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                    Schiavitù proletaria

Post n°60 pubblicato il 28 Febbraio 2007 da brokenheart74dgl
 

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(Venerdì 06/08/2005; ore 01.46 a.m.)

Capitalismo e consumismo.
Schiavitù proletaria: l’illusione dell’oggettivazione.

PREFAZIONE

In questa mia breve riflessione personale sul mondo del lavoro, ma più in generale sul sistema capitalistico, del quale vuol essere espressione critica, considerando quest’ultimo come causa di un decadimento della dignità umana e di un suo sfruttamento da parte di pochi; il termine proletario è spesso usato come sinonimo del termine operaio, ma ciò è dovuto all’esperienza personale che più direttamente mi convolge e che meglio conosco.

Deve essere però chiaro che col termine proletariato non intendo riferirmi alla sola classe operaia, quantopiù, diciamo così, negativamente, a tutti coloro che sono esclusi dalla classe dominante –ovvero dalla classe del capitalismo borghese –, quindi, anche a impiegati, a piccoli artigiani ed imprenditori medio-piccoli.

A questo proposito, prima di cominciare questa mia breve considerazione, mi sembra necessario, per una maggiore chiarezza, demandare i significati di capitalista e di proletario, alle definizioni di Engels, nell’omonimo scritto “Che cos’è il comunismo?”, sebbene – ci tengo a precisarlo – la mia posizione non sia adducibile, ne completamente racchiudibile all’interno del pensiero comunista (non potendo condividere tutti gli assunti di quest’ultimo), ma si identifichi invece verso la prospettiva, a mio parere maggiormente garante dei principi di libertà ed eguaglianza, di quello che Sartre definì “socialismo libertario”, per il raggiungimento del quale, ritengo comunque indispensabile il passaggio social-democratico, come mezzo per il perforamento di quel velo ostacolante che è l’egemonia borghese, per poi, una volta conseguito il consenso delle masse, mettere in atto quello che è il fine reale, lo scopo ultimo dell’oposizione aal’ordine dominante: il superamento rivoluzionario del sistema neoliberista stesso.

“La rivoluzione non è un momento di rovesciamento di un potere da parte di un altro, ma un lungo movimento di svilimento del potere. Nulla ci garantisce che riuscirà, ma nulla può convincerci razionalmente che lo scacco sia fatale. Ma l’alternativa è proprio questa: socialismo o barbarie”. ( J. P. Sartre; Autoritratto a settant’anni;  ed. Net; pag 100)

Ma ecco le definizioni di Engels: 

  • La classe dei grandi capitalisti, che in tutti i paesi civili già ora hanno il possesso quasi esclusivo di tutti i mezzi di sussistenza e delle materie prime e degli strumenti (macchine,fabbriche) necessari per la produzione dei mezzi di sussistenza. Questa è la classe dei borghesi o borghesia.

  • La classe di coloro che non hanno possesso alcuno, che sono costretti a vendere ai borghesi il proprio lavoro per averne in cambio i mezzi di sussistenza necessari per il loro sostentamento. Questa classe si chiama dei proletari o proletariato.

                   SCHIAVITU', ILLUSIONE E OGGETTIVAZIONE 

Ogni uomo, ogni esistente che porti in sé l'umanità, cerca nella sua esistenza uno scopo, un motivo del suo stesso essere nel mondo.

Ciò è normale. Come può, infatti, un uomo (essere umano) non sentire l'esigenza di poter esprimere il proprio "essere possibilità esistente" in qualcosa che ne giustifichi l'esser venuto a questa vita?

Ogni uomo, dunque, marxianamente parlando, cerca il suo rapporto certo con la natura, col mondo, ma contemporaneamente e soprattutto, con sé medesimo, nel lavoro.

Ora, il capitalismo, facendo del lavoro una semplice merce di scambio e del salario proletario il palliativo per mantenere più forte il proprio potere schiavizzante, ha portato all'alienazione dell'uomo stesso, il quale continua a cercare invano se stesso nella realizzazione lavorativa che però, nella società borghese-capitalistica, lo riduce a un semplice uomo-macchina (machine-man).

Così i lavoratori si sbranano fra loro per raggiungere posizioni che li rivestano di un’importanza, di un rispetto sociale apparente ma, ancor peggio, si annullano fra sé e sé –anelando a rispecchiare le proprie attitudini, il “tèlos” del proprio esserci non riducibile a un semplice essere astrattamente inteso – ricercando la propria oggettivazione nella dedizione completa ad un'inutile automatismo tayloriano, illudendosi di manifestare, in tal modo, la proprie capacità. In realtà, essi sono inutili (noi siamo inutili); siamo semplici merci, l'una con l'altra interamente scambiabili e pienamente sostituibili.

"Tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile".

Dove questa frase assume maggiore significato, realizzazione e conferma, se non all'interno di una fabbrica?

Un operaio (ma anche un impiegato), un proletario, non ha qualifica alcuna, o meglio, è qualificato unicamente ad essere schiavo del suo padrone. Schiavo certo, perché il proletario vende a basso costo l'unica cosa che non ha prezzo: la propria libertà. Ne è necessitato, certamente, ma proprio per questo è schiavo, non è libero.

Mi si dice che bisognerebbe, invece, ringraziare i grandi capitalisti, i proprietari di aziende, perché forniscono all'operaio, al proletario, il salario per potersi mantenere, per poter vivere.

In realtà il proprietario d'azienda fornisce sicuramente un salario all'operaio, ma non per permettere lui di vivere, quanto più – e la cosa è radicalmente distante dal concetto di vita –, per sopravvivere all'interno di un sistema nel quale, gli unici a vivere, sono i proprietari stessi, grazie al "plus-valore", ovvero al profitto derivante dalla differenza fra prodotto grezzo, costi di produzione (fra i quali rientra il salario), costo delle materie prime e vendita del prodotto finito.

Ora, il costo delle materie prime, non è facilmente contenibile, in quanto deciso da altri capitalisti che perseguono anch'essi un unico scopo: il profitto; i costi di produzione sono anch'essi difficilmente diminuibili, perché essi stessi delegati a fattori eterogenei, inoltre esterni e incontrollabili. Tra questi solo un costo di produzione è in potere del proprietario; solo su uno di essi, quest'ultimo ha il "potere" di agire, seppur per ora solo passivamente: sull'aumento dei salari, della forza lavoro; in poche parole sullo stipendio dei proletari, ovvero sul saggio di plus-valore, come differenza fra stipendi, ore necessarie per la produzione e vendita del prodotto finale. Questi ultimi, infatti, sono gli unici costi variabili, non fissi (determinabili, seppure in parte, dal proprietario), facenti parte anch'essi dei costi di produzione, ed è solo dalla differenza fra i costi variabili – e quindi dall’incidenza più o meno marcata del saggio di plus-valore all’interno di essi – e i costi costanti o fissi, dai quali non può assolutamente essere tratto, spremuto, tantomeno generarsi alcun plus-valore, dal quale si “produce” (quale termine sarebbe più appropiato!) il saggio di profitto del capitalista.

Sicuramente c'è un altro modo di abbassare i costi di produzione, oltre a quello di tener al limite della sopravvivenza gli stipendi, ed è quello di ridurli quantitativamente tramite l'automazione; automazione consistente nell'investimento in macchinari che richiedano un numero di lavoratori sempre inferiore e che abbiano costi fissi di ammortamento finiti limitati nel tempo, a differenza di quelli degli operai, più difficilmente ammortizzabili e comunque sempre maggiormente impegnativi, onerosi, rischiosi (assistenza sindacale, limite produttivo dovuto a orari di lavoro esteriormente definiti dal C.C.N.L.; sistema contributivo; ecc...) e infiniti (l'operaio è un costo, un’incombenza nel tempo, difficilmente ammortizzabile; egli non diviene mai proprietà dell'azienda, anche se dal punto di vista sussistenziale lo è già).

Ma se si aumenta l'automazione si diminuisce, per conseguenza necessaria, la forza lavoro di cui l'azienda abbisogna per sostenere la sua produzione e il risultato è sempre lo stesso: una diminuzione, un impoverimento della classe proletaria, con un aumento del profitto e del benessere della sola classe dominante: la borghesia capitalistica.

Dovrei essere riconoscente ai datori, ai proprietari dell'azienda perché mi permettono di sopravvivere con uno stipendio miserabile?

No, non mi sento affatto in dovere verso di loro, né nella condizione di dover ringraziare coloro che detengono la mia libertà nelle loro mani.

Sentirmi in colpa? Di che?

Per essi, io non sono che una merce; ho un valore meramente profittuale. Il nostro rapporto è un rapporto di lavoro, di semplice scambio – seppur sbilanciato, mal ponderato, iniquamente maldistribuito a loro favore – della mia forza lavoro, in cambio di un salario, di un prezzo, nulla di più.

Essi scambiano il mio lavoro con del denaro: tutto qui! Come se la mia libertà, e la libertà in generale, avesse un prezzo.

A questo punto ogni altro rapporto, eccedente quello lavorativo, cessa.

Io, proletario, sono retribuito per una data quantità della mia forza lavoro, né più, né meno. Il salario che ricevo in cambio, non richiede certo una negligenza della mia prestazione, ma neppure un "plus-lavoro" da parte mia: ne fisico, né mentale, tantomeno un interesse personale oltre quello richiesto dal contratto stipulato fra noi due contraenti e delimitato alle semplici mansioni per le quali mi son venduto, ahimè, come mera merce. È questa la cosalizzazione che avviene all’interno del sistema attuale, ovvero la riduzione dell’uomo e di tutto il potenziale creativo contenuto all’interno della sua umanità, a semplice cosa. Il proletario si appresta in tal modo a deformare il proprio essere, in altre parole a vivere nella continua contraddizione di dover essere ciò che non è (una cosa) e a non poter essere ciò che è (un essere umano).

Se, ad esempio, il padrone paga € 100 per 200 chilogrammi di materia prima, di merce grezza, e se il prezzo della merce è di 0.5 euro al chilogrammo, egli riceverà 200 chilogrammi di tale merce, non un grammo di meno, certo, ma neppure uno di più.

Ora, le stesse condizioni valgono sul piano del rapporto lavorativo, ove vige la medesima analogia, ovvero:

 

M (Merce) : P.A. (Prezzo d'Acquisto) = F.L. (Forza Lavoro) : S (Salario).

Questa è la legge del capitalismo e del liberismo economico, il quale porta ad una “libera” concorrenza, ma libera solo di diritto, non di fatto: libera concorrenza, infatti, limitata a chi detenga abbastanza capitali da poter concorrere; da chi abbia la copertura finanziaria necessaria da consentire lui di potersi sedere al tavolo da gioco destinato ai soli miliardari.

Purtroppo, si sta facendo confusione, inoltre, fra un legittimo liberalismo e un degenerante liberismo, e ciò è sempre più inquietante; è questo, però, un argomento che in questa sede non ho possibilità, né pretesa, di approfondire.

Il problema, assai preoccupante dal mio punto di vista, è, invece, quello dell'operaio il quale, ancor prima uomo che operaio, cerca oggettivazione in un lavoro che invece lo porta, inconsapevolmente – forse – ad alienarsi sempre più, principalmente da se medesimo. Un lavoro che non è più oggettivazione di sé e delle proprie capacità nella natura, come riconoscimento del proprio produrre in un prodotto di cui egli è alla fine proprietario e di cui può "vantare", diciamo così, la fattura; viene meno, con la cosalizzazione dell’uomo, l'oggettivazione del suo specifico impegno, del proprio sè, delle proprie possibilità e capacità creative, della propria oggettivazione, per l’appunto.

No, l'operaio è solo l'equivalente di una merce che produce altra merce a favore di un terzo che ne beneficia a spese del primo; a spese dell'incommensurabile valore della sua libertà.

Nessuna differenza passa, a questo livello, fra il pulsante pigiato dall'operaio per azionare un macchinario, il macchinario stesso e la merce da esso prodotta: nessuna.

Almeno così è per il proprietario che vede bene in questo senso, mentre, ahimè, il povero proletario operaio si illude di essere utile, di oggettivarsi, di esprimersi in un lavoro che altro non è, in realtà, che il suo sfruttamento e un mezzo di oggettivazione per qualcuno che non è lui, ma il suo padrone: il capitalista.

Si illude l’operaio, che il suo produrre, il suo impegno nell’atto lavorativo, abbia come riflesso un rispecchiamento del proprio essere nel mondo; che la sua dedizione oltremodo ossessiva all’atto produttivo aziendale, trovi il suo corrispettivo in una partecipazione attiva a quella legittima costruzione del mondo di cui egli è parte e a cui vuole lecitamente partecipare, apportando anch’egli il suo contributo. Si illude, soprattutto, che la sua cooperazione all’atto produttivo realizzi il suo essere – con tutte le potenzialità ad esso connesse –, nell’esserci, ovvero nell’essere presenza nel mondo. L’uomo proletario-operaio opera nella falsa illusione, nella credenza – generata furbescamente dallo stesso sistema che lo schiavizza –, che il suo impegno sia proporzionale al riconoscimento delle sue qualità; che quel “di più” da esso investito nel lavoro, si traduca automaticamente in una sua attiva partecipazione alla costituzione e alla trasformazione della natura, dell’ ”altro da sé “, del mondo nel quale egli è gettato con l’esistenza. Trasformazione che è in suo diritto attuare, per sentirsi parte del mondo di cui fa parte e non, estromesso da esso, passivamente come semplice cosa, quale invece egli è considerato dal capitalista, dal suo padrone. C’è pero una sottigliezza linguistica, una sorta di paralogismo atipico, in quanto generato dalla coscienza (e non dalla ragione) diciamo così “irriflessa”, immediata, che nella fattualità non è tale e che va considerata in tutta la sua portata di significato, sulla quale si fonda l’illusione del proletario. Tale situazione potrebbe sintetizzarsi nell’inautenticità heiddegeriana (nell’impersonalità del “si” inautentico), così come nella malafede sartriana. L’operaio, non trasforma, non genera col suo operare, un cambiamento nel mondo naturale inteso tout-cour; non diviene, col suo impegno, oggettivamente partecipe del costituirsi storico del mondo inteso come fattualità storico-sociale, insomma del mondo tutto come insieme di natura, socialità, economia. No, egli ­– o forse sarebbe a questo punto più esatto, in quanto cosa, dire “esso” –, partecipa solamente, non, si badi bene, alla trasformazione, quantopiù al mantenimento di quella parte di mondo che si identifica limitatamente al mondo capitalistico, al sistema consumistico. Il suo impegno, il suo lavoro accresce unicamente la potenzialità del sistema di cui egli è parte, sottomesso; aumenta solo il potere dei suoi padroni e, più il sistema si potenzia, più i principi cardine che ne stanno a fondamento, incrementano la loro portata cosalizzante sull’uomo-proletario. Come dire: il proletario diviene in tal modo il principale generatore, la forza motrice, il fattore determinante del sistema che lo rende schiavo. L’operaio diviene, in questo senso, il principale responsabile del suo proprio suicidio come uomo e, parallelamente, il garante della sua stessa schiavitù dal sistema; sistema nel quale egli si illude di essere libero e dal quale, invece, aumenta esponenzialmente sempre più la dipendenza della propria sopravvivenza. Insomma, il proletario si oggettivizza nella produzione di quelli che egli crede essere maglie di una collana rispecchianti il valore della sua libertà creativa, del suo essere uomo nel mondo, mentre, invece, non si rende conto di star producendo gli anelli delle catene che lo rendono schiavo di un mondo fatto per pochi possibilitati.

È su questa illusione che il capitalismo e il sistema consumistico poggia, vive, si nutre, si alimenta avidamente in un circolo vizioso auto-rigenerantesi e che, non può che condurre a un sempre maggiore accentramento monopolistico dell'economia, con le conseguenze nefaste che si possono facilmente immaginare: potere economico nelle mani di pochi capitalisti che controllano il mercato, i prezzi, i salari, la politica, l’informazione: un monopotere assolutistico e autoritario, di cui l'esito ultimo e inarrestabile processo saranno, ma in parte già lo sono, l'ineguaglianza e l'ìllibertà; un potere sempre più classista, elitario.

Si potrebbe obiettare, per concludere, che in fondo i proletari sono liberi di scegliere di non sottomettersi al giuoco capitalista, al ricatto dei padroni. Nessuno obbliga loro di cedere la propria libertà a poco prezzo; nessuno obbliga nessuno a lavorare a queste condizioni: essi sono liberi, direbbe la parte interessata, in questo caso avversa.

Come non dar ragione a questa prospettiva; d'altronde, ogni uomo è libero di scegliere, ma è libero solo in un sistema ove i principi che fondano il sistema stesso, siano essi stessi fondati sulla libertà e sull'uguaglianza. Ma il sistema attuale non è tale. In esso non vige la libertà, l'eguaglianza ancor meno; la legge delle pari opportunità è solo un fantasma: una sirena ammaliatrice messa sullo scoglio della falsa informazione e dell’affabulazione, dai media della destra liberista per incantare i proletari, dei quali solo pochi portano il nome e la forza di volontà di Ulisse.

Così, certo, i proletari sono liberi di scegliere di non lavorare, il che, però, nella società attuale è sinonimo di essere liberi di non poter sopravvivere altrimenti, se non lavorando per il capitalista, vendendo cioè la propria libertà al misero prezzo della propria sopravvivenza stessa e credendo, tutto sommato, di essere liberi; di essere anch’essi proletari appartenenti alla classe borghese benestante per il semplice fatto di potersi permettere l’auto con i cerchi in lega, il telefonino nuovo ogni mese, un viaggio alle Maldive o che so io, un jeans di Armani all’ultimo grido, una casa propria.

Anche in questo modo, però, essi si incatenano a non uscire più dal sistema che essi stessi contribuiscono a sostenere.

Si pone qui il problema della scelta e del rischio.

Si può scegliere di estraniarsi dal sistema, ma ciò comporta, in primo luogo avere coscienza dell’illusione di cui si è oggetto, il che è già di per sé raro; in secondo luogo anche la sempre più rara consapevolizzazione di tale illusione e la decisione, la volontà, il desiderio di volersi svegliare da essa per cogliere la realtà quale essa è veramente, comporta un rischio a cui pochi sono disposti e spesso impossibilitati ad esporsi, e per ragioni fondate (che ora esporremo), non lo metto in dubbio.

Il proletario con famiglia, con un mutuo sulle spalle, che – resosi conto del raggiro capitalistico – decidesse di arrischiarsi all’attività personale, lasciando un sicuro posto dipendente con un salario mediocre ma stabile, sarebbe definito uno scellerato, un irresponsabile. Egli sarebbe avvolto da una quantità enorme e ineludibile di responsabilità, di doveri – se non altro verso gli altri, verso i suoi cari – che costituiscono essi stessi parte degli anelli delle catene che lo costringono a rimanere a far parte del sistema stesso, se pur egli abbia tutta la volontà di liberarsene. Però non può, perché egli non è una cosa, ha dei sentimenti, degli affetti, dei doveri, è un essere umano e come tale, non basa la sue decisioni unicamente sul profitto personale, sull’utilità, come il suo padrone fa con lui trattandolo come cosa. L’essere “umano” è la sua debolezza, diciamo così; debolezza della quale il suo padrone è ben consapevole e di cui ben sa servirsi per continuare a schiavizzarlo. La cosa “operaio” è disposta a disumanizzarsi – e proprio in questa disponibilità a disumanizzarsi, vale a dire a rinunciare alla sua essenza costitutiva, a riporla in un angolo di sè, risiede la sua umanità –, a vendersi, se non per se stesso, per quei sentimenti che lo legano ai suoi cari; se non per la propria felicità, perlomeno in virtù di non deludere le aspettative che altri ripongono in lui, anche se quelle aspettative non sono le stesse che egli stesso ripone in se stesso, o che da se stesso e per i suoi eredi si attende. Se liberarsi dalle catene comportasse un rischio personale, il venire meno della possibilità della propria sopravvivenza, il rischio della propria morte (se non fisica, perlomeno sociale) ma nella libertà, l’uomo-proletario, probabilmente sarebbe disposto ad affrontarlo. Egli però non è mai solo; è paticamente legato da rapporti, da legami umani per i quali non è disposto ad affrontare i rischi che per sé, invece, forse affronterebbe.

Il proletario è costretto a cosizzarsi proprio perché è un uomo e non una cosa ( e ciò avviene in generale nel processo più ampio del sistema consumistico che controlla la società attuale); ecco la contraddizione causa delle nevrosi, delle depressioni, delle insoddisfazioni dell’uomo moderno, con i conseguenti atti di affermazione sostitutivi come unica alternativa di distinzione, di riaffermazione della propria umanità cosizzata dal sistema, degenerati barbaramente nei fatti di cronaca che lasciano sgomenti (stupri, gare automobilistiche sulle strade urbane, lanci di sassi dai cavalcavia, ecc, ecc…) e che la sociologia spesso attribuisce alla psicologia. Ma cosa sono essi, se non le nefaste conseguenze, se non l’effetto di un sistema che costringe l’uomo ad annullarsi nel suo stesso essere, vendendo una parte di sé inscindibile dal suo essere esistente stesso come uomo: la libertà?

Ma se già l'espressione "vendere la libertà" è in contraddizione con il concetto stesso di libertà, essendo la libertà caratteristica costitutiva e sostanziale dell'essenza umana, quindi inalienabile,  e non un suo attributo (l'uomo è tale perché è libero: è questa stessa libertà); d'altro canto, il non aver altra scelta – se non la morte –, che doversi assoggettare necessariamente al potere di qualcuno per poter sopravvivere, è ancor più, in quanto negazione della libertà stessa alla vita, essere suo schiavo.

Quale modo migliore, infine, per concludere e al medesimo tempo riassumere questa mia breve riflessione, se non citando Engels quando, nell’omonimo scritto “Che cos’è il comunismo?”, alla domanda n° 7, “In che cosa il proletario si distingue dallo schiavo”, egli risponde:

Lo schiavo è venduto una volta per sempre; il proletario deve vendere se stesso giorno per giorno, ora per ora […]”.

                                     M.P.

 


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brokenheart74dgl
brokenheart74dgl il 28/02/07 alle 00:22 via WEB
Sò gia che in pochi o nesuno avrà voglia di soffermarsi a leggere questo mio scritto, ma ci tenevo a ribadire alcuni concetti in cui credo fermamente e che sono alla base del mio pensiero politico. Grazie comunque Broken
 
lady_bel
lady_bel il 28/02/07 alle 13:27 via WEB
Perchè dici questo? Primo è un bellissimo pezzo di storia, secondo è condito con il tuo ideale, terzo, ma non da ultimo,è affascinante e scritto perfettamente. Io ti ringrazio ...un bacio caro a presto!
 
 
brokenheart74dgl
brokenheart74dgl il 01/03/07 alle 01:43 via WEB
Grazie mille un bacio anke a te! ciao Broken
 
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