suoi movimenti e le sue pienezze.

Delle sue pause è formato il silenzio della decima Corporazione…;

 

e nell’art.65, l’ultimo:

 

Le grandi celebrazioni corali e orchestrali sono ‘totalmente gratuite’ come dai padri della Chiesa è detto della grazia di Dio”.

 

     Sfido chiunque a trovare in qualsiasi Costituzione esistente così elevati pensieri e proponimenti più puri, a tal punto sublimi ed impegnativi da essere spinti a pensarne impossibile la realizzazione; sfido chiunque a trovare un testo legislativo che attribuisca alla cultura, all’arte in generale ed alla musica in particolare un tale valore educativo e sociale. Come per il Baudelaire delle Fusées (“la musique creuse le ciel), per  il Verlaine de L’art poétique (“De la musique avant toute chose”), per il Marcel del Quatuor en fa dièse (“La musique dit vrai, la musique seule), per l’estensore della Carta la musica è qualcosa di più di un puro ébranlement nerveux, è ragione partecipativa, è strada diretta all’Essenza, scorciatoia per l’Assoluto, meglio e più della religione e dell’amore. Utopie? Forse, Ma esse son lì, testimonianza di una tensione etica ed estetica che non ha pari in alcun progetto istituzionale di nessuno Paese al mondo.

 

Sono nello scrittore e nell’uomo D’Annunzio (“categoria” in cui lo Spirito, per dirla hegelianamente, si è in maniera unica ed irripetibile spazialmente e temporalmente determinato, “avatar”, per dirla coi linguaggi più accessibili delle spiritualità iniziatiche orientali, in cui il divino si è reincarnato),  un tale bergsoniano élan vital, una tale faustiana tensione (Streben), una tale “romantica” nostalgia (Sehnsucht) d’assoluto che proporlo ad esempio educativo (positivamente “dis-esducativo”, nel mio linguaggio, in quanto de-gregante, affrancatore dal gregge prono) non è provocazione e blasfemia, è dovere. Vivere la vita sub specie Nuncii, mi consentirete questa arditezza, è ritenere il mondo caos, nonsenso, non-essere prima che l’umano-divino soffio dell’Arte (quell’Arte che “sforza il mondo a esistere”, così in Maia) lo vivifichi, prima che la parola dell’artista lo pronunci); è ritenere l’umano pensiero creatore di sé e del mondo, un’operazione, nella sua astrattezza, concreta, nella sua concretezza astratta (“Pensieri scintille dell’Atto/ faville del ferro percosso,/ beltà dell’incude…, ancora in Maia): ché vuoto un pensare che non si traduca in azione, cieca un’azione che dal pensiero non sia illuminata. “Ardire non ordire”, “memento audere semper”, “clausura fin che s’apra, silentium fin che parli”, sono solo tre dei mille motti che il vate a sé propone , e a chi legge la sua opera scritta o fatta pietra, ad incitare l’anima

( segue nel prossimo post)

 
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