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Scommettiamo?
Paderno e il Villaggio Ambrosiano sono quartieri diversi ma non tanto da non poter camminare insieme!
Varie cose li uniscono: le due scuole dell'infanzia e le due elementari appartengono all'I.C. De Marchi, le due parrocchie dal 1° settembre 2007 formano un'unica Comunità Pastorale con un solo parroco.
La nostra scommessa è che possiamo crescere insieme, valorizzando le rispettive risorse e potenzialità.
VITTORIA!!!
La scommessa è un blog di Paderno Dugnano Responsabile Giovanni Giuranna (da giugno 2014 consigliere comunale per la lista civica Insieme per cambiare).
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SI AVVICINA IL NATALE: PARLIAMO DI CARCERE
Contro il logorio di questi giorni riprendo una vecchia intervista rilasciata da don Renato Rebuzzini (in servizio dal 2007 al 2014 presso la parrocchia del Villaggio Ambrosiano e, in seguito, residente a Palazzolo). Si tratta di un testo del 2004:
Intervista a don Renato Rebuzzini
(da www.korazym.org di Roberta Barbi)
Milano, 11 dicembre 2004
Nel racconto di un sacerdote perché il giornalismo ha paura di raccontare questo mondo sconosciuto. La realtà dei detenuti, dove comprare un dentifricio è difficile come imparare a leggere.
“Dentro e fuori – i detenuti e il rapporto con l’esterno”, questo il titolo del seminario che don Renato Rebuzzini ha proposto a Capodarco.
Un tema delicato, il racconto di un microcosmo che più di altri il giornalismo oggi nasconde, un dibattito affrontato in compagnia di Mario Calabresi, caporedattore centrale di Repubblica.
Il nocciolo del problema è la scelta del modo in cui i giornali danno certe notizie, anche se quasi sempre si privilegia un approccio soft, così un carcere balza agli onori della cronaca solo se organizza un buon laboratorio teatrale o una squadra di calcio vincente.
Dei detenuti si parla poco.
Le loro storie, le loro vite spezzate restano al di là delle sbarre, quasi non esistessero.
Sono quelli che la società vuole dimenticare, ma ci sono persone come don Renato, che con i reclusi è a contatto ogni giorno, ne ascolta le storie, ne cura le vite spezzate e il suo lavoro serve a renderli un po’ meno dimenticati.
Don Renato, lei distingue tra detenuti “eccellenti” e detenuti “dimenticati”. Perchè?
“I detenuti eccellenti sono quelli che fanno notizia, gli altri quelli di cui non si parla mai perché non ne vale la pena. Sono più del 90 per cento: tossicodipendenti, immigrati, soprattutto di religione islamica e quei disperati che utilizzano il carcere come ospizio dei poveri, cioè quelli che, non avendo soldi né collocazione nella società, entrano ed escono dalla galera perché lì almeno hanno un posto dove dormire, cibo e bagni puliti”.
Com’è la vita di un detenuto?
“Organizzata.
In prigione tutto deve passare attraverso l’organizzazione carceraria e il regolamento: dalle cose più semplici come l’acquisto di un dentifricio alle questioni importanti come le visite o i benefici di legge.
È un’organizzazione immobile, così alla fine tutti i detenuti presentano stress e disturbi psichici di una certa rilevanza”.
Il carcere produce disturbi psichici?
“Si chiamano ‘malattie dell’ombra’ come la compressione dello spazio, che si subisce vivendo in due metri quadrati e una volta fuori si manifesta come paura degli spazi aperti.
La dilatazione del tempo, soprattutto di notte; infine la modificazione delle capacità sensoriali, specialmente il gusto e l’olfatto.
Quindi ci sono le malattie psicologiche: il senso d’inutilità, la negazione della sessualità, fino ad arrivare ai disturbi della personalità che si esprimono nell’autolesionismo.
Non vanno sottovalutati neppure i problemi legati all’affettività, dal senso di colpa verso le vittime alla privazione dell’amore dei propri familiari”.
Le famiglie sono poco presenti?
“Spesso non dipende da loro, ma bisogna considerare che avere un parente in galera costa molto, dal punto di vista economico ed emotivo.
Ed è solo un assaggio della condanna sociale che subiranno fuori di qui”.
Quanto è difficile per un ex detenuto tornare alla vita normale?
“Troppo.
E sarà così finché il carcere continuerà a essere un mondo a sé, del tutto sradicato da quello esterno. Il domani per i detenuti che escono bisogna inventarlo già durante la pena ed è ciò che tentano di fare molte associazioni che si occupano del loro reinserimento sociale”.
E lo Stato?
“I politici non perdono troppo tempo col carcere, un posto dove non si ottengono consensi.
D’altra parte devono pure considerare la richiesta di sicurezza dei cittadini: nessuno vuole avere per vicino di casa un ex galeotto e questo perché ha letto sul giornale che uno, dopo aver scontato una condanna per omicidio, appena uscito dal carcere ha ucciso un’altra persona.
Ma non si pensa mai agli altri mille che escono e non uccidono più nessuno.
Molti cambiano, ma non grazie al carcere, piuttosto nonostante il carcere, che in Italia è tutto fuorché riabilitativo.
Il cardinal Martini una volta ha detto che il carcere è l’indice di civiltà di uno stato”.
E l’Italia è un paese civile?
“Lo sarà quando capirà che la limitazione della libertà da sola non basta a rieducare un uomo.
Nella struttura di Opera, per esempio, per oltre mille detenuti ci sono appena quattro operatori.
Il 40 per cento dei carcerati non ha la licenza media e i tempi per le richieste di scolarizzazione sono enormi.
Infine, solo il 10 per cento lavora, gli altri non fanno nulla dalla mattina alla sera”.
Insomma, il carcere è un modo di pagare per quello che si è fatto?
“Lo scopo del carcere dovrebbe essere la risocializzazione, ma come si fa a recuperare persone di cui s’ignora addirittura la storia?”.
Don Renato Rebuzzini, dal Giambellino a Opera - Una vita tra i reclusi
Renato Rebuzzini è uno di quei sacerdoti che non si dimenticano facilmente, un sacerdote “scomodo” che non si accontenta di predicare da un pulpito, ma è convinto che le pecorelle smarrite possano essere riportate sulla retta via solo agendo “sul campo”.
È questo lo spirito con cui nel 1979 ha fondato a Milano la Comunità del Giambellino che ancora oggi si occupa essenzialmente di tossicodipendenza.
Sotto la sua direzione, dal 1979 al 1993, la comunità è cresciuta molto, fino a comprendere due case residenziali per il recupero, una comunità d’accoglienza per malati terminali di aids e un centro diurno orientato alla prevenzione nell’area minorile. In seno alla comunità nasce anche il Centro filtro, che tra gli altri compiti ha quello di accogliere detenuti che chiedono un percorso alternativo al carcere, in collaborazione con il progetto Ekotonos, attivo soprattutto nella struttura milanese di San Vittore.
È attraverso questo lavoro che don Renato si appassiona alla condizione dei detenuti all’interno delle carceri e si pone concretamente la questione del loro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, specialmente per quelli più dimenticati, la maggior parte immigrati, alla cui storia nessuno è interessato.
Così dieci anni fa decide di lasciare la comunità, la sua creatura, per intraprendere una nuova avventura: diventa cappellano del carcere di Opera, incarico che ricopre tuttora, e da qui insegue il sogno che il carcere non sia soltanto una limitazione della libertà personale, ma diventi anche un vero e proprio strumento di rieducazione dell’individuo.
[da www.ildue.it - Net Magazine di San Vittore]
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