Creato da anchise.enzo il 30/01/2012

Mondo contadino

Civiltà contadina molisana

 

 

Una "lolita" torese

Post n°32 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

 (racconto)
Il figlio del fornaio, nostro caro amico, continua a mandarci racconti desunti dalla tradizione popolare torese, che noi pubblichiamo volentieri. Questa volta, la protagonista è una giovane avviata al matrimonio, che tuttavia...

Si racconta che a Toro, prima dell’ultima guerra, vi era tanta miseria, ma anche tanta voglia di vivere e di divertirsi.

Due giovani, vicini di podere, furono indotti a sposarsi dalle rispettive famiglie affinchè potessero ereditare, dopo il matrimonio, i rispettivi terreni che ammontavano complessivamente a meno di tre tomoli. La donna pur non potendo esibire nessuna dote perché povera, volle che si festeggiasse comunque il loro matrimonio. Pochi parenti stretti assistettero al matrimonio, celebrato di sera, e un sobrio rinfresco con taralli e vino allietò i pochi invitati che, grazie ad un organetto, ballarono sull'aia, fino a tarda notte, la tarantella.

La loro casa era disadorna, vi era solo il letto, costituito da un semplice telaio e da un “pagliaricce”, un saccone riempito con “frusce de rendinje”. Comunque quel letto per la prima notte fu preparato con cura. Il pagliericce fu foderato con saccone, si misero due belle lenzuola finemente ricamate e fu, con orgoglio, mostrato ai parenti, che ammirarono una coperta fatta all’uncinetto dalla bella e prosperosa sposa.


Si lanciò riso e fiori sul letto e vi fu lasciata qualche banconota per buon' augurio. Un amico bontempone dello sposo infilò, come era consuetudine, qualche spilla e chiodo per fare lo scherzo agli sposi. C’era pure l’usanza di mettere sotto il cuscino un breviario o altri libri religiosi, al fine di scongiurare interventi malefici.

Or avvenne che quell’infido amico dello sposo, fece uno scherso davvero cinico e inopportuno. Invece di infilare sotto al cuscino un normale libro devozionale, vi infilò il libro nero dell’Ufficio dei morti. Confidente dello sposo, ne conosceva virtù e difetti. Di quest’ultimi gli era nota l’impotenza dell’amico, e fu così che volle rimarcarne l’incoffesabile difetto, affinchè la sposa, per la sua settimana, recitasse su quel letto il “requiem aeternam”.

La sposa novella, durante quella settimana, successiva alle nozze, non osava uscire di casa. Erano i cosiddetti giorni della zita. In quei giorni la sposa si dedicava solo al marito. Delusa per non doversi dedicare abbastanza al marito: d’altra parte che può fare una sposa e uno sposo, segregati una settimana in una casa munita solo di un letto?

Infranse la regola della settimana della sposa, abbandonando subito quell’inutile pagliericce per fuggire in un paese prossimo al suo, dove, per ironia della sorte, avrebbe trascorso non una sola settimana sul pagliericce, ma l’intera vita, intrattenendosi allegramente con quegli uomini, tanto diversi da suo marito.

 
 
 

La neviera, rudimentale "fabbrica" di ghiaccio

Post n°33 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

In questi giorni di caldo infernale, il Figlio del fornaio ci informa sulla neviera, ovvero su quella cisterna che si trova nei pressi del paese, ubicata in un terreno denominato appunto “Neviera”, tra il convento e il camposanto, cisterna dove si ammassava la neve in inverno per utlizzarla come ghiaccio in estate.





A Toro abbiamo una neviera che si trova nei pressi del paese, capace di contenere cinquemila cantari di neve. E’ ubicata in un terreno denominato appunto “Neviera” perché in questo posto esposto al nord e in altura, fresco ed umido, la neve veniva ammassata nella maniera migliore per conservarla anche per la stagione calda. In passato era proprietaria della neviera, di antico diritto baronale, la famiglia Trotta. Le abbondanti nevicate invernali, che davano gioia ai bambini, in quanto, nonostante il freddo, gustavano la neve con il mosto cotto, (sorta di granita con l’ingrediente base appena caduto dal cielo), davano la possibilità di immagazzinare la neve fresca, dopo averla indurita, in grossi pozzi murati muniti di più boccali, e uno particolare, alla neviera di Toro , è posto tangenzialmente al pozzo, con relativa gradinata per accedere direttamente nel pozzo. Essendo ubicata sulla cresta di un colle, tra il convento e il cimitero, è da supporre che non fosse alimentata da sorgenti, ma servisse solo come contenitore di neve, invece, la nostra neviera è alimentata da una ricca sorgente.






Infatti, quando fu costruito il cimitero, imposto a seguito dell’editto napoleonico, fu necessario delimitarlo di relativo muraglione perimetrale. La ditta costruttrice fu indotta ad affittare proprio la vicina neviera per l’ingente fabbisogno d’ acqua quotidiano necessaria ai muratori. Si conserva presso l’Archivio di Stato il relativo documento notarile della ditta appaltante. Si racconta che Il pozzo la sera si prosciugava e all’indomani mattina si riempiva di nuovo, per quanto poteva bastare per le necessità della ditta all’indomani.






Comunque, la neviera assolveva ad un suo specifico servizio, che era quello di conservare la neve per la stagione calda. Praticamente, la neve veniva compressa con le pale affinché si compattasse uniformemente e assumesse, con l'ausilio delle basse temperature notturne, le caratteristiche del ghiaccio. E affinchè si conservasse più a lungo si alternavano alla neve grossi strati di paglia. La neve, diventata ghiaccio e conservatasi tale fino alla buona stagione, veniva tagliata in pezzi e venduta in paese, dava così vita ad un vera e propria industria che dava lavoro a chi la gestiva e offriva refrigerio ai suoi nobili padroni con deliziosi sorbetti e granite.

Si racconta che un anno, avvenne una cosa eccezionale, di neve ne fece pochissima e ciò rischiava di fallire il gestore della neviera. Infatti, un’abbondante nevicata era considerata una benedizione per chi doveva commerciare col ghiaccio. Fu tale indesiderata circostanza ad indurre Zio Nicolino ad invocare la protezione divina sulla sua neviera, perché giunti addirittura a febbraio, non s'era ancora visto un fiocco di neve. Il nevieraio preoccupandosi che ai suoi figli durante l'estate sarebbero mancati i più indispensabili mezzi di vita, si recò presso il santuario della Madonna della Neve a Ripalimosani, sua protettrice, e battendosi in petto cominciò a implorare la grazia di abbondanti nevicate senza preoccuparsi, nella disperazione della sua richiesta, se vi fossero persone presenti. Supplicava continuamente: "Madonna mia, fai nevicare!” Ma un contadino del posto, che possedeva un grande frutteto già pieno di infiorescenze, temendo che un eventuale gelo danneggiasse il prodotto del suo frutteto, uscì dalla chiesa e volgendosi al nevieraio lo apostrofò duramente: “E tu, cosa stai dicendo?”. E il nevieraio, in risposta: “E tu cosa vuoi da me? Non sai che danno subirei io con la mia famiglia se non nevicasse? Ai figli miei chi darebbe un tozzo di pane durante l'estate? Del resto, fammi pregare la Madonna mia e tu vai a pregarti il santo che è il patrono dei frutteti”. Ma il nevieraio, avendo anche la colpa di essere forestiero presso quel santuario, fu scacciato dallo stesso a pedate. Sarà stato per le sue fervide suppliche alla Madonna della Neve, o per la pietà di costei nell'averlo visto soccombente, e a pedate, presso il suo santuario , proprio all’indomani nevicò tanto su Toro che tutta quella neve venne subito utilizzata dal nevieraio per riempire la sua neviera e assicurarsi un buon guadagno per la futura stagione estiva.

 
 
 

San Pasquale, vilipeso e sfrattato

Post n°34 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

Negli anni Quaranta ci fu l’ennesima ristrutturazione del convento. Si rifece il tetto e la facciata fu caratterizzata con pietra bianca locale e un grande rosone.

Per riconsacrare la chiesa, era necessario ripulirla dalle incrostazioni e dalla polvere. Per questo si fece ricorso alle araldine che, nonostante la clausura, poterono accedere liberamente nei locali del convento.

Con lunghe scale si arrampicavano sui muri, spolverando minuziosamente i fregi, gli stemmi e i grandi angeli di gesso, posti alla sommità degli altari barocchi. A una a una ripulirono anche le nicchie dei santi, dopo aver rimosso e allineato le statue nel chiostro.

Il lavoro era ormai completato, s’era fatto buio. Restava solo da prelevare l’ultima statua, San Pasquale Baylon, e ricollocarla nella sua nicchia. Ma le ragazze erano sfinite.

Fu allora che venne in loro aiuto Fasciano, un uomo pratico e risoluto. Accortosi che San Pasquale era pieno di sporcizia, attinse un secchio d’acqua dal pozzo del chiostro, lo riversò con forza sulla statua, e in presenza delle pie ragazze esclamò a gran voce:
- "Te’, San Pasqua’, lavate pure tu i cugliune!?".

Le ragazze dapprima rimasero sconvolte per quella bestialità, ma poi scoppiarono in una fragorosa risata, ringraziando il buon uomo per l’aiuto dato loro.

Passò circa un decennio e un nuovo padre guardiano diede il via a nuovi lavori. Tra l’altro fu rifatto il pavimento in cemento, dopo la rimozione degli scheletri giacenti sotto il vecchio pavimento in cotto.

Questa volta San Pasquale ebbe minor fortuna. Forse perché la statua era veramente malridotta, forse perché la devozione per il santo scemava, una bella mattina il padre guardiano, se la caricò in spalla e la infilò nella sua Fiat 1100 familiare.

Pensava di aver fatto quella operazione da solo e in gran segreto, ma si sbagliava, perché una bizzoca aveva spiato le sue mosse. La malalingua insinuò il dubbio in paese che il padre guardiano fosse andato a vendersi la statua di San Pasquale a Campobasso.

Messo al corrente della pesante insinuazione, l’irascibile padre guardiano, che in città c’era andato sì, ma per depositare la statua al convento di San Giovanni dei Gelsi, dove erano già stati depositati a centinaia anche i vecchi libri della gloriosa biblioteca del convento di Toro, ebbe a dare sfogo a tutto il suo risentimento. Durante un’omelia, prima rassicurò i fedeli che la statua di San Pasquale non era stata venduta, ma aveva solo cambiato convento, poi si permise la degna conclusione:
- "Ma pu’ ‘ssa fémmene n’zi petéve fa’ i cazze su!?".

 
 
 

Il monachello irrequieto

Post n°35 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

La casa dei miei nonni materni era piccola, tanto piccola che nonno Francesco ideò un tavolo speciale. Era ancorato alla parete, tra la scalinata d’ingresso e il camino, e sganciandolo dalla parete, raccoglieva nei tre lati utili la numerosa famiglia.

Da piccolo ero irrequieto, una sera caddi da quel tavolo e precipitai nella scalinata sottostante, andando a sbattere la testa sul battente della porta. Una sedia provvidenziale, mi aveva evitato di finire tra le fiamme del camino, facendomi invece rotolare giù e finire sullo "spondapede". Dalla ferita all’arco sopracigliare (di cui conservo la cicatrice), usciva molto sangue.

Avevo scelto l’occasione meno propizia per farmi male. Quella sera si stava festeggiando il fidanzamento di zio Domenico. La fidanzata forestiera aveva fatto la cosidetta entrata ufficiale in casa dei futuri suoceri. Impauriti per la grande perdita di sangue, i fidanzati si precipitarono da don Nicolino. La nonna rimase immobile a pregare davanti al quadro votivo di santa Lucia, per scongiurare la perdita dell’occhio. Al ritorno dei fidanzati, il sollievo fu grande perché il mio occhio era salvo. E la festa pure.

Furono subito accesi i ceri a santa Lucia, ma alla nonna ciò non bastava. Si dovevano accendere le candele pure a sant’Antonio che mi aveva salvato dalle fiamme del camino. Sicchè i nonni, ancorati tra il rito religioso e quello superstizioso, mi posero sotto la particolare protezione dei due santi, in modo particolare di sant’Antonio che aveva il compito specifico di proteggere i bambini dal fuoco. Per meritare la sua protezione dovetti indossare l’abitino da monaco, con relativo cordone e scapolare per un anno intero.

 
 
 

LA VOGLIA DI CARNE

Post n°36 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

    

 
    Una volta, mio padre che frequentava le fiere per acquistare e vendere muli, asini, giovenche, riportò a casa una radio. L’aveva comprata a Campodipietra, in cambio di un asino. Ma per accenderla dovevamo aspettare la sera. A quei tempi (1959), solo pochi benestanti godevano della luce elettrica "di giorno". Per averla nelle proprie case, la gran parte della popolazione doveva aspettare che, al tramonto, l’addetto all’illuminazione pubblica azionasse l’interruttore della corrente elettrica "di notte". 

Fu così che una sera mentre la casa era allietata da canzoni napoletane, si sentirono lamenti e urla provenire dalla stalla sottostante. A mio padre, salito sul soppalco per prendere il foraggio per gli animali, era scivolata di mano la forca che, cadendo giù, ferì mortalmente un mulo. I forti lamenti del quadrupede si erano confusi con gli acuti del tenore, ma poi, quando seguirono le irripetibili imprecazioni di mio padre, capimmo che era accaduto qualcosa di grave.

La bestia fu subito finita e squartata; la carne venduta ai vicini, all’insaputa del veterinario (che magari lo seppe e chiuse gli occhi). A me ragazzo non sembrava vero di poter disporre di tanta buona carne, benché scura e un po’ fibrosa. Ma dopo averne mangiato tre volte al giorno, in capo a una settimana mi venne la nausea. E allora, con dubbio altruismo, donai carne di mulo a tutti i compagni di scuola

 

 

Negli anni Cinquanta non si viveva nell´agiatezza. La carne si assaggiava non più di una o due volte la settimana. Però a me toccò il privilegio di mangiarne tutti i giorni e più volte al giorno, per un mese intero.

 

 

 

 
 
 

IL MAIALE TEDESCO

Post n°37 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

 

Mio padre, che commerciava in animali domestici dei quali si nutriva e ci nutriva, ha sempre considerato quella del maiale, la carne più prelibata. Non a caso le salsicce e le soppressate sono il vanto del nostro paese.

Nel 1964 eravamo all’estero, a Wilflingen, un piccolo villaggio della Selva Nera bavarese, dove mio padre s’era ammalato di nostalgia per il paese natale. Soprattutto rimpiangeva la nostra cucina, in mezzo a gente che usava solo olio di semi e scambiava il nostro olio d’oliva per un olio motore troppo denso.

Quell’anno mio padre volle comprare un maiale da una contadina, vedova di guerra. Pattuito il prezzo, la donna s’informò di cosa ne avremmo fatto del suo maiale e come l’avremmo ucciso. Fece succedere il finimondo e non volle più venderci il suo maiale quando sentì mio padre, che si vantava di ammazzarlo con una, due, o al massimo tre coltellate al collo, per recuperare il sangue e farne un gustoso companatico da spalmare sul pane con le mandorle.
"Nein, Nein!!!", urlò la donna. "Il mio maiale non farà mai una fine così violenta con voi italiani".

Mio padre ci rimase male. Solo dopo qualche giorno capì che l’animale andava ucciso in modo incruento, lontano dagli sguardi dei piccoli, usando una pistola speciale che non l’avrebbe fatto soffrire. Ma in quel paese di vedove di guerra, si chiedeva indignato e sarcastico, i defunti mariti quanti cristiani avevano ammazzati, e in quanti e quali modi efferati, prima di essere a loro volta ammazzati?

Sia come sia, comprammo altrove il maiale e usammo la pistola avuta in prestito, dopo aver allontanato i bambini. Non riuscimmo, invece, ad allontanare i giornalisti che vennero a fotografare le lunghe salsicce appese alle pertiche a casa nostra. Qualcuno ci mostrò il giornale con le foto e la didascalia che recitava: "Casa di emigrati italiani a Wilflingen, con serpenti appesi alle mazze, sulle volte della soffitta".

Dovemmo subire tale affronto, perché i tedeschi in Baviera col maiale ci facevano solo dell’insipida gelatina.

 

 
 
 

GRAZIE MAESTRO

Post n°38 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

 

Al mattino presto, il netturbino riforniva di legna la scuola, sistemandola vicino alla stufa di creta. Il maestro, poi, minuziosamente ne sceglieva un pezzo, possibilmente lineare e senza molti nodi, e lo faceva roteare tra le mani. Era un rito quasi sacro per lui, che da giovane era stato tenente d’artiglieria e aveva conservato intatta negli anni la passione per la rigida disciplina militare.  

Noi alunni non avevamo scelta. Eravamo costretti a spremere le meningi e ricordare il nome di tutti e sette i re di Roma e della capitale della Romania, se non volevamo assaggiare quel legno sulle nostre mani. Almeno in altre classi si usava la bacchetta, che era di dimensioni più modeste e umanamente tollerabili, ma quel ciocco dalla dura corteccia incuteva terrore come vero e proprio strumento di tortura.

Chi era sorpreso impreparato, già sapeva che la dose minima dei colpi che gli sarebbero stati inferti sulla mano era di dieci legnate. Poi si continuava, fintanto che il malcapitato non si decideva a ringraziare il nostro marziale educatore.

Il limite massimo fu di 60 colpi. Tanti ne subì Vittorio, che per il suo cocciuto carattere perdurò nello stoico silenzio. E fu il maestro ad arrendersi e a desistere quando gli vide la mano sanguinare.

Vittorio non gli volle dire grazie né in quella circostanza né mai. Noi altri, invece, continuammo a farlo fino agli esami di quinta, quando salutando il maestro finalmente dicemmo addio al terrore e alle bacchettate.

 

 
 
 

Quando San Giuseppe corteggiò la Madonna

Post n°39 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

Rubicondo e con i capelli ricci, come un Gesù bambino, fui invitato da zia Maria Nicola al convito di san Giuseppe, imbandito il 1° maggio, nella festa del Patrocinio. In ossequio alla consuetudine, furono invitati anche un uomo e una donna, che insieme a me simboleggiavano la Sacra Famiglia. Ma mi trovavo a disagio al fianco di quel san Giuseppe, che aveva la la barba fluente del santo e il carattere inaffidabile di un incallito bestemmiatore. La Madonna, invece, mi piaceva molto perché era bella e chiedeva continuamente di me, cosa facessi e cosa volessi fare da grande.

Eravamo al centro della tavola e al centro dell’attenzione dei commensali, davanti al quadro votivo del santo, quando zia Maria Nicola dette inizio alle sue cantilenanti litanie, con gli invitati in coro che rispondevano orapronobisse.

Il pranzo offerto per i poveri iniziò con un piatto di fagioli, appena prelevati da enormi pignatte, che se ne stavano a sbuffare nuvole di vapore sotto il camino. Poi ci fu servita la verdura di stagione. Dopo gli spaghetti con le alici, divorammo una bella porzione di baccalà origanato, con una foglia di alloro e un bel pomodoro alla sommità. Quando fu posta l’enorme insalatiera con i maccheroni con la mollica al centro della tavola, notai che tanti allentavano la propria cintura ai fianchi, per assaggiare, per devozione, anche quel tipico piatto.

Anche il vino era buono e san Giuseppe ne beveva molto. Ne abusò tanto da non accorgersi di dare scandalo ai commensali. Iniziò sfacciatamente a fare la corte alla Madonna. Chi dovette subire, nell’imbarazzo più completo, quell’inopportuno e blasfemo corteggiamento fui io, posto innocentemente tra loro due, ad ascoltare parole irriguardose e oscene che nessuno mai si sognerebbe di indirizzare alla Vergine.

 

 
 
 

Quando il venerdì insidiava la festa di San Mercurio

Post n°40 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

Alla festività di San Mercurio si riferisce un detto memorabile colto sulla bocca dello scomparso padre Ireneo Serpone il 26 agosto del 1997: Sante Mercúrie a nnotte
sètte crastate cutte!
La notte di San Mercurio
(si banchetta con) sette castrati cotti. 
Beatissimo padre,
Io qui sottoscritto Arciprete Curato genuflesso innanzi al trono di V.a Santità umilmente domando quanto segue. Nel giorno 26 Agosto si festeggia in Toro la traslazione di S. Mercurio che il popolo ab immemorabili ha venerato come suo Protettore. La festa si celebra con solennità maggiore delle altre nel paese, perciò in tale ricorrenza affluisce in Toro gran numero di forestieri. Cadendo in questo anno la traslazione di S. Mercurio in giorno di venerdì, io genuflesso innanzi al trono di V.a Santità umilmente domando la grazia di dispensare questo popolo dall´astinenza dalla carne in detta solennità.
La ragione, che mi muove a domandare la dispensa, si è che la legge dell´astinenza dalla carne in detta solennità sarebbe da pochi osservata, perché riuscirebbe difficilissimo alle famiglie preparare il pranzo di magro, tanto più che qui manca il pesce. Per evitare gran numero di peccati, io domando la grazia dell´Indulto Apostolico. Genuflesso innanzi al trono di V.a Santità Le bacio il sacro Piede e Le domando la Benedizione Apostolica.
Umilissimo Devot.mo Figlio in Gesù Cristo
Valerio Arciprete Carlone

Per il tramite del Vicario Generale, l’Arcivescovo di Benevento Camillo Siciliano di Rende rispose con tempestività. E Il 28 luglio 1892 fece conoscere il suo pensiero in merito. Un pensiero tutt’altro che ispirato alla paterna sollecitudine, cui da sempre si appellano i pastori della chiesa.
In tutti i paesi d´Italia - argomentò il cardinale con una punta di malcelato sarcasmo – si abbonda di maccheroni e paste di ogni specie. Di uova, di pomidoro, peperoni, baccalà e non di rado anche di pesce fresco, buona frutta ed ottimo vino, per cui paesani e forestieri possono ben empire la pancia anche nei giorni di magro, e non pretendere che per puro capriccio vadano in fumo le leggi della Chiesa Cattolicissima di nuovo conio! Ciò posto, se vogliono permesso scrivano direttamente a Roma.

Si ignora se l’arciprete e i fedeli toresi abbiano seguito il consiglio cardinalizio e fatto ricorso direttamente al soglio pontificio per ottenere l’indulto apostolico. Forse si limitarono a mandare cordialmente al diavolo l’inflessibile aricivescovo. Forti come sempre del patrocinio di San Mercurio, grazie al quale il Patreterno avrebbe di certo chiuso un occhio sulla loro inosservata astinenza.
Nota bene.
La supplica dell’arciprete Carlone e il rifiuto arcivescovile sono stati rinvenuti e trascritti da Vincenzo Colledanchise, che ringrazio di cuore, per avermi permesso di pubblicarli.

A dimostrazione che la festività del Santo Patrono resta la festività per eccellenza. E va onorata anche, per non dire soprattutto, a tavola.

Ai giorni nostri non c’è problema e ognuno si sbizzarrisce come vuole. Ma nel passato le cose non erano così semplici. In primo luogo, bisognava fare i conti con le ristrettezze economiche. In secondo luogo, con i precetti di Santa Romana Chiesa, che erano inflessibili. Bastava che la festa del Patrono capitasse di venerdì e si creava lo scompiglio. E in quel caso, come onorare il santo con arrosti e braciole e non commettere peccato mortale? Già, come fare, se alla carne non c’erano alternative e chi voleva pesce, bisognava che se lo andasse a pescare a Termoli?

Si pose questo angoscioso problema il buon arciprete di Toro Valerio Carlone, campopetrese doc, che il 22 luglio 1892, si preoccupò di supplicare addirittura il papa, indirizzando la supplica alla preventiva approvazione dell’Arcivescovo di Benevento (allora Toro ricadeva sotto la sua giurisdizione), su carta intestata della Chiesa Arcipretale del SS. Salvatore in Toro, con tanto di timbro stampigliato.

 
 
 

l'apparizione

Post n°41 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

Un'apparizione

Come per incanto, affiorò dall’acqua una donna nuda

 

Il ragazzo guidò tutto il giorno i muli che si trascinavano dietro la traglia ricolma di foraggio su per l’irta salita della Costa, sotto un sole spietato. Al mattino, aveva aiutato il padre a sistemare con la forca il fieno ancora umido di rugiada in piccoli mucchi. Mentre il padre fissava a terra il lungo palo, intorno al quale avrebbero innalzato la meta, egli li accantonava, a mano a mano, a ridosso della piana. Sotto uno di quei cumuli, sorprese una serpe che infreddolita e lenta tentava di fuggire. La inforcò impietosamente. 

Poi, accostatosi al palo, attese che il padre con la forca cominciasse a porgergli il fieno, che lui adagiava sotto ai suoi piedi, pressandolo con forza. Via via che la meta cresceva, il padre sollevava balle di fieno sempre più piccole, con una forca di legno più lunga. Ormai il lavoro volgeva al termine e il ragazzo, non ancora dodicenne, avvertì lassù in alto la fierezza di aver contribuito alla costruzione di quella sua prima meta di fieno, che avrebbe sfamato le bestie per mesi.

Si sentì felice e rinvigorito dall’impresa, soprattutto quando il padre gli porse alcune canne con cui fissare alla sommità del cono lo strato di creta mista a cama (pula) che avrebbe impedito il passaggio della pioggia. La meta era finita, finita anche la grande fatica per poterla costruire, e finalmente il padre potè gettargli la fune per consentirgli di scendere pian piano, senza farsi male.

Come premio ottenne di poter scendere al Fiumarello e fare il bagno a ridosso della grande morgia. Mentre tentava di nuotare, vide dietro a un folto cespuglio il fiume incresparsi in piccole onde concentriche che lo avvertirono di un’ulteriore presenza: come per incanto, affiorò dall’acqua una donna nuda.

Forse a causa della sua innocenza, quella visione fu turbata da una grande e inesplicabile paura che lo spinse alla fuga. Quando giunse stravolto dal padre e costui gli chiese il motivo di tutta quell’agitazione, il ragazzo riferì di aver visto una sangiovannara completamente nuda al fiume. Il padre replicò: – Ma hai avuto paura di quella donna perché era una sangiovannara o perché era completamente nuda?

Non seppe rispondere.

 
 
 

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