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« La cantinaLingerie »

Era la prima volta di ogni cosa

Post n°410 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da meninasallospecchio

 

Vi ricordate quando si iniziava a viaggiare, le prime volte, intorno ai vent'anni? Quei giri in Francia, in Provenza, in cui tutto sembrava così bello. Quei menù turistici a 50 franchi, con la soupe de poisson, l'entrecôte au poivre vert e la mousse au chocolat: il tutto con quel beaujolais da supermercato, che non ti faceva venire mal di testa solo perché eri giovane. Eppure eravamo così entusiasti. Sarà pure stato un po' meglio di oggi, e forse la disparità fra quelle cittadine ben curate, con i fiori su ogni balcone e muretto, e i nostri centri malcolci pieni di auto, era più elevata di quanto non sia ora. Ma c'era soprattutto la nostra capacità di entusiasmarci per le cose, di trovare tutto strordinariamente bello e buono.

Perché eravamo giovani? Be', sì, ha a che vedere con quello, ma non è un fatto puramente anagrafico. E' più in relazione con una certa verginità mentale, con il trovarsi di fronte a qualcosa per la prima volta, riconoscere una novità.

Da allora abbiamo mangiato in centinaia di ristoranti, buoni, cattivi, tradizionali, innovativi, libanesi, etiopi, brasiliani, macrobiotici, vegani. Alzarci da tavola con la sensazione di aver gustato qualcosa di speciale è diventata una tale rarità, che quasi ce la segniamo sul calendario.

Due anni fa a Terni mia cognata comprò dal salumiere davanti a casa la porchetta; forse lì era una porchetta qualunque, ma io così non l'avevo mai mangiata. Era la prima volta, una sensazione difficile da provare. Qualche anno prima, con amici, capitammo per caso in un ristorante sperduto in mezzo alle risaie vercellesi, Balìn si chiama. Al termine del pasto accompagnai la mia amica fuori a fumare; complice forse il buonissimo Lessona che avevamo bevuto, stringemmo la mano al cuoco, quasi commosse. Anche l'amica condivideva la mia sensazione, avevamo provato sincero entusiasmo per un pranzo al ristorante, da quanto tempo non succedeva.

Ho parlato di cibo, ma potrei parlare di qualsiasi altra cosa. Potrei parlare di relazioni sentimentali, per esempio. Forse non è la prima volta, quella che viene in mente, in questo caso; ma tante prime volte, con persone diverse. Riusciamo ancora a provare quelle sensazioni? Può darsi, qualche volta, ma non è scontato: ci vuole una fantasia, una narrazione, alla quale magari non crediamo fino in fondo, ma quel tanto che basta per tenere accesa una fiammella di emozione.

Ma non è così semplice: un conto è il doveroso disincanto dell'esperienza, un altro è la tristezza dell'apatia. Riuscire a esperire una novità dipende anche dalla propria capacità di vedere le differenze. Faccio una piccola digressione.

C'è un racconto di Calvino, si intitola L'avventura di un miope. Parla di un uomo che aveva perso interesse alla vita, tutto gli sembrava grigio, monotono e indistinto. Poi un bel giorno scopre di essere miope, mette gli occhiali e improvvisamente la realtà riacquista interesse, nel suo essere piena di piccoli particolari che prima gli sfuggivano.

Il racconto prosegue poi su un altro binario, ma mi interessa parlare di questa sensazione, che qualunque miope conosce bene. Quando metti i primi occhiali passi giornate intere a leggere insignificanti lettere o numerini il più distante possibile. Osservi miriadi di dettagli di cui non sapevi o non ricordavi l'esistenza. Tutto il mondo diventa pieno di elementi che catturano la tua attenzione.

Esiste anche la miopia dell'intelletto, delle relazioni, delle emozioni. Quella di chi magari a vent'anni, ma anche a trenta o perché no, a cinquanta, crede di aver già visto o provato tutto. Di chi vede tutto uguale e indistinto, insignificante e privo di interesse. Una miopia che può derivare tanto dall'ignoranza quanto dalla depressione e che, insieme a quella perdita di verginità di cui parlavo, sfocia in una vecchiaia precoce e infelice.

Gli occhiali dell'intelletto si chiamano cultura, ma non soltanto sapere delle cose, piuttosto saper usare quello che si conosce per capire il mondo. Forse sarebbe più giusto chiamarla sapienza. E' quello che ti permette di distinguere le cose, di vedere il particolare, di capire quanto non sai, di provare interesse.

Forse perché sono fondamentalmente un'ottimista o forse ancora di più perché ho dei buoni occhiali con un campo visivo piuttosto ampio, la mia vita è ancora piena di prime volte, di piccoli entusiasmi. Un film, un libro, la scoperta di un autore. Certo, diventa sempre più difficile. Frasi come "non è un granché", "niente di speciale", "è come quell'altro", "è sempre la solita storia", escono sempre più facilmente. E non sono una che lo fa per snobismo, anzi. Cerco continuamente qualcosa per cui entusiasmarmi, che mi faccia provare emozioni.

Ecco, a un certo punto della vita ci si rende conto che quella è diventata la cosa più preziosa, le emozioni. Emozioni fragili, individuali, che si evita quasi di condividere per paura che si rompano, che finisca l'incanto. La consapevolezza che sono almeno in parte frutto di illusione non le rende meno importanti, anzi; sapere che siamo stati capaci di produrle dalla nostra mente, aumenta il loro valore, sappiamo quanto sono delicate, come bolle di sapone che seguiamo con lo sguardo finché non si sono definitivamente allontanate o distrutte. Le assaporiamo, le coccoliamo, le teniamo in vita il più possibile, le ricordiamo; e poi ne cerchiamo sempre di nuove. Ancora tante prime volte.

 
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