IL SACCHETTO DELLA FELICITA'

Post n°27 pubblicato il 02 Ottobre 2012 da duetalleri
 
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Il Sacchetto della Felicità

 

 

 

Quando i nomadi Deinu si fermarono al paese e ci offrirono le loro variopinte mercanzie, tutti pensammo che sarebbe stato carino comprare loro qualcosa. I Deinu erano un popolo gentile e operoso, che viveva nel rispetto della terra da cui ricavavano solo lo stretto necessario per vivere. Nelle lunghe notti dei freddi inverni uomini e donne si ingegnavano in tantissimi tipi di artigianato, creando a seconda dell'estro e delle capacità complessi rompicapo intagliati nel legno, graziose bamboline e giochi per bambini, meravigliosi tappeti dai colori cangianti. Tutti oggetti che, anche quando non erano di alcuna utilità pratica, sempre portavano a chi li comprava una ventata di allegria e leggerezza. Per questo i nomadi erano ben accolti ovunque e quando si trovavano a passare dalle nostre parti, nei loro lunghi spostamenti primaverili, tutti eravamo ben contenti che si accampassero per qualche giorno alle porte del paese. Fu così anche quell'anno e io e mia cugina ci alzammo presto la mattina per andare a curiosare tra i banchi, in cerca di qualche ninnolo che ci aiutasse a stare allegre per un altro anno ancora. Dora scelse subito una sciarpetta con il ricamo di due agnellini che al solo guardali facevano una tenerezza infinita.

“Ho bisogno di coccole”, disse “quando guardo questo disegno mi sento amata e mi viene voglia di andare in giro ad abbracciare le persone! E tu, hai scelto?”.

Mi venne proprio da ridere... “Abbracciare tutti? Alla tua età? Mah, cugina cara, contenta tu...però è davvero una cosina graziosa. Ora però lasciami guardare un po', che ancora non ho trovato nulla per me...”

Una cosa che mi attraeva moltissimo a dire il vero l'avevo vista subito, ma sapevo che era un oggetto raro e prezioso...e le mie tasche erano ovviamente quasi vuote, come al solito. Si trattava di una fascia fatta di cordoncini rossi, azzurri e oro intrecciati tra loro, ripiegata su se stessa e cucita a formare una piccola tasca, grande a sufficienza perché un bambino potesse infilarci la mano. Era un oggetto grazioso ma non certo prezioso, di per sé, eppure... Anche se ne avevo visto uno solo in vita mia, tantissimo tempo prima, sentivo con certezza che quello non era un oggetto qualunque ma uno dei famosi “Sacchetti della Felicità”. Si narrava che contenessero dei grossi semi, tondi e duri, che crescevano solo nella terra natale dei Deinu; dentro ogni sacchetto c'era anche almeno un seme d'oro, all'aspetto identico agli altri ma che dopo qualche tempo si rivelava per ciò che era. Era sufficiente che il bimbo che l'avesse preso lo conservasse con sé fino a quel magico momento, cosa che poteva accadere dopo qualche giorno oppure mesi o anni. Un tempo era molto facile trovare in giro un Sacchetto della Felicità e quasi tutte le famiglie ne avevano uno; i semi che diventavano d'oro sembravano essere tantissimi e non c'era nessuno che non conoscesse almeno un'altra persona che ne avesse trovato uno...o almeno così diceva. Un po' alla volta, però, molti bambini si stufarono di star ad aspettare che i semi diventassero d'oro; si diceva che fosse tutta una truffa, che i sacchetti contenessero sempre meno semi preziosi o non ne contenessero affatto...così diventarono sempre meno di moda ed i nomadi, ammesso che ne producessero ancora, smisero di esporli sui banchi. Oh quanto mi sarebbe piaciuto poterne avere uno per i miei nipotini! Già mi immaginavo la luce che si sarebbe accesa nei loro occhi nell'infilare la manina nel sacchetto, già pregustavo l'attesa che avrebbe fatto palpitare i loro cuoricini. Certo, sarebbero rimasti un po' delusi nell'aprire la manina e scoprire, con ogni probabilità, un normalissimo seme marroncino; sapevo bene però che non avrebbero gettato i semi ma li avrebbero conservati a lungo con sé, al sicuro nella tasca più vicina al cuore, sbirciando dentro di tanto in tanto con rinnovata speranza. E sapevo anche, con assoluta certezza, che la delusione si dimentica mentre la speranza coltivata con costanza ci fa bene e ci aiuta a vivere.

“Le piace, signora? Perché non lo prende, le porterà tanta gioia” disse gentilmente la giovane venditrice porgendomi il sacchetto, che però non presi.

“Lo comprerei volentieri, ma non credo di potermelo permettere. So che è un oggetto molto prezioso.” I Deinu sono un popolo cortese, ma non stupido. Inutile fare finta che qualcosa non ci piaccia o non abbia valore per cercar di spuntare un prezzo migliore.

“E' davvero un oggetto prezioso, ma non costa molto”, disse un vecchio nomade che nel frattempo si era avvicinato. Anzi, diciamo pure ”un vecchissimo nomade” perché di certo aveva sulle spalle ancora più primavere di me.

“Come fa a costar poco qualcosa di tanto valore?”

“Lei sa perché si chiamano Sacchetti della Felicità, vero?”

“Certo, il bambino che trovasse il seme d'oro...” cominciai un po' seccata per il repentino cambio d'argomento, ma i suoi occhi antichi mi guardavano così intensamente che abbassai il tono di voce e sussurrai: “La felicità non sta nel trovare il seme, vero? Sta nello sperare che il mio seme possa diventare d'oro...”

“Forse”, disse lui, “o forse sta nell'essere certi che quello che ho scelto è un seme d'oro che ancora non posso riconoscere come tale. Comunque il costo di questo sacchetto è quello del semplice pezzo di stoffa, bella ma senza alcuna proprietà magica ”. Scrisse il prezzo su un foglietto, che mi porse. Era un prezzo veramente irrisorio anche se corrispondeva, in pratica, a tutto ciò che avevo in tasca. Lo pagai e finalmente presi in mano il sacchetto, vuoto. Il vecchio si chinò, tirò fuori da sotto il banco un pacchettino con dei semi e me lo diede. Ne versai il contenuto nel sacchetto e tirai i lacci.

“Allora è tutto qui” dissi, un po' delusa “Nessun seme d'oro”. Non so perché, eppure contro ogni logica mi sarei aspettata di vedere almeno qualche luccichio dorato.

“Ma certo che il seme d'oro c'è, altrimenti che Sacchetto della Felicità sarebbe? Solo che deve mettercelo dentro lei.” Mi fece l'occhiolino e sparì dietro la tenda.

Mia cugina, che non aveva seguito il discorso ma si era attardata a chiacchierare gaiamente con la giovane nomade, mi prese sottobraccio e mi trascinò via mentre ancora stavo borbottando tra me e me sulla faccia tosta che aveva avuto quel tipo, alla sua età poi. “E dove lo vado a prendere io un seme d'oro? E con quali soldi? Mica sbucano dal nulla!”. Di botto mi fermai. Che pensiero strano mi era venuto. Poteva mai essere? Quanti anni erano passati dall'ultima volta che avevo controllato il mio seme? Da bambina non passava giorno che non andassi a controllare se il miracolo fosse avvenuto, ma nell'ultimo decennio di certo non ci avevo più pensato...Non avrei mai potuto gettarlo, ero troppo affezionata a quel seme che avevo scelto tra tanti nel buio caldo di un sacchetto di cordoncino, all'età di sei anni. Cacciai quindi le dita nel piccolo taschino della mia casacca preferita e ne sentii sotto i polpastrelli la superficie sferica e rugosa. C'era ancora, per fortuna. Beh, ovviamente, visto che a suo tempo avevo cucito per bene l'apertura del taschino, lasciando solo un buchino per controllare. Per tirarlo fuori dovetti allentare un po' la cucitura, ma era vecchia e non oppose troppa resistenza. Ed eccolo lì il mio seme, tutto splendente d'oro, luminoso e quasi allegro nel sole del mattino. Era talmente bello che neanche volendo avrei avuto cuore di venderlo per mangiare qualche frittata in più. Prima che la mia svagata cugina se ne accorgesse feci scivolare il prezioso seme nel sacchetto, dove immediatamente tornò grigio e marroncino come tutti gli altri. Mi voltai un secondo a guardare verso il campo nomadi e, come mi aspettavo, il vecchio Deinu era lì che mi guardava, da lontano. Anche da quella distanza vedevo che aveva gli occhietti che brillavano di contentezza; mi fece un mezzo inchino e poi si incamminò tra la folla che ora cominciava a riversarsi tra i banchi di mercanzia.

“Che dici, Dora, andiamo?” dissi allora a mia cugina, che nel frattempo si era persa a contemplare un banco stracolmo di fiori di cristallo e di farfalle d'argento, “Dai che anche questa volta ci siamo guadagnate il nostro anno di allegria. E i nipotini ci stanno aspettando”.

 
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IL NONNO CHE AVEVA VISTO TUTTO

Post n°26 pubblicato il 26 Settembre 2012 da duetalleri
 
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NIPOTE - Nonno! Perché te ne stai sempre rintanato in casa?

NONNO - Perché fuori non c’è nulla di interessante.

NIPOTE - Ma non è vero! Guarda che sole meraviglioso! Sapessi come è bello il ciliegio tutto fiorito!

NONNO - Già visto, già visto. Sapessi quante volte l’ho visto fiorire quel meraviglioso albero! Ah, la mia vista è ormai talmente offuscata che anche se mettessi il naso sul tronco probabilmente non vedrei altro che ombre; preferisco rimanere qui sulla poltrona, dove la brezza che ne porta il profumo mi fa ricordare esattamente com’era quando lo potevo vedere bene.

NIPOTE - Allora vieni fuori a respirare un po’ di aria buona.

NONNO - Ah ne ho respirata di aria buona quando facevo l’alpino…quella di adesso, se non ci fosse il profumo dei fiori del ciliegio, puzzerebbe solo di fumo e di gatto.

NIPOTE - Nonno, vieni a sentire: c’è un concerto al municipio, le note arrivano fino a qui.

NONNO - Già visto, già sentito. A me basta chiudere gli occhi e un’intera orchestra mi suona Beethoven nel più soave dei modi.

NIPOTE - Dai, facciamo così: ti vado a prendere un gelato qui di fronte, ma tu vieni almeno sulla porta a salutare la barista.

NONNO - Gelato? Ma te l’ho detto che quando ero piccolo io c’erano gli ambulanti con il furgoncino bianco? Dalle mie parti ne passava uno che si chiamava Bortolotti, vestiva sempre di rosso e aveva una lunga barba bianca. O almeno, io me lo ricordo così ma a ben pensarci forse mi sto confondendo con Babbo Natale. Che vuoi, quando si è poveri e ti regalano un gelato ti sembra sempre Natale, anche se ci sono 40 gradi.

NIPOTE - Allora vieni?

NONNO - Ma certo che no, con quello che costa! Ai miei tempi una pallina costava 20 lire, poi nel giro di pochi anni si è passati a 50 lire, poi 100 e poi addirittura 500. Un modo come un altro per imparare cos’è stata la svalutazione della lira. No, no, mi basta il ricordo.

NIPOTE - Nonno, andiamo al parco?

NONNO - Già fatto, già fatto. Ma tu vai pure, ti fa bene un po’ d’aria, sei così nervoso.

NIPOTE - Nonno, porta qui la seggiola, dai. Ma hai visto che tramonto?

NONNO - Già visto, già visto.

NIPOTE - Ma sai che forse stanotte si riuscirà a vedere un’aurora boreale? Alla televisione dicono che a causa delle perturbazioni solari in queste notti è possibile anche alle nostre latitudini. Vuoi che mi fermi qui da te per controllare? Così se ne vedo una ti sveglio?

NONNO - Che pensiero gentile, ma non disturbarti. Già viste anche le aurore boreali.

NIPOTE - Ehi nonno, guarda, ci sono due fidanzatini che bisticciano.

NONNOMa ti sei rincitrullito? Cosa pensi che mi interessi vedere litigare le persone, non ho visto altro da quando son partito per la guerra. Ti ho mai raccontato di quando...

NIPOTE - Nonno?

NONNO - Sì?

NIPOTE - Nonno, c’è un UFO…

NONNO - Già visto, già visto. E poi non ti credo,  quelli si sono estinti un bel po’ di tempo fa.

NIPOTE - Estinti? Mica sto parlando di dinosauri!

NONNO - UFO, dinosauri…stessa roba. Visto uno visti tutti.

NIPOTE - Va bene, nonno, ho capito. Meglio che me ne vada a casa e ti lasci riposare. Ciao eh?

NONNO - Ciao ciao, torna presto a farmi visita!

NIPOTE

NONNO - Oh finalmente un po’ di pace. Bravo ragazzo, un tantino insistente però. Non c’è modo di convincerlo che la vecchiaia non è poi così brutta, quando puoi startene in poltrona tranquillo in compagnia dei tuoi ricordi. Tanto, a che pro fare nuove esperienze? Ricordo solo le cose di un tempo, quelle di adesso sono talmente trasparenti per me che non lasciano nemmeno una traccia. Uh, ciao nipote, sei proprio tu? Sei passato a trovarmi? Che carino… giusto ora mi stavo chiedendo quanto tempo è passato  dalla tua ultima visita… come stai? La mamma?

NIPOTE - Nonno, ma non me ne sono ancora andato! Ti avevo salutato, sì, ma poi quando sono salito in macchina e ho messo la retro…beh, ho dovuto fermarmi perché sulla strada stava passando una famiglia. E che famiglia! Mamma, papà, cane e sei figli.

NONNO - Beh, famiglie con sei figli ne già ho viste, ovviamente un bel po’ di tempo fa. Ti dirò, se i figli fossero stati sette magari un pensierino di arrivare fin sul cancello a guardarli ce l’avrei fatto. Ma non capisco perché sei ancora fermo, anche camminando in fila indiana a passo di lumaca la famiglia ormai dovrebbe essere sfilata tutta…

NIPOTE - Beh ecco, uno dei bambini piccoli si è seduto a terra proprio dietro alla mia macchina e non ne ha voluto saperne di alzarsi. La mamma gli sta raccontando una storia.

NONNO - Cosa? Cosa stai scherzando?

NIPOTE - Uh, beh... la mamma ha provato in vari modi a far alzare il piccolo, ma non è riuscita a convincerlo. Pensa che mi ha anche chiesto scusa per il disturbo. Poi  mi ha detto che l’unico sistema per non fargli fare i capricci è raccontargli una storia abbastanza lunga da farlo addormentare, così poi lo può prendere in braccio e andare avanti. Non ho avuto cuore di controbattere, così si sono seduti tutti lì intorno (cane compreso) ad ascoltare. Mi sa che per un bel po’ non riuscirò a spostare la macchina. Nonno, che c’è? Non ti sarai mica arrabbiato?

NONNO - Certo che sono arrabbiato, nipote, arrabbiatissimo perché mi hai fatto perdere tutto questo tempo! Forza, muoviti a darmi una mano, dobbiamo assolutamente arrivare là prima che finisca la storia! Uh, è così tanto tempo che non ne ascolto una. Anche se fosse una storia che ho ascoltato cento e più volte, anche se le mie orecchie riuscissero a sentire solo una parola sì e una no, anche se la mia poca memoria mi facesse scordare l’inizio molto prima di arrivare fino in fondo…ah nipote, andiamo andiamo, che una storia raccontata val sempre la pena di essere ascoltata.

 

 
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LA VALIGIA DI FRANCESCA

Post n°25 pubblicato il 17 Settembre 2012 da duetalleri
 
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Ciao, fratellino. Domani parto, finalmente. All’alba mi metto in cammino e, come sai, parto per non tornare più indietro. Porto con me solo le cose di cui non posso fare a meno: ecco, ho appena finito di preparare La Valigia. Sono sicura che ti ricordi della Valigia, quella con cui giocavamo da piccoli agli esploratori: quella vecchia di pelle con le chiusure un po’ arrugginite e le cinghie che ci fanno il giro intorno e devi stringerle bene se vuoi evitare che il tutto scoppi fuori. Sai, ho dovuto farci un buchino in più, avevo veramente tantissime cose da metterci dentro e non riuscivo a chiuderla nemmeno sedendomici sopra. Non te la prendi, vero? Non sono mai stata brava a fare le valige, anzi pur di non prepararle quasi rinuncerei a viaggiare. E’ sempre difficile decidere di cosa avrai bisogno e cosa no, separare l’indispensabile dal superfluo, insomma non trovo mai il giusto mezzo tra il troppo e il troppo poco! Ci metto ore…Ma cosa te lo dico a fare, so bene che lo sai, mi hai sempre preso in giro per questo. Ma questa volta sono stata proprio brava e non ho avuto dubbi né indecisioni: nella valigia ho messo proprio tutto. Non ci credi?

Ho cominciato con i maglioni, le magliette e i jeans, tutti accuratamente piegati e riposti sul fondo del valigione. Poi ho preso la biancheria e facendone dei rotolini piccoli piccoli ho tappato tutti i buchini; se poi si spiegazza un po’, beh pazienza. Poi il beauty, le ciabattine, le scarpe e persino gli scarponcini. Pure i calzini con le dita separate, quelli che ti facevano tanto ridere. Sopra ho messo gli asciugamani e quindi ho cominciato con i libri. I miei amati, amatissimi libri. Commoventi, divertenti, istruttivi, devastanti, illustrati o a caratteri piccolissimi, letti e riletti oppure con le pagine dopo la 16 ancora intonse. Tutti. Mamma che peso! Insieme ai libri non potevo non mettere i ricordi, la scimmietta azzurra di peluche e il vecchio pulcioso Fufi, le foto del liceo e quelle della nostra casina, l’ultima lettera di mamma e papà. Il diploma del conservatorio, la descrizione della casa che avrei voluto comprare, la boccia di vetro con Vienna sotto la neve. Sì, pure quella…e via, è piccola piccola! In mezzo ai miei diari, perché non si rovini, ho infilato il dvd con i racconti e le canzoni che ho scritto.

Quando ho finito, mi sono meravigliata molto accorgendomi che c’era ancora un bel po’ di posto. Mi sono detta, nulla è per caso e, anche se a dire il vero mi è seccato un po’, ci ho fatto stare il portatile e l’iPad. In realtà pensavo di portarmeli a spalla, ma visto che c’era spazio mi son fatta coraggio e li ho nascosti in mezzo alle cose morbide che già avevo sistemato.

Ho provato a chiudere la valigia (scusa, La Valigia) e senza sforzo riuscivo a far scattare le serrature. Non c’è gusto, così…Allora l’ho riaperta e ho cacciato dentro anche il tubino nero, le scarpe coi tacchi, gli stivali scamosciati e un paio di altre cose che preferisco non dirti. Ora sì che finalmente si faceva un po’ di fatica a chiudere, ma nell’angolino di destra un buchetto vuoto mi guardava con insistenza. No, eh, mi sono detta, cara Valigia non puoi certo chiedermelo…ma poi ho ceduto. Ho riempito l’unico spazio rimasto con il portafoglio, le carte di credito, il libretto degli assegni e, spingendo un po’per farcelo stare, il mio telefonino. Tranquillo, non suonerà, mi sono ricordata di spegnerlo. Ora sì che dentro la valigia avevo messo davvero tutto.

Ecco, fratellone mio. Siamo arrivati al momento dei saluti. Eh sì, perché ho deciso che parto subito, stanotte, non vorrei mai arrivare all’alba e capire che non ne ho più il coraggio. Ti lascio questa lettera e, ovviamente, ti lascio La Valigia. Fanne quello che vuoi, come ben sai a me non serve più. Lo so che “tecnicamente” avrei fatto meglio a lasciarla a qualcun altro (ridacchio pensando a cosa ne farai dei reggiseni) ma proprio non potevo: chiunque altro avrebbe cercato di convincermi che l’unico viaggio senza bagagli è quello che si fa verso la morte, e non verso la vita, come invece mi insegnasti tu. Ricordo bene il giorno in cui, dieci anni fa, fosti tu a lasciare La Valigia a me. Augurami buon viaggio, allora! A presto e ci vediamo in giro!

La tua sorellina Francesca, finalmente nel presente.

 
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LA SOLITA NOTTE DI LUNA PIENA, AL SOLITO CASTELLO...

Post n°24 pubblicato il 12 Settembre 2012 da duetalleri
 
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C’era una volta il solito castello, che si ergeva cupo e possente a dominare la solita foresta oscura e impenetrabile. Giù in basso scorreva quasi allegro il solito torrentello di acque limpide, ma nessuno ci faceva caso. Non quella notte, almeno, perché faceva così freddo, ma così freddo che tutti gli abitanti del solito castello si erano stretti intorno al solito camino ad ascoltare le solite storie raccontate dalle nonne, mentre i bambini pisolavano dentro le ampie gonne. Anche la luna piena si sarebbe fatta volentieri un sonnellino in mezzo a soffici nubi tiepidine, ma guarda caso quella notte non c’era nemmeno una nuvola in tutto il cielo nero. Non era ancora arrivata l'ora di andare a dormire e il Re, come al solito, si annoiava. Si stringeva nel suo solito mantello di ermellino ma non riusciva né a scaldarsi, né a star fermo.

- Uffa, sempre le solite storie, che noia - disse alla Regina, che come al solito nemmeno alzò lo sguardo dal suo solito ricamo. Era almeno la ventesima volta, quella sera, che il Re ripeteva la solita frase annoiando tutti.

Erano tutti così annoiati e addormentati che quasi non si accorsero che stava succedendo qualcosa di insolito. Qualcuno bussava alla porta, con insistenza.

- Ollapeppa! - disse il Re quando finalmente se ne accorse – Che qualcuno vada a vedere, presto!

- Sarà il solito cavaliere che si è perso e chiede ospitalità per la notte - disse la Regina, ma intanto allungava la testa verso la porta per vedere qualcosa in più, tutta contenta della novità.

Uno dei servi era corso ad aprire e ora faceva strada a due strane figure, una alta alta vestita tutta di verde e una bassa bassa vestita tutta d’argento.

- Ohibò! - disse il Re, che era solito usare i soliti modi di dire che si usano solo nelle fiabe - Che strani figùri ci ha portato questa notte di luna piena?

- Buonasera, Sire! - disse il più alto - Siamo solo un povero cavaliere e un povero giullare che chiedono ospitalità per la notte.

Il Re, che al sentir narrare le solite storie si era in verità un po’ appisolato e nemmeno ora era proprio sveglio sveglio, continuava a spostare lo sguardo dal cavaliere verde al giullare argentato, incuriosito e perplesso, senza dire nemmeno una parola. Fino a che la Regina sua moglie gli diede una gran gomitata, cosa che forse gli fece fare un bel sobbalzo ma di sicuro lo svegliò del tutto.

- Ah sì ah sì, bene bene - disse il Re prendendo tempo - ma sì, certo, sicuro, restate pure come nostri ospiti stanotte, di spazio ce n’è così tanto…

- Grazie, Sire, la Vostra generosità Vi fa onore. Possiamo fare qualcosa per sdebitarci?

Il Re nel frattempo continuava a guardare la figura vestita d’argento…così bassa bassa, così tozza tozza, così…beh, ecco, così ridicola…che gli venne un’idea.

- Valoroso cavaliere - disse quindi - qui abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno ma, ecco, ci annoiamo un po’. Ditemi dunque: questo Vostro strano compagno è davvero un giullare? Uno di quelli che sanno far ridere le corti degli imperatori, che sanno alleviare lo spirito dei potenti, che sanno inventare giochi di prestigio e cantar motti?

- Oh, Sire, lo è di certo, ma è anche molto di più! Egli noto tra i vari regni con il nome di Libertà.

A questo punto il Re era sempre più curioso e aveva sempre più voglia di trattenere quell’insolito ometto con sé, presso la sua corte. Ma era ancora un po’ timoroso, quindi si grattò la solita barba folta e grigia e disse:

- Libertà?? Volete dire che è…un licenzioso? Che si prende delle libertà che non dovrebbe?

- Certo che no, Sire. Lo chiamano così perché quando lo si lascia fare, si ha l’occasione di imparare qualcosa su che cos’è la libertà.

Il Re scoppiò allora in una grande risata. Tutto d’un botto gli venne da ridere così tanto ma così tanto che a momenti si strozzava, così cominciò a tossire, tossire e ancora tossire senza riuscire a prendere fiato. La Regina e l’intera corte lo guardavano preoccupati, ma nessuno fece nulla perché tutti sapevano che in quei casi era meglio star lontani, il Re poteva passare dal riso alla collera in un battibaleno. Quando finalmente si riprese, il Re per fortuna era ancora di buon umore e spiegò al cavaliere, tra un risolino e un colpo di tosse:

- Perdonate buon uomo il mio accesso di risate; ma è davvero così buffo pensare che un omuncolo così possa insegnare la libertà ad un Re, che è il più libero di tutti. Ma sia, ci voglio credere. Perché allora non lo lasciate qualche tempo con me, così che possa insegnarmi questa cosa per benino? Così avrete anche ripagato il Vostro debito.

Il cavaliere verde, appoggiò la mano sopra la spalla del suo piccolo compagno, che ancora non aveva aperto bocca, e disse:

- Libertà è un uomo libero e deve decidere da sé. Se lui acconsente, già vi posso dire che potrà fermarsi solo una notte in più, perché tra pochi giorni deve presentarsi alla corte dell’Imperatore, che certo non tollera ritardi.

Il Re certo non poteva farsi sfuggire l’occasione di vedere per primo uno spettacolo che sarebbe stato presentato addirittura all’imperatore, di lì a pochi giorni!

- Va bene, va bene. E sia! Se lo vorrà, si fermerà da me anche domani notte, poi al mattino potrà riprendere la strada per la corte imperiale - e così dicendo guardò il giullare per avere una conferma. Il giullare fece cenno di sì con la testa, continuando a guardare il Re fisso fisso negli occhi.

- E ora, tutti a dormire! - disse il Re distogliendo lo sguardo, un po’ a disagio - Ovviamente, se il nobile cavaliere volesse fermarsi anche domani , sarà anche lui un gradito ospite.

In effetti, se prima aveva sperato che il cavaliere se ne andasse in modo da poter costringere il giullare a farlo ridere notte e dì, ora gli era entrato un vago senso di inquietudine all’idea di trascorrere da solo l’intera giornata con lo strano personaggio.

- Grazie, Sire, ma domani ho delle commissioni da fare e partirò prima dell’alba. Libertà mi raggiungerà sulla strada il giorno seguente, è un tipetto dalle gambe corte ma svelte. Comunque non preoccupatevi, anche se a volte parla poco, sono sicuro che il mio amico vi farà divertire molto e, se sarete capace di lasciarlo fare, riceverete anche un dono prezioso.

E così avvenne che il cavaliere ripartì in fretta che faceva ancora buio e il giullare, prima ancora che il Re si alzasse, aveva già fatto ridere tutti i servi della cucina, le cuoche, i fornai, le sarte, i maniscalchi, le nonne, i bambini. Tutti insomma, compresa la Regina che ormai si asciugava le lacrime tenendosi la pancia, tranne il Re che era ancora a letto e che fu proprio svegliato dalla allegra insolita confusione.

Chissà che succede al piano di sotto diceva tra sé, poi si ricordò della sera precedente e dei suoi strani ospiti, così scelse il mantello più elegante che aveva e si preparò per scendere. Un paggio era pronto come al solito a servirlo, ma gli si vedeva in faccia che moriva dalla voglia di non essere lì, ma a ridere a crepapelle con tutti gli altri intorno al giullare.

- Vai vai - gli disse il Re - oggi mi arrangio da solo.

Quello non se lo fece ripetere due volte e sparì giù per le scale. Rimasto il solo, al Re venne un’idea: non era forse quella un’ottima occasione per far impressione sul giullare, che quindi avrebbe raccontato alla corte dell’Imperatore di quanto buon gusto e ricchezza aveva il Re che generosamente lo aveva ospitato? Si vestì quindi di tutto punto con una casacca della lana più morbida e costosa sopra la quale indossò una tunica di seta azzurra e rossa orlata d’oro, un bel corpetto di robusto cuoio nero che lo faceva sembrare giovane e forte, un cinturone con una enorme fibbia d’oro in cui infilò due pugnali (in realtà avrebbe preferito la spada, ma non voleva sembrare esagerato), due grossi bracciali d’argento sul braccio sinistro e sul polso destro la protezione di cuoio che usava per la caccia al falcone. Si rimise quindi sulle spalle il mantello di pelliccia che già aveva scelto prima, si guardò soddisfatto nello specchio d’argento e cominciò a scendere trionfalmente le scale, stampandosi un enorme sorriso benevolo sul volto. Al secondo gradino, si ricordò però che aveva dimenticato la corona e in tutta fretta tornò in camera a prenderla. Fortuna che lo scalone era abbastanza ampio, altrimenti con tutta quella bardatura probabilmente si sarebbe incastrato e ora sarebbe ancora lì. Sia come sia, il Re riuscì a sistemarsi la corona sul capo, con cura, badando a far uscire qua e là qualche ribelle ricciolo grigio molto regale, per poi presentarsi finalmente al piano di sotto.

Come appariva insolito ora il solito salone del solito castello, con tutti che sorridevano e chiedevano al giullare un canto in più, un racconto in più! Il Re dapprima si rallegrò molto perché la noia sembrava magicamente sparita dal suo castello, poi però cominciò a sentirsi irritato perché nessuno badava a lui. Tossicchiò un paio di volte. Che diamine, era lui il Re!

Il giullare fu il primo ad accorgersi del nuovo arrivato e con un gran balzo si portò davanti al Re, salutandolo con un profondo inchino.

- Buongiorno, Sire - gli disse con una voce che sembrava l’incrocio tra quella di un angelo e quella di un tacchino.

- Buongiorno, buongiorno, allora la voce ce l'hai, eh? E che voce...ehm...celestiale! - disse il Re nascondendo un risolino perché intanto il malumore gli era passato. - Dunque, cosa ci farai vedere di bello oggi?

- Quello che mi chiederete Voi, Sire, per tutto il giorno. Fino a stanotte, quando invece sarò io a proporre un numero, scelto apposta per la vostra regale persona. Sono certo che Libertà non vi deluderà.

E così andò. Per tutto il giorno l’instancabile giullare saltò, ballò, cantò e recitò in così tanti modi diversi, con così tante voci diverse che l’intero castello sembrò invaso da una allegra brigata di ometti argentati, invece che da un solo ometto vestito d’argento e alto una spanna o poco più. Il Re e la sua corte non si erano mai divertiti così tanto, e addirittura fu necessario richiamare i cuochi e le serve a preparare il desinare perché se ne erano completamente dimenticati. Anche le nonne, per la prima volta dopo tanti anni, quel giorno si erano dimenticate di fare il loro riposino pomeridiano. Alla fine però, il più contento di tutti era proprio il Re che, soddisfattissimo della proposta che aveva fatto il cavaliere, già pregustava lo spettacolo finale fatto su misura per lui.

Al calar della sera tutti erano ormai così stanchi di ridere, cantare e ballare che ad uno ad uno cominciarono a ritirarsi nelle proprie stanze. Alla fine anche la Regina salutò il Re e il Giullare scusandosi che proprio non riusciva a reggersi in piedi e con fatica si trascinò alle camere reali, sbadigliando in continuazione.

Anche il Re, a dire il vero, si sentiva molto stanco; gli occhi gli si chiudevano e la testa cominciava a ciondolare ma di certo non voleva rinunciare al gran finale. Fece quindi un gesto al giullare, per invitarlo a cominciare.

L’ometto vestito d’argento intonò allora una melodia che fino ad allora non aveva ancora cantato e che al Re ricordava molto la ninna nanna con cui lo cullava la sua balia…così a poco a poco il Re scivolò nel sonno mentre il giullare continuava a cantare e danzargli intorno, senza fermarsi. Il silenzio regnava nel castello, interrotto di quando in quando dal gran russare di un servo o della Regina. Ad un tratto, forse tirandola fuori da qualche tasca nascosta del suo sfavillante vestito, Libertà fece apparire una catenella d’argento, lunga e sottilissima. Silenzioso come un gatto dei boschi fece passare la catenella attraverso i bracciali del Re, le maniche delle vesti, il cinturone, le asole del mantello, avanti e indietro e intorno al trono. Non tralasciò nemmeno la corona, ma i suoi movimenti erano talmente delicati che il Re non solo non si svegliò, ma di tanto in tanto mandava un risolino come se fosse solleticato da un bel sogno. Alla fine, Libertà avvicinò le due estremità della catenella e quelle si unirono saldamente l’una all’altra, come se non fossero mai state separate.

Al mattino successivo, la Regina si alzò prima di tutti. Non aveva avuto cuore di svegliare la sua damigella che dormiva profondamente con un gran sorriso sulle labbra, ma avendo una gran sete decise di andare a prendersi da sola del succo di mela dalle cucine. Passando per il salone, vide il marito che stava ancora dormendo della grossa stravaccato sulla suo regale trono imbottito, succhiandosi il pollicione con gran soddisfazione. Lo guardò con tenerezza e solo ad una seconda occhiata si accorse della catenella d’argento che legava, non strettamente ma di sicuro tenacemente, il suo ingombrante marito ancora tutto agghindato con le vesti e i gioielli di cui si era bardato il giorno prima. Cominciando ad intuire che si trattava di uno “scherzetto” fatto dal giullare si guardò intorno ma, come si aspettava, di lui non c’era più alcuna traccia. Per un breve momento pensò che l’ometto aveva giocato al Re un tiro proprio cattivo, approfittando della stanchezza, ma poi si ricordò di quanto Libertà si era dimostrato amabile, intelligente, sottile e senza mai allontanarsi dal buon gusto. Ripensò quindi alle parole del cavaliere, che per ben due volte aveva parlato di lasciarlo fare, e si tranquillizzò. Anzi, si può dire che le venne pure da ridere per come suo marito si era lasciato abbindolare a causa del suo punto debole, la ricchezza.

- Ti han incastrato bene, è l’ora delle catene… - le venne spontaneo canticchiare, ma senza cattiveria perché ben sapeva che ci sarebbe caduta pure lei.

- Cosa, cosa, moglie mia? - brontolò il Re, cominciando ad aprire mezzo occhio - sapessi che strano sogno ho fatto...però come ho dormito bene!

- Dormi ancora un po', marito mio, che quando sarai ben sveglio avremo un problemino da risolvere, io e te!

- Eh? Cosa, cosa, moglie mia? Di cosa parli? - e così dicendo provò ad allungare una gamba per stiracchiarsi, ma non ci riuscì.

- Aiuto, aiuto! Aiutami ad uscire di qui, cosa mai mi è successo? - ma più si agitava, più le catene si stringevano. - Ah che brutto scherzo mi ha giocato quel farabutto! Chiama un servo che mi tolga le catene!

La Regina, che ormai cominciava ad intuire qualcosa, si prese una seggiola e si sedette davanti al Re.

- Calmati ora - gli disse - Ho idea che neanche il fabbro riuscirebbe a tagliare questa catenella pur così sottile; ascolta, è molto meglio se cerchiamo di capire cosa Libertà volesse insegnarci con questo trucchetto.

Ci volle un po’ ma alla fine il Re si calmò un po’ mentre tra sé e sé continuava a ripetersi le frasi che gli aveva detto il Cavaliere Verde due giorni prima: “… se sarete capace di lasciarlo fare, riceverete anche un dono prezioso.” Ma quale dono prezioso, lui era lì imprigionato e di libertà ne aveva veramente gran poca. E anche poca voglia di scherzare. Mica come sua moglie che continuava a prenderlo in giro affettuosamente.

Alla fine fu proprio la Regina, guardando il marito intrappolato tra vesti d’oro e sempre più arrabbiato, che capì cosa dovesse fare per liberarsi. Capì anche con chiarezza che non sarebbe stato facile convincere il marito.

- Guarda bene - provò a dirgli - il giullare non ti ha legato né le mani, né i piedi, né il collo, e nemmeno la vita.

- Ah no? E cosa avrebbe legato allora? Io non riesco a muovermi.

- I vestiti, caro, i vestiti. Libertà ha legato al tuo trono tutti i tuoi vestiti, i tuoi gioielli, la tua corona. Tutte quelle cose insomma che ci sembrano così tanto importanti che alla fine ne diventiamo schiavi.

- Stai scherzando? Vuoi dire che per essere libero dovrei essere…nudo? O in mutande, visto che quel disgraziato forse ha avuto la decenza di lasciarle libere? Ma sei pazza? Cosa mai diranno di me i servi, le cuoche, i fornai, le sarte, i maniscalchi, le nonne, i bambini? E gli altri re? E l'imperatore?

Così lamentandosi il Re si raggomitolava sempre di più tra le sue sontuose vesti, chiedendosi quando mai avrebbe trovato il coraggio di tirarsi fuori di là.

Non so bene come poi andarono a finire le cose, ma ho il presentimento che se un bel giorno vi trovaste a passare dalle parti di un certo solito castello che si erge cupo e possente a dominare la solita foresta eccetera eccetera, probabilmente sbirciando da una finestra trovereste il Re ancora là, incatenato al suo bel trono da una catenella che in realtà non lo lega affatto; gli fa compagnia la Regina che, senza alzare gli occhi dal suo solito ricamo, ogni tanto gli ricanta la solita canzoncina…

- Ti han incastrato bene, è l’ora delle catene!

 
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I Sacerdoti della Grande Noce

Post n°23 pubblicato il 29 Gennaio 2012 da duetalleri
Foto di duetalleri

 

Al tempo in cui ero ragazzina vivevo in un paese dove c'era abbondanza di tutto: grasse spighe imbiondivano in tre raccolti estivi, nei frutteti i rami si piegavano sotto il peso di esuberanti frutti multicolori e persino i fossati erano ricoperti di distese di more mature e lamponi profumati. I granai rimanevano ricolmi di messi fino a primavera inoltrata e solo i più anziani ricordavano ancora lo spettro della fame che, alcuni decenni prima, aveva percorso in lungo e in largo quelle stesse strade. Un tempo, infatti, la Grande Carestia aveva messo a dura prova poveri e ricchi, ma la cittadinanza aveva saputo affrontare la crisi stringendosi con fede intorno al Tempio e ai suoi custodi e invocando a gran voce l'aiuto delle Sacre Noci che, come narrava il Mito, più volte nei tempi antichi avevano contribuito a salvare la popolazione dalla catastrofe della fame. L'aiuto in qualche modo era arrivato ed il crescente benessere era stato quindi universalmente considerato il segno della attuale benevolenza della Divinità, sentimento che tutti si premuravano di mantenere vivo attraverso il rispetto e i tributi dovuti ai Sacerdoti che la servivano.

Il Tempio della Grande Noce si trovava nella parte più alta del paese, all'ingresso del serpeggiante recinto di pietra che racchiudeva le migliori piante da frutto di tutta la nazione; nella parte più fresca e assolata si allargavano le chiome dei bianchi Noci Sacri alla cui ombra sedevano, nei caldi meriggi estivi, i Sacerdoti della Grande Noce assorti nella contemplazione della bellezza dell'universo e della maturazione dei sacri frutti. O almeno così pensavano gli abitanti del villaggio, cui non era permesso di entrare all'interno dell'alta muraglia che difendeva il giardino da ogni sguardo sacrilego. Agli uomini comuni non era nemmeno concesso di assaporare i fichi, le melagrane e gli altri frutti provenienti dal tempio, privilegio giustamente riservato ai sommi, né tantomeno rompere il tenace guscio delle Noci Sacre che in rare occasioni i Sacerdoti dispensavano con solenni celebrazioni. Perdere, rovinare o peggio distruggere una Noce era considerato un grave sacrilegio, un reato spirituale punibile con mesi di penitenze e preghiere. Quanto poi ad aprirne una per mangiarla, era cosa talmente impensabile che non era stata nemmeno prevista una punizione adeguata: non esisteva niente al riguardo nemmeno sul Sacro Libro della Legge della Noce.

Fu così che, quando mi presentai dai Sacerdoti con i vuoti frammenti del guscio della mia Noce, essi rimasero talmente attoniti che per lunghi minuti il silenzio fu totale. Ricordo come ora le minuscole gocce di sudore che presero ad imperlare la fronte di ciascuno di loro, mentre le pupille si dilatavano svelando lo stupore che lasciava posto all'accusa e al timore reverenziale a mano a mano che si faceva avanti la consapevolezza dell'entità del sacrilegio da me commesso.

La mia Noce mi era stata consegnata nel giorno dei festeggiamenti per il mio sedicesimo compleanno, data in cui tradizionalmente una ragazza veniva presentata al Tempio per la prima volta della sua vita "adulta". Con grande emozione avevo accolto nelle mie mani la mia noce e l'avevo subito avvolta in un fazzoletto di raso bianco da me ricamato. L'avevo quindi riposta nel taschino interno del mantello ed ero uscita raggiante dal Tempio, orgogliosa di questo dono.

Poi però erano passati i giorni e alla sera mi addormentavo sempre più tardi, perché guardando la mia Noce appoggiata sul comodino la testa mi si affollava di tanti, tanti pensieri. Mi chiedevo sempre più spesso a cosa servisse avere una noce sul comodino o nella tasca del mantello, ero ogni sera più perplessa a guardare quell'oggetto che ogni notte perdeva valore ai miei occhi. Ma che cos'era, in fondo? Un simbolo? Un portafortuna? Un oggetto magico? E perché pareva che nessuno si ponesse le mie stesse domande e anzi che ognuno custodisse gelosamente la sua noce difendendola anche a costo della vita?

Poco per volta un pensiero subdolo si era fatto strada dentro di me: se quello era un dono della Divinità andava accettato e onorato per quello che era, cioè...cibo. Nutrimento, fonte di sostentamento, leccornia, quello che volete...ma la sostanza era che andava mangiato!

Non dimenticherò mai il terrore e la disperazione delle urla di mia madre quando entrò nella stanza. Mio padre si trattenne a stento dal picchiarmi vedendo un pezzettino di gheriglio sull'angolo delle mie labbra; subito mi trascinò al tempio, piangente e confusa, con i frammenti della mia noce ancora in mano.

Cosa avevo fatto? Come avevo potuto? Ero sopraffatta da due pensieri opposti, in guerra tra di loro: avevo devastato la mia famiglia e, inspiegabilmente, quella che avevo mangiato era proprio una noce. Grande, bella e buonissima ma sempre e soltanto una noce.

Alla fine, il primo dei due pensieri ebbe il sopravvento e fu così che, quando i sacerdoti riunitisi in gran fretta deliberarono di darmi una seconda possibilità, accolsi con una immensa gratitudine e pentimento la seconda Sacra Noce che mi veniva affidata. Non mi pesarono neppure i ventiquattro mesi di penitenza che mi furono imposti per espiare, avrei fatto di tutto per togliere a mia madre quel velo di tristezza e di insicurezza che le offuscava il volto dal disgraziato giorno del mio sacrilegio. Grazie al mio comportamento irreprensibile, un po' alla volta la comunità mi riaccolse nel suo grembo non dico con affetto, ma almeno senza vergogna. Anche se qualche volta mi sentivo mancare il respiro, tutta la mia vita si svolgeva in una tranquilla routine e, visto che non stavo poi male, pensavo che tutto sarebbe continuato così, per sempre. Ma non sarebbe durato.

Accadde un giorno di primavera, uno di quelli in cui il sole si fa rivedere per la prima volta dopo un inverno che sembrava non volesse finire mai. Ero uscita dal paese per vedere se lungo i fossi fossero già spuntate le primule. Un vecchietto avvolto in una coperta logora mi venne incontro lungo il sentiero e mi chiese gentilmente se potevo dargli qualcosa da mangiare. La sua farina era ormai finita da tempo e anche le bacche che si potevano raccogliere nel bosco ormai non si trovavano più.

Mi guardai nelle tasche, ma non avevo nulla da potergli dare. Avrei potuto andare in paese e prendere qualcosina dalle scorte, ma era vietatissimo portare del cibo fuori dalle mura. Cosa potevo fare? Sconsolata, aprii le mani vuote e dissi al mendicante che non avevo nulla da offrirgli.

L'omino sembrò diventare ancora più piccolo e con un filo di voce chiese di nuovo:

-Non hai proprio nulla? Nemmeno una cosina piccola piccola?

La mia noce, pensai. Cioè, volevo dire: la mia Sacra Noce.

Ma come potevo commettere per la seconda volta il sacrilegio?

No, non se ne parla nemmeno.

Ma il vecchietto è stremato.

Sì, ma mica con una noce si salva.

Ma ha detto che basterebbe una cosa piccola piccola e poi questa mia noce è pure sacra, no?

Troppe voci nella testa fanno male, ma vedere quel poveraccio morirmi sotto gli occhi faceva male ancora di più. Per la seconda volta nella mia vita aprii una "Sacra Noce" e gliela diedi.

-Tenetela voi, signore.

Il vecchietto si sedette lentamente su un sasso e, in un tempo che mi sembrò lunghissimo, si mangiò con gusto e uno alla volta tutti pezzettini di noce che gli avevo dato.

-Ah, che meraviglia – disse alla fine, e sembrava stesse già meglio - non sai che regalo mi hai fatto. Ti sembrerà strano ma con questo riuscirò a sopravvivere ancora per un bel po'. L'ho riconosciuto, sai? Il gusto, dico. Non so cosa ti costerà, ma ti ringrazio immensamente per avermi dato una noce del Giardino.

Guardai meravigliata il vecchietto che si stava rimettendo a vista d'occhio e che anzi ora sembrava pure meno vecchio. Si era alzato e chiaramente stava per rimettersi in cammino, in direzione opposta al paese e al suo Tempio. Una strana calma si era impadronita di me, come se delle zavorre che nemmeno sapevo di avere fossero improvvisamente caduta a terra. Sentivo anche una inarrestabile e inspiegabile allegria salirmi dentro al cuore.

-Mi costerà l'esilio, ovviamente - dissi quasi ridendo e mi avviai anch'io con passo leggero, affiancandomi a lui - ma, dimmi, come facevi a sapere che si trattasse di una noce...di quelle? Mica le avrai assaggiate anche tu!

-Ma certo, mia cara! Non solo le ho assaggiate, ma ne abbiamo mangiato tutti in gran quantità! Altrimenti, come avremmo fatto a sopravvivere alla Grande Carestia?

E fu così che ce ne andammo per la nostra strada, coi piedi doloranti ma senza tanti rimpianti, attraversando mari e monti e tante, tante terre dove i fichi, le melagrane e anche le noci si potevano mangiare e non soltanto adorare.

 

 
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