Creato da: riministoria il 27/08/2005
Storia e cultura a cura di Antonio Montanari Nozzoli

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« Un refuso del Corriere di RiminiLa lettera di Imelde a Zvanì »

Amori pascoliani

Post n°29 pubblicato il 27 Dicembre 2005 da riministoria
Foto di riministoria

E Imelde lasciò Zvanì: trovata la lettera dell’addio

All’inizio del 1896 Giovanni Pascoli pensa di prender moglie: è maturo anagraficamente (ha da poco compiuto 40 anni, essendo nato il 31 dicembre 1855) ma psicologicamente fragile, non per colpa dell’esser poeta ma piuttosto dell’assedio a cui è sottoposto da parte della terribile sorella Mariù.
Pascoli scrive al se-gretario comunale di San Mauro, Pietro Guidi: «Caro Pirozz, ti rinfresco la memo-ria. Cava in gran segreto le mie fedi e rintrac-cia quelle di mio padre e di mia madre e manda il tutto a Girolamo Perilli, via Garibaldi, 33, Rimini. In gran segreto… segreto di stato!…».
Momo Perilli (1853-1930) è il cognato della trentenne Imelde Morri, la donna di cui Giovannino si è innamorato e che altrove definisce «pallida e tacita». Imelde è sua cugina, figlia di Alessandro Morri e di Luigia Vincenzi sorella della madre del poeta, Caterina.
Da poco (30 settembre 1895) Ida si è sposata con Salvatore Berti di Santa Giustina, lasciando Mariù più depressa che mai. Riferendosi a quei giorni, Mariù descrive Giovannino in preda ad una «tremenda crisi di nervi e di cuore». Mariù ai primi di maggio del 1896 va a trovare a Sogliano la zia Rita dalla quale apprende che Zvanì si era ufficialmente fidanzato con l’Imelde (che aveva pochi mesi di età in meno di lei).
La biografa di Mariù Pascoli, Maria Santini nel suo recente «Candida Soror» scrive che l’Imelde era «una bella donna, alta, bruna, ben fatta» (p. 144). Ed aggiunge: «in questo modo sgradevole» Mariù ebbe notizia dell’evento. Ma la stessa Santini riporta un antefatto: Mariù aveva scritto per conto di Zvanì all’Imelde dopo la morte della di lei madre, per sapere se la defunta zia avesse mai ritenuto possibile un loro matrimonio (p. 132). Nel caso di risposta positiva, Zvanì l’avrebbe sposata volentieri.
Mariù dunque conosceva il retroscena. La notizia appresa a Sogliano può essere considerata la conferma della difficoltà che Zvanì incontrava nel trattare con Mariù di certi argomenti. Non deve meravigliare che Giovannino abbia agito di nascosto per il fidanzamento come se si trattasse di azione illecita o vergognosa. La sorella gli faceva paura. Prima egli s’accorda con l’Imelde, poi si riserva di riferire in casa propria.
Tornata da Sogliano, Mariù non si dà pace. Trama contro le nozze di Zvanì e vorrebbe anche frugare nel portafoglio del fra-tello, gonfio non di soldi (come precisa lei stessa), alla ricerca di qualche lettera d'amore.
Giovannino, messo sotto interrogatorio da Mariù, confessa la colpa del suo amore per Imelde, ma le promette di sposarsi soltanto dopo averle trovato uno straccio di marito (Santini, p. 146).
Mariù aveva saputo a Sogliano che una delle due sorelle Morri aveva dichiarato che non avrebbe mai sposato un uomo con il difetto fisico di cui lo stesso poeta si lamentava compiangendosi: il mignolo «guasto» d’un piede.
Maria riporta la notizia a Giovannino, con quanta perfidia possiamo facilmente immaginare. Ed arriva così dove voleva giungere, Zvanì rinuncia (maggio 1896) alle nozze con l’Imelde. La quale fa sapere che a parlare del dito «guasto» non era stata lei ma sua sorella Annetta.
Dell’epistolario che i due innamorati si scambiarono non restano che poche ma importanti righe, ritrovate di recente e pubblicate sul «Corriere della Sera» del 21 dicembre 2005: «Non sono poi tanto cattiva come credi. Ma hai voluto dar retta più agli altri che a me e ti sei procurato il male da solo». La data è il 20 giugno 1896.
Ha scritto Stefano Bucci sul quotidiano milanese che la lettera è riaffiorata dalle pagine degli «Ab urbe condita libri» di Tito Livio in una vecchia edizione conservata nella biblioteca della casa di Castelvecchio e da poco scoperta dall' attuale Conservatore di Casa Pascoli, Gian Luigi Ruggio.
Maria Santini nella biografia di Mariù difende la sorella di Zvanì. Se è apparsa cattiva, la colpa è di un «pregiudizio maschilista». Al quale noi (che però non contiamo nulla) non crediamo.
Le poche righe dell’Imelde raccontano di riflesso il dramma del poeta di San Mauro: «hai voluto dar retta più agli altri che a me», scrive la cugina non sedotta ma abbandonata. Il che è storicamente la verità di un duplice dramma psicologico il quale emerge dalle stesse pagine di Maria Santini: «Se Imelde fosse diventata la signora Pascoli, Maria avrebbe perso tutto». Poteva Zvanì tradire la sorella portando in casa una moglie? Non di certo. Il nido, quel nido miticamente invocato dal poeta e da Mariù, era una specie di carcere. Vero e non simbolico.
Antonio Montanari

 
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