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Giustizia: il "fine pena mai"... e il dettato costituzionale

Post n°60 pubblicato il 30 Gennaio 2008 da geko1963
 

 di Alessandro Margara (Presidente Fondazione Michelucci)

 

Fuoriluogo, 29 gennaio 2008

 

Abolizione dell’ergastolo, una questione rilanciata con forza dalle prigioni.L’abolizione dell’ergastolo è prevista dalla bozza di legge delega per il nuovo codice penale, elaborata dalla Commissione Pisapia ed anche da un disegno di legge di iniziativa dei senatori Boccia, Di Lello, Russo Spena ed altri. L’abolizione dell’ergastolo è stata anche oggetto di uno sciopero della fame, che ha coinvolto detenuti, e in particolare gli ergastolani, i loro familiari e molte altre persone, che si riconoscono in questa richiesta.

Il "fine pena mai" ha le ore contate? Realisticamente, con i tempi che corrono, pare difficile rispondere affermativamente. Il che non toglie che sembra opportuno rifletterci su: anche per cercare le ragioni di un interesse ridestatosi con tanta forza. Mi sembra logico ripercorrere soprattutto il discorso sulla costituzionalità dell’ergastolo.

Si deve tornare alla sentenza 264/1974 della Corte Costituzionale, che, posta dinanzi al quesito, risponde che "funzione (e fine) della pena non è certo il solo riadattamento dei delinquenti (…) Non vi è dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano, non meno della sperata emenda, alla radice della pena. E ciò basta per concludere che l’art. 27 della Costituzione, usando la formula "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", non ha proscritto la pena dell’ergastolo (come avrebbe potuto fare), quando essa sembri al legislatore ordinario, nell’esercizio del suo potere discrezionale, indispensabile strumento di intimidazione per individui insensibili a comminatorie meno gravi o mezzo per isolare a tempo indeterminato criminali che abbiano dimostrato la pericolosità e la efferatezza della loro indole".

Ho riportato la motivazione della sentenza, salva una precisazione sulla quale tornerò: la risposta al quesito di fondo posto dall’art. 27 della Costituzione è tutta qui e si può dubitare che sia esauriente.

Il primo dubbio è questo: si ritiene che la pena non abbia soltanto la finalità della rieducazione, ma anche le altre che la sentenza costituzionale cita. E allora? Se una delle finalità non è realizzabile con una certa pena, come la rieducazione con l’ergastolo, la violazione dell’art. 27 Cost. non viene certo meno perché sono realizzabili le altre finalità.

In effetti, ed è l’altro dubbio grave sugli argomenti della sentenza 264/74, la stessa sembra realizzare una petizione di principio: affermare che il legislatore ordinario deve disporre dello strumento dell’ergastolo come "indispensabile strumento di intimidazione" o un mezzo per isolare a tempo indeterminato un certo tipo di detenuti non è una risposta sul punto che questa pena configuri o meno violazione della Costituzione.

Non si riflette e non si risponde sul fatto che questa pena sia contraria al senso di umanità o non sia finalizzata alla rieducazione del condannato, come l’art. 27 richiede. Si poteva dire qualcosa, ma non è stato detto nulla. Una pena perpetua, che esclude dalla società per la durata della vita, è compatibile con il senso di umanità? E può dirsi finalizzata alla rieducazione del condannato quando a questi sarà negata una vita fuori dal carcere?

Soprattutto, si ancora la valutazione di una persona ad un fatto commesso in un certo tempo, alla pericolosità e alla efferatezza dimostrata con quel fatto commesso in quel tempo e non si suppone possibile che quella persona cambi dopo che uno spazio molto lungo della sua vita trascorre, e trascorre nella particolare condizione carceraria: questo è la negazione che un processo rieducativo si possa svolgere.

Ma la sentenza costituzionale (ecco la precisazione aggiunta dalla motivazione) afferma che la perpetuità dell’ergastolo è solo formale perché, in sostanza, il condannato, se se lo merita, può essere ammesso alla liberazione condizionale, sulla quale decide un giudice, con procedura giurisdizionale, per effetto della sentenza n. 204/1974, a cui la sentenza che stiamo commentando si riferisce esplicitamente. È un argomento efficace?

Intanto, bisognerebbe ricordare che, all’epoca della sentenza che affermava la costituzionalità dell’ergastolo, c’erano varie limitazioni alla ammissione alla liberazione condizionale per gli ergastolani (limitazioni delle quali la Corte ha affermato la incostituzionalità molti anni dopo: vedi le sentenze n. 161/97 e 418/98) e le limitazioni non sono state del tutto eliminate, anzi ne sono sopraggiunte di nuove con la legislazione di emergenza del ‘91 - ‘92, che ha introdotto l’art. 4-bis (contenente esclusioni e limitazioni dei benefici penitenziari per i delitti più gravi), norma che ha trovato ulteriori rilanci, fino a tempi più recenti, con l’ampliamento delle esclusioni per un numero larghissimo di delitti. Queste esclusioni e limitazioni si estendono anche alla liberazione condizionale? La giurisprudenza in proposito non è affatto univoca.

Ma la obiezione di fondo all’argomento della Corte è che la perpetuità dell’ergastolo non ne è un aspetto formale, ma ne è la sostanza. Il fatto che possa intervenire la liberazione condizionale per effetto di una scelta giudiziaria è solo una possibilità ed una possibilità che dipende dalla scelta di un giudice, inevitabilmente legata ad una valutazione discrezionale: nelle quali due parole, non conta solo la discrezionalità, ma anche la valutazione: occorre, cioè, un qualcosa - le prove di ravvedimento certo - che legittimino la concessione. Per questo, dal punto di vista normativo, la pena resta perpetua perché l’eventualità di un provvedimento discrezionale del giudice non può cambiare la sua natura di pena perpetua.

E non è male fornire alcuni dati sulla discrezionalità del giudice in materia di liberazione condizionale: in tutta Italia, nel 2006 (rilevazione parziale fino al 23.10.06: ovviamente, la statistica è relativa alle istanze per tutte le pene, anche temporanee): liberazioni condizionali concesse 21, respinte 373, dichiarate inammissibili 294; e le statistiche per la sola Toscana, temporalmente più complete, ci dicono: 2005: liberazioni condizionali concesse: 2; respinte 32; inammissibili 13; 2006: concesse 4; respinte 36; inammissibili 8; 2007, primo semestre: concesse 1; respinte 12; inammissibili 1. Va ricordato, inoltre, che l’effetto del venire meno della pena perpetua si verifica solo in linea di fatto ed è legato all’esito della applicazione della libertà vigilata per cinque anni.

Allargando il discorso alla liberazione condizionale, la perpetuità dell’ergastolo può essere discussa in due accezioni: formale o sostanziale oppure simbolica o reale. Si è riflettuto sulla seconda accezione. Che dire della prima? Che non è molto diversa dalla seconda. Si può convenire che molti degli ergastolani riguadagnano la libertà dopo un tempo più o meno lungo, ma è legittima la domanda: che senso ha una pena simbolica e col simbolo della perpetuità? Viene fatto di pensare alle "grida" manzoniane, emesse con la certezza della loro inattuabilità, soltanto al fine di uno sfoggio di autorità che non corrispondeva al vero: un modo di nascondere la mancanza di autorevolezza. Però la simbolicità del nostro ergastolo tende fortemente ad essere reale, a rassegnarsi male a restare simbolica. E così in sostanza, si potrebbe concludere il discorso, dicendo che il "fine pena mai" può essere sostituito da un poco rassicurante "fine pena non si sa quando".

La sentenza 264 ha ricavato dalla precedente 204 il solo fatto che la concessione della liberazione condizionale era giurisdizionalizzata e, per tale via, sottratta alla discrezionalità dell’organo politico e affidata alla valutazione del giudice in contraddittorio. Ma, nella 204, c’erano altri principi da prendere in considerazione.

In primo luogo, mentre la sentenza 264 affermava che la "funzione (e fine) della pena non è certo il solo riadattamento dei delinquenti", la sentenza 204 parla di "fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato". C’è una notevole differenza fra il concetto di "riadattamento dei delinquenti" e quello di "recupero sociale del condannato"; come pure fra questo fine come uno fra i tanti della pena, nella 264, e il "fine ultimo e risolutivo della pena stessa", come nella 204.

Perché il punto fondamentale di quest’ultima sentenza è proprio di attribuire al condannato, nell’ambito della esecuzione della pena, un diritto soggettivo a vedere riesaminata la efficacia nei suoi confronti della parte di espiazione della pena già sofferta e di legare a quella valutazione il "protrarsi della pretesa punitiva".

Per concludere, direi che le due sentenze della Corte costituzionale in questione si muovono su lunghezze d’onda diverse. E devo aggiungere che, mentre la 264 resta sostanzialmente datata, la 204 è stata costantemente ripresa dalla giurisprudenza costituzionale successiva. Il che potrebbe fare sperare che non sia impossibile tornare a verificare la validità della prima.

 
 
 
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HASTA SIEMPRE COMANDANTE GUEVARA

Il potere ha sempre paura delle idee e per arginare la lotta degli sfruttati comanda la mano di sudditi in divisa e la penna di cervelli sudditi. Assassinando vigliaccamente il Che lo hanno reso immortale, nel cuore e nella testa degli uomini liberi. Negli atti quotidiani di chi si ribella alle ingiustizie. Nei sogni dei giovani di ieri, di oggi, di domani!     

 

ART.1 L. 26 LUG 1975, N. 354

Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono copnsiderati copevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reiserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti. 

ART. 27 COSTITUZIONE

La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalla legge (La pena di morte non è più prevista dal codice penale ed è stata sostituita con la pena dell'ergastolo)

 

TESTI CONSIGLIATI

Sociologia della devianza, L. Berzano e F. Prina, 1995, Carocci Editore.
Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza,
E. Goffman, Edizioni di Comunità, 2001, Torino.
Condizioni di successo delle cerimonie di degradazione
, H. Garfinkel.
Perchè il carcere?,
T. Mathiesen, Edizioni Gruppo Abele, 1996, Torino.
Il sistema sociale,
T. Parsons, Edizioni di comunità, 1965, Milano.
Outsiders. saggi di sociologia della devianza,
Edizioni Gruppo Abele, 1987,
Torino. La criminalità, O. Vidoni Guidoni, Carocci editore, 2004, Roma.
La società dei detenuti, Studio su un carcere di massima sicurezza,
G.M. Sykes, 1958. Carcere e società liberale, E. Santoro, Giappichelli editore, 1997, Torino.

 

 

 

 


 

 

 

 

 
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