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Cliccando http://www.box404.net/nick/index.php?b  si procede ad una originalissima elaborazione del nickname ANCESTRALE di una url. "La Voce di Megaride" ha ottenuto una certificazione ancestrale  a dir poco sconcertante poichè perfettamente in linea con lo spirito della Sirena fondatrice di Napoli che, oggidì, non è più nostalgicamente avvezza alle melodie di un canto ma alla rivendicazione urlata della propria Dignità. "Furious Beauty", Bellezza Furiosa, è il senso animico de La Voce di Megaride, prorompente femminilità di una bellissima entità marina, non umana ma umanizzante, fiera e appassionata come quella divinità delle nostre origini, del nostro mondo sùdico  elementale; il nostro Deva progenitore, figlio della Verità e delle mille benedizioni del Cielo, che noi napoletani abbiamo offeso.
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I miracoli che fa la Musica

Post n°485 pubblicato il 23 Ottobre 2007 da vocedimegaride
 

presentazione dell'Album "Francesco Malapena"
(di Marina Salvadore)

Tutto comiciò così, per una strana fatalità, una coincidenza dovuta a quell’aura magica, potente come una calamita, che impregna il corpo eterico di ogni meridionale deambulante, emigrante, sul pianeta. Ma, consentitemi, prima, di spiegare il fenomeno…
I meridionali, figli della diaspora post-risorgimentale ma nati nella culla della Civiltà, hanno vispo e attivo il terzo occhio piazzato giusto in mezzo alla fronte, invisibile agli agnostici ma vivido e lucente agli “iniziati” all’arte regale della “pucundrìa”, la cui ghiandola pineale non è atrofizzata, com’è nella norma della popolazione italica del centronord. Gli emigranti del Mezzogiorno si procurano visioni senza uso di allucinogeni: è la memoria atavica dei colori, dei suoni, dei profumi, delle voci, dell’identità ancestrale che consente loro di rimanere costantemente, nei secoli, in una sorta di catena energetica che assorbe potere direttamente dalla quarta dimensione; quella dei santi e martiri, quella della sperimentazione umana del dolore, della tristezza, del distacco, che gli ha guadagnato il paradiso dei puri spiriti. Osservate bene un emigrante… anche se non pratica lavoro duro, se è giovane e forte, sportivo e di “successo”, ha sempre una spalla – solitamente la destra – più bassa dell’altra. Su quella spalla siede lo spirito del suo nume tutelare, che quasi sempre è un angelo, un’anima disincarnata, un “deva”, un’entità, che molto…molto tempo fa…benedetto dalla nascita sotto la stella del sud, il karma personale indusse per ingiustizia politica e sociale, per la voracità dei conquistatori della sua patria, alla migrazione… come le rondini, le cicogne. A differenza di questi esseri alati, che ogni anno ritornano al nido, trovandolo ancora intatto, l’emigrante, seppure ha il DNA del piccione viaggiatore e sa rielaborare le coordinate di volo, per far ritorno al suo nido, non ha quasi mai la buona sorte di ritrovarlo intatto e pronto a riaccoglierlo…Tutto comiciò così… in quel pomeriggio bigio di inizio primavera, sulla panchina in un anonimo giardinetto pubblico di Milano, dov’ero solita portare a passeggio il mio “cane di mare”, Billy, un meticcio raccolto in fin di vita sulla spiaggia di Capo Miseno, nei magici Campi Flegrei che contornano la MIA Napoli di mare, vitigni e altari e vestigia greche e romane. Un “cane di mare” ha una sensibilità diversa da qualsiasi altro cane randagio di città. E’ a più stretto contatto con le divinità marine e con la poesia e la bellezza di un orizzonte lontano dove sfilano in processione le navi dei marinai, le astronavi degli alieni che disattento, scambi quasi per Sirio o Venere o Marte, e le umili barche dei pescatori… che i cani di mare aspettano, fedeli e pazienti, al rientro dalla pesca…a volte, attendono per anni… chi non ritornerà più, inghiottito dalle maree… o rapito da seducenti sirene innamorate, ma il cui spirito riescono ad annusare, a percepire, ancora, sulle onde della risacca…e… aspettano… aspettano, incanutendo e svilendo, come i vecchi genitori dei giovani emigranti. Orbene, il mio miracolato cane di mare, tra un bisognino ed una corsetta, prese a puntare una panchina in fondo al vialetto, addossata alla staccionata del muraglione delle Ferrovie Nord milanesi. Lo seguii. L’imbrunire non permetteva di distinguere granché ma la pallina gialla di Billy riuscii ad intravederla in un cespuglietto cresciuto spontaneamente a destra della panchina, poco frequentata perché troppo isolata. Billy, stranamente, non si lanciò a raccattare l’adorata pallina ma saltò sulla panchina, in piedi su un sacchetto del supermercato di zona, rigonfio di qualcosa.Vi zampettava sopra e capii che il contenuto non era organico, come temevo, o rifiuto “tossico” di qualcuno ch’è solitamente più triste di un emigrante… Era una risma di carta dattiloscritta e di spartiti musicali ed in album un trentatre’ giri, come non vedevo più da tanto tanto tempo, forse erano documenti dimenticati da qualcuno…Alla luce di un accendino vi lessi il frontespizio: “Napoli, Francesco Malapena e Roberto Bonaventura“ e, scritto con un pennarello a punta grossa, rosso, seguito da tre punti esclamativi, il conio “crossbooking” ovvero - per gli amanti delle mode spontanee new age - il generoso lascito di un testo all’anonimo avventore che vorrà leggerlo magari in cambio di un altro libro da panchina: praticamente, un marketing dei sentimenti, con l’allure del mistero, un po’ come avviene, di recente, per i lucchetti dell’amore eterno sul ponte Milvio, a Roma. Eliminato lo scudo protettivo del sacchetto indegno del supermercato, con una sorta di sacralità, avvertita come un prodigio per via di uno strano pizzicore al palmo della mano sinistra, quella del cuore, riparai nella mia borsa quei fogli scritti ed inoltratimi dalla quarta dimensione in un giardinetto grigio e spoglio di Milano. Lessi tutto d’un fiato, accucciata nel letto, quei pensieri, quelle invocazioni, quelle evocazioni che parevano essere sgorgate dalla mia anima…Sul piatto del mio vecchio giradischi posi il disco..  Sì, quella musica, quella voce, quelle parole avrei voluto saperle esprimere io, che pure mi diletto di belle lettere e di pucundrìa. Erano pagine di poesia e bellezza che la troppo mia lunga “napolitudine” lombarda, aveva finito col pietrificare nel cuore ormai ammalato della certezza del non-ritorno al mio nido; un cuore, assurto ormai a sola funzione di pompa idraulica, incapace di grondare ancora stille di pucundrìa, come un tempo: il tempo…circa un decennio…di quando continuavo, incosciente, a ritenere transitoria la mia condizione di emigrante e… sempre più vicina e vittoriosa l’ipotesi di un ritorno al nido…Ora, però, quasi un trentennio di folle “transitorietà”, assurda,, stolta, mi premeva sul petto!. Leggevo e ascoltavo l’album di Malapena e Bonaventura, persino qualche piccola nota sugli spartiti e già a canticchiare a bocca chiusa canzoni subito interiorizzate…  ma leggevo e cantavo me stessa… ed il “callo sul cuore” si sciolse in un niente di chiffon, un niente piumato di due manine del mio Deva emigrante che, accarezzandomi ripetutamente il cuore e la memoria, procurandomi spontanee visioni della magica Napoli, della testa imbiancata di mia madre, vecchia e sola in una casetta napoletana, del mio mercatino di Antignano… la mia “via delle spezie”…della felice libertà di Billy in corsa sul bagnasciuga della spiaggia di Capo Miseno, in compagnia dei suoi tanti amici “cani di mare”…del profumo fragrante del pane cotto nel forno a legna di don Ciro… che sapeva di aghi di pino marittimo…dei giardini di palme e oleandri, sconosciuti, impossibili, nella Milano dei platani devitalizzati dallo smog…Una tempesta in un bicchiere: quel mio bicchiere, sempre per  metà vuoto da quando ero solita abbeverarmi alla fonte dell’oblìo di me stessa, perché il frizzante desiderio del ritorno a casa, genuino e corposo come un Aglianico del Vulture, dopo un lunghissimo esilio, si era, nel tempo, da speranza mutato in rassegnazione, in apatia, in depressione...Vino corposo sfiatato in acqua colorata, senza neppure un impercettibile sentore di aceto. Ho divorato quelle poesie e quelle note, ancora e ancora; gabbiani e rondini dal becco lungo suggevano, instancabili  dal mio terzo occhio d’emigrante ormai serrato e cieco, una cataratta purulenta e spessa come una tenda di plastica al balcone di una villa affacciata sul Paradiso…Nel cuore della notte mi levai dal letto. Raccattai, lì accatastate da tempo, nel baule del mio corredo da sposa che giaceva come un feretro in un pantheon obsoleto, i circa miei trent’anni di migrante di lusso: una pigna di carte ingiallite scritte competentemente sulla Questione Meridionale; le pagine più ingiallite, incartapecorite, erano le prime, scritte tanto tempo prima e trasudavano pucundrìa, nostalgia, poesia…a tratti, quasi lirica bellezza. A seguire – proprio come mi avevano evocato quella voce e quella musica, descrivendo le malinconie del distacco, tracciando mirabilmente il ritratto dell’emigrante a medio e a lungo termine – nei miei scritti, notavo, scemavano la poesia insieme al desiderio ed alla rivendicazione, alla bellezza e al sogno, tracimando – rileggendole spietatamente – nella quieta indifferenza a se stessi, al mondo circostante, ai sogni stessi…per finire, sfinite, alle pagine bianche, ancora fresche di stampante laser e ridondanti di retorica, politica, sterile dietrologia, statistiche… come scritte da un’altra persona, un individuo ormai lobotomizzato per la inutile lunga attesa del ritorno, per le illusioni e delusioni, per il dolore che continuava a scavare le radici dell’essere… per concludersi, come nella più banale sindrome di Stoccolma nella paura insensata per l’eventuale, possibile, ritorno in patria: la paura di non farcela a subire quell’impatto con la realtà che, probabilmente, sarebbe molto dissimile dal sogno agognato di circa trent’anni di forzata “transitorietà”, con la certezza d’essere incapaci a tollerare il trauma della verifica di un inevitabile cambiamento di quella Napoli che ti porti incollato addosso come una santa reliquia, un macigno sul cuore. Una maledizione! Portai, come un ex voto si porta all’altare, la mia pigna di cimeli, il mio trentennale diario di esilio, chiuso in un sacchetto del supermercato, con su appiccicato un cartello plastificato scritto in stampatello col pennarello rosso a punta grossa: “A Malapena e Bonaventura”, perché possano tornare a casa e trascinarsi appresso tutta la gioventù del Sud, prima che sia troppo tardi…prima che sfiorisca come me questa ennesima gioventù svenduta altrove”. Lasciai, affidato al destino e ad una impossibile speranza, sulla panchina addossata alla staccionata sotto il muraglione delle Ferrovie Nord, quel fagotto, in spirito di rinnovato crossbooking…Alla sera successiva, la pallina gialla del mio “cane di mare” finì nel solito, lontano cespuglietto a destra di quella affatata panchina. Il cuore mi batteva in gola, mentre mi avvicinavo, speranzosa di non trovare più ne’ il mio “fagotto” ne’ altro, neppure un giornale o la carta stropicciata di un pacchetto di sigarette…Di nuovo imbruniva e non si vedeva altro che il luccichio liquido dei bulloni di ferro della panca alla luce di un ultimo raggio di un sole nordico, vibrante, opalescente e grigio nell’umidità meneghina…Scorsi una chiazza chiara sul sedile della panchina…Accesi l’ennesima sigaretta per farmi coraggio e richiamai il cane perché andasse in avanscoperta…Billy era intento a giocare con degli sterpi, ai piedi di un albero spoglio impiccato al cielo plumbeo…Illuminai con l’accendino la chiazza bianca. Su di un foglio bianco, insanguinato di pennarello rosso a punta grossa, a caratteri cubitali spiccava un “Grazie! Desideravamo che tu ritornassi ad essere te stessa, come una volta: napoletana!. Ci sei anche tu, con la tua storia nel nostro album che sta viaggiando per il mondo intero.” Il foglio era simpaticamente firmato: “un po’ meno Malapena ed auguri di Bonaventura!” Ringraziai il mio angelo che percepivo seduto sulla mia spalla destra. Piansi un pianto liberatorio. Soprattutto, compresi quale fosse il "potere della Musica" e quel lasciarsi trascinare da essa, senza opporre resistenza... perchè due giorni dopo feci le valigie e tornai a CASA con il mio cane di mare. Qui, a Sud, attenderò il ritorno di tutti voialtri figli di Napoli!

immagini tratte dall'album "Francesco Malapena" che potrete sfogliare e ascoltare in parte su:
www.francescomalapena.com

 
 
 
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PREMIO MASANIELLO 2009
Napoletani Protagonisti 
a Marina Salvadore

Motivazione: “Pregate Dio di trovarvi dove si vince, perché chi si trova dove si perde è imputato di infinite cose di cui è inculpabilissimo”… La storia nascosta, ignorata, adulterata, passata sotto silenzio. Quella storia, narrata con competenza, efficienza, la trovate su “La Voce di Megaride” di Marina Salvadore… Marina Salvadore: una voce contro, contro i deboli di pensiero, i mistificatori, i defecatori. Una voce contro l’assenza di valori, la decomposizione, la dissoluzione, la sudditanza, il servilismo. Una voce a favore della Napoli che vale.”…

 

PREMIO INARS CIOCIARIA 2006

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A www.vocedimegaride.it è stato conferito il prestigioso riconoscimento INARS 2006:
a) per la Comunicazione in tema di meridionalismo, a Marina Salvadore;
b) per il documentario "Napoli Capitale" , a Mauro Caiano
immagine                                                   www.inarsciociaria.it 

 

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E' dedicato agli amici del nostro foglio meridionalista questo video, tratto da QUARK - RAI 1, condotto da Piero ed Alberto Angela, che documenta le origini della Nostra Città ed il nome del nostro blog.

 

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I consigli di bellezza
di Afrodite

RITENZIONE IDRICA? - Nella pentola più grande di cui disponete, riempita d'acqua fredda, ponete due grosse cipolle spaccate in quattro ed un bel tralcio d'edera. Ponete sul fuoco e lasciate bollire per 20 minuti. Lasciate intiepidire e riversate l'acqua in un catino capiente per procedere - a piacere - ad un maniluvio o ad un pediluvio per circa 10 minuti. Chi è ipotesa provveda alla sera, prima di coricarsi, al "bagno"; chi soffre di ipertensione potrà trovare ulteriore beneficio nel sottoporsi alla cura, al mattino. E' un rimedio davvero efficace!


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