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Messaggi del 10/09/2008

Continua+ Saviano

Post n°741 pubblicato il 10 Settembre 2008 da hesse8

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con
tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia
giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare
nella sua personalità, nella sua fermezza d'animo, nella sua stessa
fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra.
Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi
sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e
insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se
stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario
successo, da un'imprevedibile popolarità, dall'odio assoluto e
assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi,
dall'invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano
come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe
della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la
gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa
bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo
peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all'anno scorso ci ho mai
pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso,
guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di
pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi,
"usarmi". E' come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse
immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me
stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così,
non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli
occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di
aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella
mutazione lenta, quell'attenzione che mai era stata riservata alle
tragedie di quella terra, quell'energia sociale che - come
un'esplosione, come un sisma - ha imposto all'agenda dei media di
occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a
espormi, a stare in prima fila. E' la mia forma di resistenza, pensavo.
Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me.
Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello
che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi
accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi
guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto
che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più,
come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a
vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan,
Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la
violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma
qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un
lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia
malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto
raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le
storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e
pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù
sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono
stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli.
Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia
insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che
alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i
miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e
troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non
ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo
essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E' una
colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?".

Piacciono poco, da noi, i martiri.
Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi,
diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto
antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua
faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a
pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia
di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una
personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna.
Capita anche in queste ore, qui e lì. E' poca, inutile cosa però
chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile
o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più?
O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare,
prima di Natale, con il tritolo lungo l'autostrada Napoli-Roma o se gli
assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l'esplosivo e
i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie
delle polizie sia certa o soltanto probabile.
E' poca e inutile cosa,
dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno
Roberto Saviano. Dovesse essere l'ultimo sangue che versano. Sono
ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e
devono dimostrare l'inesorabilità del loro dominio. Devono poter
provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che
nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla
sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.





Lo sento addosso come un cattivo odore l'odio che mi circonda. Non è
necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga
sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno
da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello
che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l'onore
delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai
giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che
mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un
ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell'infame ci ha messo sulla
bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura
dell'esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per
soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell'infame ha
scritto il libro. E quest'argomento mette insieme la parte sana e
quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi
dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo
avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti
odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito
da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di
aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi,
l'intera comunità può liberarsi della malattia che l'affligge, può
continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che
tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate
dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell'inciviltà e
dell'impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi
rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno
scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo,
hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono
sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E
allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il
mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni
dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende
sarà per loro una sconfitta. E' il peso delle parole che ha messo in
movimento le coscienze, la pubblica opinione, l'informazione. Negli
anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono
cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei
giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il
governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra
dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Non pensavo che potessimo
giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro -
potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo
rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo
assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia
vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di
essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale
diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là
della mia voglia. L'ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due
anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York.
Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono
restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se
avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli
custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro
equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una
nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui
provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo -
lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il
coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un
figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho
il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via
dopo quest'ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi
hanno solo detto: "Robe', tranquillo, ché non ci faremo fottere da
quelli là"".





A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla?
Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà
il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue
parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia
italiana.


La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in
un'area d'indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale
differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra
allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare
quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti
essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il
diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente
tutti.

 
 
 
 
 

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