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IL PREFETTO DALLA PARTE DEL BRIGANTE VILLELLA

Post n°24 pubblicato il 10 Marzo 2012 da romano.pitaro
 

  •  
    • Il Quotidiano mercoledì 22febbraio/
    •  IL PRFEFETTO DALLA PARTE DEL BRIGANTE VILLELLA

    • Non mollano. Insistono per farlo chiudere il “museo degli orrori” di Torino. I testimonial del Comitato, che ha sede a Milano, personalità dell’arte, della cultura, delle professioni, sono sempre più numerosi. Ma ora, la restituzione alla Calabria del cranio del brigante Giuseppe Villella (morto in carcere nel 1872) ed esposto nel museo antropologico criminale “Cesare Lombroso”, per dargli una dignitosa sepoltura, la chiedono anche comuni non sudisti: Lecco, per dirne uno. Alla delibera, con cui il comune di Motta Santa Lucia ha chiesto di poter avere quel cranio - prezioso per il medico veronese che proprio in quelle ossa asseriva di aver riscontrato la “fossetta occipitale mediana” a prova della folle teoria del delinquente per nascita - si aggiunge un particolare sostenitore della causa. Non un “brigante” dei giorni nostri, come si definiscono tra loro quelli del Comitato, che si battono per una rivisitazione della storia dell’Unità non più muta su eccidi, stragi e stupri commessi nel Mezzogiorno quand’è stato annesso, ma un prestigioso civil servant: sua eccellenza il prefetto di Catanzaro Antono Reppucci. Che, tra l’altro, non s’è limitato a convenire sulla giustezza di una richiesta che attiene il rispetto dovuto alle spoglie di una persona che vanno seppellite (si ricordi che non dare sepoltura ai cadaveri era per le antiche civiltà una maledizione e che Antigone si fa murare viva, pur di seppellire il cadavere di Polinice condannato da Creonte a pasto per i cani), ma ha preso carta e penna ed ha scritto al Ministero dell'Interno, per “sollecitare l'interessamento istituzionale affinché i resti del sig. Giuseppe Villella siano restituiti al suo comune di origine”. Nella medesima missiva, il prefetto rimarca “l'insensatezza delle teorie lombrosiane ed il danno biologico da esse causato ed ancora attualmente molto sofferto dalle popolazioni meridionali, accentuato ovviamente dall'inopinata recente riapertura del museo”. La lettera del prefetto di Catanzaro giunge dopo quella del Dipartimento del Ministero della Giustizia con cui, colpo di scena, si riconosce la violazione della normativa vigente in materia di trattamento e conservazione dei resti umani e di tutela del sentimento di pietà verso i defunti. Tra l’altro Franco Ionta, capo del Dipartimento, spiega, a proposito del legittimo trasferimento del cranio di Villella sottoposto ad autopsia da Lombroso, “che da ricerche effettuate nei nostri archivi non è possibile rinvenire atti ufficiali dai quali desumere notizie sul caso specifico”. Insomma, se non sapessimo che le bugie hanno gambe solide, come per tutte le vicende che concernono l’arretratezza del Mezzogiorno ed alcune sue pagine storiche deliberatamente manipolate, per esempio i moti di Reggio Calabria (’70-’71) su cui tarda un’analisi compiuta e l’assunzione di responsabilità dello Stato per avere deluso le aspettative di un popolo in rivolta per otto mesi e che alla fine non ha mai avuto quel che il “pacchetto Colombo” aveva promesso, si potrebbe dire che qualcosa, nella partita della restituzione dei resti umani di briganti, prostitute, anarchici e “diversi” su cui Lombroso s’è scagliato con lo scalpello, si muove. Il muro dello Stato adesso è lesionato dal suo interno. Pochi, tuttavia, i comuni meridionali che hanno condiviso le iniziative del Comitato tecnico-scientifico “No Lombroso”. E’ vero che è in arrivo la delibera di adesione del sindaco di Bari Michele Emiliano, ma tra i comuni che finora hanno deliberato l’adesione al “No Lombroso”, la maggior parte sono nordici. Anzitutto Lecco. Scrive il sindaco Virginio Brivio: “Sosteniamo pienamente le considerazioni esposte dal Ministero della Giustizia in merito al sentimento di pietas verso i defunti e l’opportunità che i resti presenti presso i musei vengano resi ad eventuali discendenti (il sindaco di Motta Santa Lucia è il pronipote di Villella) o al paese d’origine”. Dello stesso tenore, le delibere di altri comuni lombardi come Malgrate e Valmadrera. Una bella presa di coscienza in luoghi che non t’aspetteresti.

 

 
 
 

IL SILENZIO DEL GOVERNO

Post n°23 pubblicato il 08 Marzo 2012 da romano.pitaro
 

 

IL SILENZIO DEL GOVERNO

Non  potranno dire di essere state dimenticate. Come si fa con un libro noioso o  un oggetto  messo da parte perché non ci piace. C’è una Calabria che non dimentica, reagisce agli appelli,   e che, se cresce, può fare la differenza. Grazie all’iniziativa del Quotidiano,  la “damnatio memoriae”  è stata loro  risparmiata.  Il codice di mafia, che le vorrebbe vittime e carnefici, indissolubilmente legate alla “famiglia”, benché non abbiano  mai potuto scegliere da che parte stare e quando l’hanno fatto sono state sopraffatte, per una volta  è stato infranto. Considerato inaccettabile da ogni punto di vista. L’opinione pubblica ora sa la verità. Dimenticate no.  Vittime di un destino cieco e funesto, questo sì. Quale dio, dea o vitello d’oro, potrà comparire  al loro cospetto per spiegare la ragione di tanta sofferenza.  Figurarsi le istituzione laiche, democratiche e vieppiù tecnocratiche.  Preoccupato  di spread e valori azionari - sempre badando a non calpestare i piedi alle potenti corporation che rappresentano l’ultima mostruosità del “capitale liquido” che  vampirizza la politica -  ma indifferente,  rispetto all’umanità dolente delle donne contro la mafia,  in questo Sud che più Sud non si può,  lo Stato è come se non avesse  parole.  Afono su una questione che mina la qualità della democrazia non di una regione spesso giudicata colpevole prima del processo, ma di un Paese che è parte dell’Europa e in relazione ad un cancro  ramificato nel mondo intero. Infatti, nessun ministro ha espresso un cenno di attenzione per Giuseppina, Maria Concetta  e Lea. Tantissimi  politici di primo piano hanno espresso solidarietà, ma gli inquilini di Palazzo Chigi hanno taciuto.  Affaccendati in altre faccende, senz’altro. L’Italia li ringrazia per lo sforzo erculeo che prodigano  per evitarle il destino greco, ma è anche vero che questo Stato per le tre donne, emblema di una reazione  coraggiosa alla mafia ma anche di un Mezzogiorno sovraccaricato di emergenze sociali che rischia di scoppiare,  è come se non avesse “cuore che gli  batta in petto”. Suscita qualche riflessione questo silenzio verso  donne  costrette in un  vicolo cieco in cui l’unico linguaggio è un codice violento e cacofonico. Ma qui, oggi e  adesso, grazie al Quotidiano le tre donne le  ricordiamo tutti e con loro ci sentiamo solidali. Non soltanto perché soggetti cruciali  di un canovaccio raccontato in ogni foggia da storici ed esperti di mafia, ma perché loro, in un certo senso, sono una parte di  noi stessi. Che il più delle volte non intendiamo neanche guardare, tant’è sconvolgente. Con cui evitiamo di fare i conti,  perché ci spaventa.  Queste tre donne sono lo specchio di una parte consistente della realtà in cui siamo immersi, nel bene e nel male.  Sono parte dell’aria ammorbata che respiriamo; e se  loro sono già  finite nel cappio teso da una società diseguale e ingiusta,  in fondo noi ci giriamo intorno. Sperando di farla franca.  Lo sfioriamo quotidianamente quel cappio,  e spesso lo scansiamo per un pelo. Per caso. O per la scaltrezza che discende dall’istinto di sopravvivenza che, per tenere a freno la  coscienza,  chiamiamo maturità.      

 
 
 

PONTE SI PONTE NO DUE TESI A CONFRONTO

Post n°22 pubblicato il 29 Febbraio 2012 da romano.pitaro
 

PONTE SI PONTE NO

DUE TESI A CONFRONTO (IL QUOTIDIANO OTTOBRE 2011)

di Romano Pitaro

 

 Nonostante la contrazione economica, che stritola  l’Occidente in una crisi più lancinante  di quella del ’29,  il crollo dell’occupazione,  le violente oscillazioni delle borse e la cupa prospettiva “di due o più anni di ristagno economico globale”, i pontisti non arretrano di un millimetro.  Tengono strette le loro convinzioni (che il prof. Bruno   Sergi,   con cognizione di causa,   espone  nell’intervista accanto)  e   s’entusiasmano  all’idea che la campata unica  di 3300 metri per l’attraversamento stabile  delle “epiche sponde”,  sbriciolerà il primato del ponte di Akashi Kaikyo in Giappone di soli 1991 metri.  Noncuranti, peraltro, della messa in discussione  di uno dei principali atout del ponte: l’essere il  terminale del corridoio “Berlino-Palermo”. Corridoio però   cancellato, salvo ripensamenti,   dall’Unione europea.   Infatti,  nella proposta di bilancio “Europa 2020” inviata dalla Commissione Ue il 29 giugno all’Europarlamento,  la geografia delle grandi infrastrutture è stata sobillata. E nelle priorità infrastrutturali,  all’ex vecchio  Corridoio 1  “Berlino-Palermo”  subentra il nuovo  Corridoio 5 “Helsinki- La  Valletta”, che a Napoli vira verso Bari,  salta la  Calabria e la Sicilia e    rende  superfluo  il Ponte.   I pontisti hanno, naturalmente, tante   frecce nella faretra,  per spiegare che l’infrastruttura  è    “l’occasione del Sud”; benché  quando  il Governo e le grandi imprese ricorrono ad  espressioni  così altisonanti, al Mezzogiorno dovrebbe venire l’orticaria.  D’altronde  appare   esagerato il dilemma, ventilato  dagli oppositore,  secondo cui il Ponte  addirittura è  alternativo allo sviluppo del Sud.  In sintesi, per chi lo considera imprescindibile, il Ponte   porterà benefici indiretti legati al turismo,  alla mobilità ed all’ampliamento dell’occupazione.   Ed  a supporto di siffatte tesi,  si sottolinea  che  il Ponte non incide sulle finanze pubbliche, oltre ad essere  una priorità di politica economica.   Questa panoplia di punti di forza (che il prof. Domenico Marino confuta  qui a lato) fa impallidire il più ostinato dei detrattori di un’infrastruttura su  cui si disputa   dai tempi dei romani.   Stupisce, in ogni modo,  l’indifferenza con cui si procede nell’iter realizzativo del Ponte  (per cui finora sono stati spesi all’incirca 500 milioni di euro)  nonostante il sisma e lo tsunami alto dieci metri  che hanno sconvolto l’11 marzo scorso   il Giappone:  la seconda potenza economica e tecnologica del mondo. Quella tragedia   non ha   incrinato la determinazione a costruire, tra la Calabria e la Sicilia, regioni appollaiate su un’area sismica dove nel 1908  un terremoto di magnitudo 7.2 ha provocato  100mila morti, quella che per alcuni  sarà    l’ottava meraviglia del pianeta ( quantunque la  definizione  sia improvvida, vista la fine che hanno fatto  le altre sette) e per altri, viceversa,  un’opera  che avrebbe l’unico  merito di collegare due deserti.  Sembra cancellato dalla memoria quel 28 dicembre di poco più di un secolo addietro e dimenticati  i versi della poetessa lombarda  Ada Negri, che esortava a prestare soccorso: “Fratelli in Cristo/ destatevi dal sonno/ andate a soccorrere con leve e pale/ con pane e vesti. Nelle lontane terre dell’arsa Calabria crollano ponti e città/i fiumi arretrano il corso/sotto case travolte le creature sepolte vivono ancora/chissà. Batte la campana a stormo. Pietà fratelli, pietà”. I  termini della vexata quaestio   sono noti.   Si sa chi il Ponte lo vuole e   chi lo aborre.   Ma se  il confronto, da cui è   necessario espungere le  visioni apocalittiche,  tra sostenitori e detrattori, su un’opera che ha avvinto persino zio Paperone ( in un numero di Topolino il simpatico  spilorcio lo costruisce per far soldi, ma poi glielo portano via con dei palloncini)  e  di cui si discute da quando  il console Lucio Cecilio Metello  intendeva far passare i   140 elefanti sottratti al generale cartaginese Asdrubale, non può che far bene alla discussione,   restano tuttora   senza risposta  alcuni precisi interrogativi.  Ad incominciare (punto primo)  da chi dovrà erogare materialmente i capitali necessari (da  6. 3 a 8.5 miliardi di euro)  per la  campata unica (da  finire  entro  il 2017) lunga 3.300 metri, larga 60  e sostenuta da due piloni sui due versanti siciliano e calabrese. Se è in grado (punto secondo)   un Paese disorientato   e  lentocratico  come il nostro,  che nel Sud  ha un’autostrada in rifacimento da tempo immemorabile e il cui epilogo continua ad essere un mistero, aprire un cantiere  così invasivo e chiuderlo in tempi record. Quando piuttosto  è verosimile ritenere  che ciò non avverrà.   E che, invece, lo terrà  aperto per un tempo insopportabilmente lungo, deturpando  uno dei luoghi più suggestivi al mondo, per ricchezza naturalistica, storica e mitologica. Se (terzo punto)   a conti fatti, non converrebbe,  anziché spendere (ancora) cifre da capogiro per un’opera ardita e dagli esiti incerti,   provvedere con sollecitudine a mettere in sicurezza il territorio di questa parte del Mezzogiorno a rischio frane e dissesto idrogeologico.  Investendo sul risanamento delle coste e sul rilancio dell’entroterra  abbandonato ad una desertificazione sociale galoppante,  in cui s’insediano agevolmente, alla faccia dei cultori della democrazia liberale e dello Stato di diritto,   la speculazione economica più spregiudicata  e la criminalità organizzata.

 

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LA 'NDRANGHETA NON E' FIGLIA DEI BRIGANTI

Post n°21 pubblicato il 29 Febbraio 2012 da romano.pitaro
 

Enzo Ciconte

“Banditi e briganti”

Rivolta continua dal cinquecento all’ottocento

Rubbettino pagg 191 euro 18

 

LA ‘NDRANGHETA

NON E’

FIGLIA DEI BRIGANTI

 

di Romano Pitaro

Apparentemente, un titolo distensivo.  Un libro, “Banditi e briganti”,   che un  nonno può mettersi sulle  ginocchia, per leggere  al nipotino  storie d’avventure nei boschi, di cui quelle canaglie  erano  padroni,    e vendette truculente,  imprese  di uomini tosti, come re Marcone e Ninco Nanco,     e leggende di donne arcigne che  seguivano   i loro uomini   alla macchia. Un libro (Rubbettino editore) da regalare per Natale, che si fregia  di  meravigliose  xilografie,  stampe e degli acquarelli di Pinelli e d’altri autori che ritraggono i “filibustieri di terra”, li apostrofava così Stendhal, in pose eroiche; o mentre, dopo il consueto tradimento,  rendono l’anima impiccati, squartati,  fucilati e decollati.   Libro  che evoca fatti d’altri tempi, dal Cinquecento all’Ottocento, fattacci di sangue  sì, ma che non spaventano più,  e che, inanellati  con  maestria  e confrontati  ai pirati della Tortuga, sembra quasi  che  non vogliano   disturbare la serenità del lettore.  Solo apparentemente però. Perché lo storico della criminalità organizzata Enzo Ciconte, autore di  una sfilza di volumi che investigano tra i misteri   delle mafie, forse non ha messo nel conto il rischio d’infilarsi in un “malu passu”. Di   cacciarsi in un guazzabuglio di polemiche.   O  lo sa  troppo bene.  E  gli piace  prendersi una pausa dagli studi sulla ‘ndrangheta, ora messa a soqquadro dalle  inchieste “Crimine” e “Infinito”,  e vedere chi, come e perché mangerà l’esca sul brigantaggio.  Perché certe questioni non  si possono dimenticare.  Lo sguardo può essere equidistante  su torti di secoli fa, ma alla condizione che siano stati, come un lutto, elaborati. E le parti in causa se ne siano fatti una ragione.  Insomma, che una pacificazione storica sia intervenuta. Ma se il filo che lega banditismo, brigantaggio e disagio sociale dell’Italia dei nostri giorni con il Sud stritolato dalle mafie, non è mai stato spezzato. Anzi, se l’impressione è che l’eco della  violenza  esercitata   sul Mezzogiorno, che lo privò di colpo di un’intera  generazione di uomini   e l’impoverì in ogni  fibra  soprattutto nei dodici anni post unitari,  tuttora perduri,  allora il discorso è tutt’altro che una fiaba natalizia.  Pone interrogativi brucianti.    Mica si può scordare che Nino Bixio, imperversando nel Meridione, andava dicendo che  “al Sud i nemici non basta ucciderli, bisogna straziarli, bruciarli vivi a fuoco lento. E’ un paese che bisogna distruggere o almeno spopolare,  mandarli in Africa a farsi civili”.  Come si può scordare, mentre  il Sud recrimina sulle ingiustizie  economiche  che l’Unità  “fatta a mano armata”, come direbbe Pino Aprile,  gli riservò dopo  avergli  sottratto il futuro e costretto le generazioni successive ad una fuga senza ritorno,  che circa  un milione di meridionali sono stati sterminati da quella guerra d’occupazione? Come dimenticare che la “conquista del Sud” procedette  con stragi (Pontelandolfo è il simbolo di una rappresaglia nazista), esecuzioni in massa,  donne stuprate, borghi incendiati, bambini uccisi, teste mozzate e issate sulle pertiche? Non basta asserire,  a suggello del  terzo giubileo dell’Unità, che l’Italia è “una ed invisibile”. Non per mettere in dubbio il valore dell’Unità ormai irreversibile, ma per  far dimenticare ai meridionali le pene  d’inferno sopportare quando le truppe  guidate dal generale Cialdini  misero a ferro e fuoco le case di un popolo  recalcitrante al tricolore.  Ci sarebbe stato bisogno di gesti di pacificazione coraggiosi.  Per dire: i resti del brigante  Gasbarrone, che campeggia con sguardo cupo  nella bella  copertina del libro, sono ancora esposti a Torino  nel  museo degli orrori “Cesare Lombroso”.  Nessuno s’è degnato di restituirli al suo paese natio per una dignitosa sepoltura. Le conseguenze di quei soprusi, e il modello economico del nascente  Stato unitario,  che dopo aver rapinato quest’area del Paese puntò, con studiata strategia,    sullo sviluppo del Nord,  curando di fare  del Sud un deserto civile e dei suoi cittadini degli emigranti costretti ad un’infinita  diaspora ed a salvare  i bilanci dello Stato con le loro rimesse, sono  ferite aperte.  Perché quando il  popolo meridionale  sente di non avere alcun peso specifico nell’agenda dei governi  ed ascolta  le invettive della Lega contro il Sud sprecone, s’accende di un’intemperanza che può traboccare.  Col rischio che  nelle sue viscere torni a prendere forma la protesta inconsulta  ed il desiderio di “nuovi briganti”, come auspica il giornalista Lino Patruno in  “Fuoco del Sud”.  Altro che titolo distaccato quello di Ciconte.  Nel premettere che intende descrivere soltanto  il fenomeno del brigantaggio,  per differenziarlo dal banditismo, ravviva un vulcano di risentimenti.  Di quelli che esortano gli storici a modificare alcune  valutazioni pregiudiziali, le case editrici a rivedere  omissioni poderose nei testi di storia in uso nelle scuole  e i politici a fare i conti con un passato che non è mai passato.   Dodici  anni di guerra  civile o  sociale per altri,  ma sempre  anni di furiosa repressione, ridanno freschezza  a quella  canzone scoppiettante  di Eugenio Bennato: “Ommo se nasce, brigante se more/ma fino all’ultimo avimma spara’/ e se murimmo menate nu fiore/ e na bestemmia pe sta libertà”. E, anche grazie a questo nuovo approfondimento, ci invitano a  non cedere  alle semplificazioni.   Asserire che la ’ndrangheta  non è figlia del  brigantaggio,  per la verità è poco.  Perché  se pensiamo che   la
repressione del brigantaggio e della protesta sociale (con quei numeri e quella  devastazione  urbana inflitta al Sud nel periodo post unitario) abbia cancellato  un’intera generazione di  uomini,  con la conseguente  emigrazione a milioni di meridionali, allora si può dedurne che   proprio la scomparsa del brigantaggio e di tutto ciò che intorno ad esso gravitava,  sia  la causa (o una delle cause) della nascita e dell’irrobustimento delle mafie.  Altro che parentela tra i due.  Gaetano  Salvemini sosteneva che “i moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi del Sud per opprimere i partiti democratici del Nord; i camorristi del Sud hanno bisogno dei partiti moderati del Nord per opprimere le plebi del Sud”.  Se davvero  è andata così, si potrebbe asserire  che la mafia non  sia stata un parto  del brigantaggio,  ma dello Stato.  Ciconte, per la verità, taglia corto sul punto. Sostiene: “La mafia non è figlia dello Stato. Semmai, delle classi dirigenti che prima hanno utilizzato il brigantaggio per i loro affari  e poi le mafie per governare il Mezzogiorno. D’altra parte, la devastazione sociale a cui non si è riusciti a porre un freno, rivela l’incapacità dello Stato ad affrontare la questione meridionale. Perché è chiaro che se si consente la fuga delle forze fresche dal Sud,  s’infiacchisce la reazione della società civile”.  Gli spunti per tornare sul tema con più attenzione  non mancano. Se, per esempio,  riflettiamo sull’opinione  secondo cui   il brigantaggio fu  un fenomeno maschile e  la mafia  un fenomeno femminile, in quanto nel  Mezzogiorno, con la
repressione del brigantaggio e la fuga  di più generazioni di uomini ci sarebbe stata una perdita di paternità con il conseguente offuscamento dell’idea del bene e del male oltre ad  una perdita di civiltà, notiamo, ancora,  che è arduo individuare linee di discendenza tra brigantaggio e mafia.  Quest’ultima, sarebbe l’effetto della perdita  dei padri   e di un  popolo meridionale  a prevalenza femminile,  la cui attitudine è stata di anteporre agli interessi generali, per ragioni di sopravvivenza, quelli della famiglia.  Anche qui, però, l’autore di “Banditi e Briganti” non concede margini di movimento. La sua visione è netta: “La mafia, la camorra e la ‘ndrangheta sono il frutto di un mutamento nella proprietà  degli anni in cui sorgono. Ad incominciare dallo sbriciolamento del latifondo, che ha messo in luce l’aggressività dei ceti dirigenti, i quali  hanno pensato di  acquistare potere e denaro,  avendo nelle mani una risorsa che altri non avevano: la violenza organizzata parallela a quella statuale. Questo  punto di vista, tra l’altro,  spiega perché le mafie durano nel tempo, adattandosi a tutti i  momenti storici ed a tutti i contesti sociali”. 

 

 

 
 
 

LA LEGA NORD UNO SCANDALO EUROPEO

Post n°20 pubblicato il 29 Febbraio 2012 da romano.pitaro
 

Un brillante  saggio di Luigi Pandolfi  inchioda i leghisti alle loro irresponsabilità democratiche (AGOSTO 2011)

LA LEGA NORD

UNO SCANDALO EUROPEO

di Romano Pitaro

La Lega Nord? Un mostro! La pietra dello scandalo della   nostra democrazia.  Il giudizio è tagliente.  Così però  si rischia di non capire chi e perché ha dato forza alla Lega in tutti questi anni. E’ germogliata in un  Paese frastornato.  Che, dopo lo smottamento della prima Repubblica, è ancora diviso in due.  E  non è stata colpa della Lega.  Un Paese che non cresce. E  calpesta il futuro di un’intera generazione di giovani. “La Lega Nord, un paradosso italiano in cinque punti e mezzo” ( il mezzo indica il federalismo hard): è il titolo del saggio di Luigi Pandolfi, intellettuale calabrese e uomo di sinistra.  Ecco i    tratti peculiari di un partito paradossale: la Lega, che una volta ce l’aveva duro.  Quando  moltissimi ritenevano che avrebbe umanizzato le  istituzioni. Quando, lo ricorda Corrado Stajano nel “Disordine”,  la votavano “schizzinosi banchieri, imprenditori, immobiliaristi, architetti di fama, giornalisti”. Tutto questo prima del botto di maggio.  Una  rasoiata.  La Padania immaginifica s’è volatilizzata. E al raduno di Pontida i   capataz verdi sono apparsi melliflui. Come un  piccolo partito della prima repubblica, che ancora  si ascolta perché i suoi  voti pesano.  E’ l’assunto del pamphlet di Pandolfi   che suscita perplessità: “In qualsiasi alto paese civile e democratico del mondo, un partito come la Lega Nord sarebbe stato confinato ai margini del sistema politico”.  Non è condivisibile, perché  la Lega non è un mostro uscito dai tombini. Mostro  sì: lo storico  Enzo Ciconte in  “Ndrangheta Padania”, spiega che “Nell’ultimo quindicennio la ‘ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano. Esattamente nelle stesse località dove c’è un forte insediamento della Lega la ‘ndrangheta gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, ha una presenza politica”. Senza dimenticare le aspirazioni di Miglio a costituzionalizzare la mafia.  Sbolliti  gli entusiasmi mal riposti, la Lega però è figlia di quest’Italia. Che l’ha vezzeggiato invece di sorvegliarlo. Investita da mutamenti profondi, figliati  dalla globalizzazione, all’inizio dei ’90  è esplosa la   fuga   nel particolare e l’attenzione  esclusiva al  proprio vissuto individuale.  La Lega nasce quando un Paese scosso, si convince che  conta solo  il mercato  e l’arricchimento. In spregio alle regole ed ai controlli. Per capirla, e capire  le oscurità italiane irrisolte,  non va  demonizzata.  L’assunto sulla sua  impresentabilità, deve confrontarsi con i guasti della  realtà italiana. Pandolfi fa  una ricognizione seria sul fenomeno leghista fin dalla sua comparsa; e offre  un’interessante  comparazione delle “sparate” dei vari dirigenti   con quelle del Front Nazional di Le Pen, del Vlaams Blok, il partito nazionalista fiammingo,  il Pro-Koln, l’ultradestra tedesca, e il movimento slavista russo di Vladimir Zhirinowsky.  Il  partito personale di Bossi,  documenti alla mano,  è  a destra delle più estreme. Nel suo profilo identitario c’è l’odio verso l’Islam  e la ricerca di unità d’intenti con l’inquietante  accolita di razzisti di tutta Europa. Cinque le performance che la rendono un unicum. La sua appartenenza alla famiglia delle destre anticostituzionali; l’insopportabile contraddizione sull’immigrazione: parte essenziale dell’economia del Nord, ma oggetto di spregevole acrimonia da parte dei Leghisti; il contrasto evidente tra i suoi obiettivi e gli interessi nazionali; il suo  richiamo alla legalità ed invece la  realtà di compromissioni romane che l’hanno vista   sostenere  persino la legge sulle rogatorie, con cui s’ impedisce alla giustizia di avvalersi di prove preziose,  e quella sull’abolizione del reato di falso in bilancio. Ultimo: il familismo amorale, i parenti del capo piazzati nelle Istituzioni e una serie di posizioni che stridono col suo “Roma ladrona!”  Fenomeno reazionario, d’accordo. Ma c’è bisogno anche di un altro sguardo  Anzitutto è stata, in un Paese esausto,  uno dei tre  fenomeni nuovi emersi con la fine della prima repubblica.  E’ vero che Bossi, dopo avere intascato una tangente da Enimont,  ha fatto giusto  in tempo a sedersi in Parlamento dalla parte dei giustizialisti col cappio, ma è innegabile che abbia rappresentato la  speranza di riformare la politica.  Dopo il crollo della prima repubblica, nell’Italia ingessata in un sistema gerontocratico, partitocratico e clientocratico,  nascono, a destra,  il fenomeno leghista e il berlusconismo prima maniera, premiato elettoralmente  perché si riteneva potesse spezzare l’ assetto della politica dominato da un gruppo ristretto di politici a vita e  riformare, con più merito e più concorrenza, un capitalismo di relazioni  ancora oggi vivo e vegeto.  La Lega come reazione al non rinnovamento della classe dirigente di un Paese  ancora tutto da riformare, come denuncia l’ex governatore Draghi nelle sue  “Considerazioni finali”.  In Spagna in 30 anni di democrazia sono stati  consumati quattro leader prestigiosi; in Francia nella V Repubblica si è avuto il gollismo, il mitterandisimo ed  il sarcosismo; in Germania: Khol, Schroeder e Merkel e in Inghilterra dopo la Thatcher, Major, Blair e Gordon Bown. La seconda  Repubblica italiana, viceversa,  ha ereditato i guasti della prima e ne ha aggiunto altri.  Nello sclerotizzato  sistema politico   la Lega, spiega Ilvo Diamanti,   ha  favorito l’accesso di categorie divenute  periferiche nei partiti di massa. Il leghismo e il berlusconismo hanno introdotto linguaggi nuovi,  un stile diretto.  Rispetto a tutto ciò,   l’esperimento prodiano è parso come una reazione difensiva. A distanza della caduta della prima repubblica, dopo il crollo dell’esperimento dei sindaci eletti direttamente, sopravvive il  vizio nazionale, che prescinde  dalla destra e dalla sinistra,  all’autoriproduzione delle classi dirigenti. Siamo una società vecchia, corporativa e localista. Che quando non sa come spiegare l’immobilismo corporativo, dà in pasto all’opinione pubblica l’idea falsa di un Mezzogiorno zavorra del Paese.  La lezione che si coglie, è che  la politica, di cui la Lega è parte, in fondo  riproduce ed enfatizza i limiti di un Paese disunito nei fatti. La sconfitta della Lega  è sancita nelle “Considerazioni” di Draghi (i sette nodi) e dalle rivoluzioni sulla sponda Sud del Mediterraneo,  che  hanno messa a nudo la  natura  della Lega: spaccona e minacciosa a parole. Ma impotente a  governare la complessità.  Piccoli leader arroganti con i deboli e ossequiosi  con i potenti.    Se però ora non la  contestualizziamo,  rischiamo di illuderci che  a bonificare la ”gigantesca palude” che è diventata l’Italia, possano riuscirci un’opposizione litigiosa e una sinistra che, nonostante i traumi storici, non ha  prodotto novità. Ancora oggi non siamo in grado di consentire l’accesso nella politica e nelle istituzioni di componenti nuove; né di applicare seriamente le quote rosa e quelle verdi (l’inserimento di giovani al di sotto dei 35 anni); né di dare il diritto di voto ai sedicenni ed agli immigrati. Uno come Obama, da noi farebbe la fila nello studio   di Rutelli, D’Alema, Casini. Tuttavia   ciò che più avvince il dibattito sui media è se Berlusconi lascia e chi sarà il candidato premier tra Bersani e Vendola.  Invece  dobbiamo interrogarci su come rendere possibile, prima che si verifichino fratture e ribellioni,  che  le donne ed i giovani diventino  protagonisti.   Il libro di Pandolfi è un ottimo incipit, per capire com’è stato possibile che un Paese nato dal Risorgimento,  dalla Liberazione e dalla Costituzione, si sia affidato per così tanto tempo a un politico come Bossi che una volta disse: “Con il tricolore mi ci pulisco il culo!”. Fortuna che c’era un giudice a Cantù che lo condannò a un anno e quattro mesi; quando parte dell’opinione pubblica, sinistra inclusa,  lo riteneva “uomo nuovo”,  la cui carica eversiva poteva far saltare il tavolo di un potere chiuso.   

 

 
 
 
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