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Cervello

Post n°509 pubblicato il 18 Giugno 2016 da meninasallospecchio

A proposito di cervello…. sulla chat di Facebook

- temo di aver fatto una cazzata culinaria

- Tipo?

ieri baffone mi ha convinta a comprare le cervella
ma siccome gli ho detto che non le avrei mangiate ieri sera...
mi ha consigliato di impanarle e congelarle
e poi stasera buttarle in olio direttamente così
cosa che io ho fatto
congelarle intendo
e ho impanato e congelato pure una melanzana
solo che probabilmente lui intendeva che io congelassi le robe tipo su un vassoio
ma io non c'ho lo spazio nel freezer
quindi ho impilato il tutto

- Oooops

- e come prevedibile si è congelato tutto in un blocco unico

- Neanche un foglio di carta frigo tra una fetta e l'altra suppongo

carta frigo?

- 
Direi che hai fatto una cazzata

- vabbé, comunque, resami conto del problema, ho tirato fuori la roba in anticipo
ma ora sta diventando tutto molto molliccio

- Mi manca di nuovo l'ultima parola (la mia amica ha un bug sull'app Facebook per cui ogni tanto si perde l'ultima parola, ndR)

- molliccio
e tra l'altro per tempo un par di balle, è ancora tutto attaccato
non so bene che fare
un giro di microonde?
tanto mi sa che verrà una schifezza in ogni caso

Più tardi....

- Come va con la cena?
E poi soprattutto chi è baffone, il nonno di baffetto?

baffone è il macellaio della cooperativa
tutto sommato, viste le premesse, non è andata male
ho fatto troppa roba però
le cervella erano uno spettacolo, da rifare assolutamente
anche se mio figlio non ha apprezzato tantissimo
ci vogliono dei commensali più appassionati del genere

- Del.....

- genere
il problema è che non credo si possa organizzare a priori
cioè io sono andata lì e baffone mi ha proposto il cervello
non so se posso chiederlo io
a te piace?

- Sì molto

- era buonissimo, altro che fritto misto del parroco
poi magari se lo rifaccio non mi viene così
ma insomma, congelamento, incollamento, microonde
se venisse peggio mi stupirei

- Sarà stato un insieme di circostanze fortuite 

- alla peggio rifaccio la stessa ricetta 
d'altronde congelarlo permetterebbe di organizzare la serata

- Incollamento compreso?

- se necessario

-

-  comunque è facile da fare, a me hanno sempre raccontato che era un casino

- Perché, non si impana come il resto?
O magari la difficoltà sta nella cottura

- sì sì, ma mi avevano raccontato che il cervello richiedeva un'impegnativa operazione di spellatura
invece niente, è pronto così
lo tagli a fettine e lo impani
allora la domanda è: perché ho vissuto anni aspettando di mangiare un miserrimo tocco di cervello impanato alle sagre di paese ogni morte di papa?

- È un complotto
È colpa delle scie chimiche
E pure della massoneria
E senza dubbio pure dell'Isis

- sto pensando di pubblicare questa conversazione sul blog :)

- Vuoi la liberatoria?

- sì, grazie

 
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Alle origini del pippone

Post n°508 pubblicato il 05 Giugno 2016 da meninasallospecchio

La M. arrivò nel mio liceo esattamente quando cominciavo la terza. Era abbastanza giovane, ma non proprio di primo pelo: aveva comunque passato la trentina, in un’epoca in cui esistevano anche insegnanti di 25-26 anni. Ma mi viene ora il sospetto, basato su ricordi confusi, che lei pure, come me, non avesse mai insegnato. O forse sì, ma poco. Suo marito era docente universitario e credo che anche lei fosse stata in università. In ogni caso da noi era nuova.

Triennio del liceo scientifico, matematica molto diversa rispetto a quella studiata fino a quel punto. E lei parte alla grande con un metodo completamente nuovo, tutto basato sull’intuizione e sul ragionamento. Per me una folgorazione. La matematica mi era sempre piaciuta, ma quella era una cosa diversa, era amore.

A una cena di coetanei, qualche giorno fa, qualcuno ricordava la M., dicendo che era una gran stronza. Certo con lei metà della classe era rimandata. Però lo stesso denigratore, laureato in ingegneria, ha dovuto riconoscere di aver fatto Analisi Matematica al Politecnico in souplesse, grazie agli insegnamenti della M.

Certo da un punto di vista umano, era una persona problematica e umorale, non l’ideale per degli adolescenti. Però la matematica ce l’ha insegnata, cazzo se ce l’ha insegnata!

Primo compito in classe. Tre sole sufficienze: un 9, un 7 e mezzo, un 6. Il resto erano voti del tipo 1 e mezzo, 1 al 2, numeri che non si erano mai visti, fra la costernazione generale. Il mio era il 9.

Secondo compito. Metà della classe sufficiente. Io presi 8.

Terzo compito. Due terzi della classe sufficiente. Io presi 6 e mezzo. Non lo so perché. A me sembrava di aver fatto del mio meglio, ma probabilmente c’era qualcosa che io non capivo e la M. sì, come forse succede adesso fra me e i miei studenti. Non era mia intenzione contestare il voto, ma soltanto chiedere spiegazioni su quello che avevo sbagliato. Non era un 2, eh, era un 6 e mezzo. A certi miei compagni i genitori avrebbero comprato il motorino, con un 6 e mezzo.

Comunque andai alla cattedra per chiedere dei miei errori. La M. non prese la mia domanda in alcuna considerazione, si limitò a trattarmi in malo modo. Blandamente tentai di insistere. Mi beccai allora una severa reprimenda che culminò con queste parole, me le ricordo come fosse ieri:

“… perché ricordati che quando uno ha un cervello, e tu sembrava che ce l’avessi – dico sembrava, perché adesso non ne sono più tanto sicura – quando uno ha un cervello, ha il dovere di usarlo, per se stesso e per gli altri, e soprattutto per gli altri”.

Minchia. Ho sempre usato il mio cervello, o quello che ne resta 38 anni dopo, per me stessa, di questo sono certa. Per gli altri non so, forse soltanto adesso, insegnando, ho la sensazione di fare qualcosa per gli altri.

Tornai a posto con le orecchie basse, senza peraltro capire cosa avevo sbagliato e perché. Credo di non aver più preso voti sotto all’otto dopo di allora. Ancora non so cosa sia successo o cosa lei abbia pensato fosse successo. Quello che capii però è che c’erano su di me delle aspettative elevate e che questo aveva in qualche modo a che fare con dei cazzi amari di responsabilità. Perché se altri dovevano confrontarsi con le loro difficoltà, io avrei dovuto sempre cozzare contro questa necessità di essere all’altezza. Che è la richiesta più dura e più efficace che si possa fare a un adolescente. Che è quello che la M. chiedeva a me e io chiedo agli studenti.

Ed è per questo che faccio i pipponi come lei.

 
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Il super-pippone moralista

Post n°507 pubblicato il 01 Giugno 2016 da meninasallospecchio

L’altro giorno sono entrata in una classe… Scusate, ultimamente parlo solo di scuola. E’ che di sesso non ho tanto da dire. Vabbé, dicevo. Sono entrata in una classe e, consegnando le ultime verifiche, ho attaccato il super-pippone.

“Credevo di avervi insegnato qualcosa”, ho esordito con aria truce.

“Ma lei ci ha insegnato qualcosa”, replicano mogi i figlioli.

“Insomma”, ho continuato “io vado in giro a bullarmi: i miei di seconda qui, i miei di seconda là, i miei di seconda questo manco lo vedono.”

E poi più incazzata: “I miei di seconda un cavolo!! Che c’era di difficile nell’esercizio 15 della verifica?”

La verità è che li ho massacrati con la verifica che a dicembre ho dato in terza, modificandola un po’ e aggiungendo un esercizio, perché mi sembrava troppo facile. Ma questo a loro non ditelo.

“Ora non è tanto una questione di voti”, ho infierito tenendoli sulle spine prima di consegnare, “ma il fatto è che in questa classe fate troppo casino. E in mezzo al casino qualcuno rimane indietro, e a volte è qualcuno che non lo merita. Perché io vorrei poter dare 8 a tutti e così poter dire: che prof figa che sono…”

Mormorio… “Ma lei è una prof figa”.

“Silenzio! Io vorrei dare 8 a tutti, ma se do 5+ a C. la notte dormo lo stesso, perché se l’è cercata. Invece dare un brutto voto a S. o a B. sinceramente mi dispiace. In mezzo al casino quelli bravi poi se la cavano lo stesso, ma qualcuno invece si ritrova in difficoltà, per colpa degli altri. Come nella società, che quando è senza regole i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri”.

Alla fine quando ho consegnato hanno tirato tutti un sospiro di sollievo, perché in fin dei conti non era neanche così tragica. Sì, c’erano un po’ di brutti voti, qualcuno si è abbassato la media, ma arriviamo allo scrutinio quasi tutti sani e salvi.

Con le crocette mi ero segnata quanti avevano risposto giusto a ciascun punto della verifica. “Tu quoque, M., mi hai sbagliato il punto 6! “

“Ma prof, non abbiamo potuto verificare l’algoritmo al computer”

“Non serve un computer per far girare un algoritmo! Il computer ce l’hai nella testa. Perché la tecnologia è un’estensione del cervello, non una protesi!”

Bum! Mi è uscita la frase a effetto.

“Uh” reagiscono attoniti, come a dire “mò questa me la segno”.

Mi scappava da ridere. Il super-pippone. Mi sembrava di essere la M. La M. era la mia prof di matematica al liceo… ma qui ci vuole un altro post.

 
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Gli studenti che copiano

Post n°506 pubblicato il 13 Maggio 2016 da meninasallospecchio

Come probabilmente avrete capito, sono sparita dalla circolazione, fagocitata dalla mia nuova attività di insegnante. Per giunta ho una vita un tantino sovraccarica di impegni, accumulati in tempo di ozio per far fronte a un’eventuale depressione da horror vacui.

Naturalmente la mia vita da prof offre una serie di interessanti spunti di riflessione, assolutamente degni di essere bloggati, ma per lo più non ho tempo di scriverne: un giorno lo farò, di cose da raccontare ne avrei davvero tante.

Per il momento, tuttavia, vorrei sottoporre al mio gentile pubblico un’annosa questione morale che già da tempo mi attanaglia. Che fare con gli studenti che copiano? Ovviamente se li cogliessi sul fatto, la questione non si porrebbe: ritirerei la verifica all’istante e, mettendo il voto all’opera incompiuta, riserverei al lestofante la sorte che merita. Dico lestofante al singolare perché nel mio personale giudizio non dovrebbe essere sanzionato chi fa copiare, ma soltanto chi copia.

E qui apro una lunga parentesi sulla mia vita studentesca. Già, perché il bello di avere a che fare con i giovani è che ti fanno ricordare la tua, di gioventù, dando la stura a una serie di rimembranze che tenti talora senilmente di raccontare, salvo scoprire che a loro dei tuoi amarcord non frega un benemerito cazzo. Non ti resta che scriverli sul blog.

Come avrete certamente capito, la vostra autrice qui presente ha un passato da giovane di belle speranze, nonché da studentessa modello. E naturalmente ero una che faceva copiare. Che ci crediate o no, il mio forte era il latino. Nel banco davanti al mio c’era un compagno abbastanza cretino che, dieci secondi dopo l’inizio di quello che allora si chiamava compito in classe, si girava indietro bisbigliando: “La prima frase, la prima frase”. Ecchecazzo. Lasciamela prima tradurre. Non avevo ancora finito di suggerirgliela, che già si girava di nuovo: “La seconda frase, la seconda frase”. Tutto così. Comunque la mia teoria è che a copiare bisogna pure essere capaci, perché io prendevo nove e lui non ha mai preso più di sei e mezzo.

In realtà che io facessi copiare era cosa nota, tanto che la prof a un certo punto mi mise a fare il compito in classe seduta alla cattedra. Ma non fu una grande idea, perché sulla cattedra c’era il dizionario, il che dava origine a una sorta di pellegrinaggio di compagni che, fingendo di consultare il vocabolario, venivano a chiedere la mia consulenza. Ad un certo punto mi mandarono addirittura a fare il compito in classe in sala professori.

All’esame di maturità tornando dal bagno misi la brutta di matematica nel vaso del ficus, ma non so se qualcuno ne abbia beneficiato. Una volta, quando già lavoravo, conobbi a Hong Kong un collega torinese che si ricordava di me per aver copiato lo scritto di Analisi II.

Insomma, rispetto a questa faccenda del copiare avevo deciso di assumere un atteggiamento sportivo: se non vi becco avete vinto voi, se vi becco ho vinto io.

Ma anche questa non è una grande idea. In generale non sono grandi idee tutti i miei atteggiamenti da prof controcorrente. La verità nuda e cruda è che chi insegna da tanti anni sa molto meglio di me come si fa. Il che parrebbe ovvio a chiunque non fosse provvisto di una smisurata presunzione come la sottoscritta. Ma ho di buono che riconosco un’ovvietà quando ci sbatto contro e sono talora persino disposta ad ammettere di avere torto.

Il fatto è che il copiare è un po’ come le corna. Più o meno lo fanno tutti, ma finché resta occasionale, sottotraccia, senza clamore, si può anche far finta di niente. Ma ci sono dei limiti oltre i quali diventa impossibile passarci sopra. Ho questa situazione in una classe. La classe nel complesso non è affatto brillante e gli studenti migliori non sono quelli che fanno copiare. Ne deriva che le “fonti” trasmettono i loro errori ai copiatori, rendendo il tutto facilmente identificabile. Qualche errore aggiuntivo dovuto all’insipienza del copiatore fa sì che il 2 o 3 diventi magari un 5, ma raramente un 6.

Come dicevo, ho assunto questo atteggiamento che ho definito “sportivo”, suscitando tuttavia qualche malcontento fra quelli, e ci sono, che prendono 5 senza aver copiato: uno in particolare mi guarda con aria decisamente accusatoria.  All’ultima verifica ho dato quindi un esercizio A ai copiati e un esercizio B ai copiatori. Ma non è bastato. Tre delle verifiche B sono quasi identiche. A una potrei dare il beneficio del dubbio e mettere il 6 che si merita, ma sulle altre due non c’è storia. E fra l’altro, questi due disgraziati copiano dall’inizio dell’anno. I miei colleghi sostengono che, in questi casi, dividono il voto a metà. Bisognerebbe vedere se è vero, perché i prof sono parecchio bugiardi, e amano fare sfoggio di grande inflessibilità. Poi indagando un po’ si scopre che gli studenti fanno carne di porco anche di loro.

Sul registro non ho ancora scritto niente, ma ho adottato la strategia di Salomone. Ho detto: “Se uno di voi due dichiara di aver copiato dall’altro, il copiato prende 6 e il copiatore prende 2, altrimenti prendete 3 ciascuno”. Aggiungendo: “E’ dall’inizio dell’anno che copiate, adesso mi avete scocciato”. Ovviamente anche questa non è una grande idea, perché gli atteggiamenti inflessibili bisognerebbe averli dall’inizio, dopo diventano poco credibili. Ma buone idee non ne ho.

Potrei fargli rifare la verifica, ovviamente un po’ più difficile, ma tanto copierebbero di nuovo.

 
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Nativi digitali? - Istogramma di Mondrian

Post n°505 pubblicato il 25 Aprile 2016 da meninasallospecchio

La consegna era creare un istogramma con le spese mensili nell'arco di un anno.

Istogramma di Mondrian

 

 
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Nativi digitali? - Assolutamente

Post n°504 pubblicato il 24 Aprile 2016 da meninasallospecchio

Scusi se la disturbo, sono Pallino Pinco della 1X, volevo dirle che ho notato di aver caricato male i file della verifica su google drive.

Da ciò che vedo ho caricato 5 file tutti uguali, ma che presentano il lavoro esatto svolto da me solo nel foglio 1, mentre nella sezione "grafico 1" compare un grafico molto strano che non ho assolutamente creato io.
Spero che il problema sia risolvibile.
Grazie.
 
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Trent'anni

Post n°503 pubblicato il 07 Aprile 2016 da meninasallospecchio

Oggi compio trent’anni. Cioè… trent’anni di lavoro. Era il 7 aprile 1986 quando cominciai a lavorare. Sinceramente non ricordo nulla del primo giorno in particolare. Ricordo invece molto bene il periodo immediatamente precedente, fino alla scelta del lavoro. Già, perché allora il lavoro si sceglieva. Ma andiamo con ordine.

Sono andata a scuola a 5 anni e, terminando gli studi in corso nell’ultima sessione dell’anno accademico, a soli 22 anni ero probabilmente la più giovane laureata in informatica del Piemonte. I miei amici si laurearono fuori corso quattro mesi dopo, alla sessione successiva, e lì per lì li invidiai. Tornando all’università per sbrigare qualche pratica e vedendo gli altri ancora intenti allo studio, mi chiesi: ma chi me l’ha fatto fare di finire così in fretta? Per fortuna avevo una risposta a questa domanda: i miei genitori. Loro me l’avevano fatto fare.

Seguì un periodo di circa un mese di quasi ozio, intervallato unicamente dai colloqui di assunzione. Dovevi soltanto guardare le lettere che i potenziali datori di lavoro ti inviavano a casa, invitandoti a contattarli per un colloquio. Li chiamavi e li incontravi, anche se il lavoro ti interessava poco, ma era un’occasione per vedere un po’ il mondo. Loro ti avrebbero preso in ogni caso (per me era abbastanza scontato, vista la mia votazione, ma in realtà lo era per tutti), e te ne andavi riservandoti di pensarci su. Se optavi per quella soluzione, non avevi che da richiamare e loro ti avrebbero accolto a braccia aperte. Se non ti facevi vivo, erano loro stessi a ricontattarti.

Il racconto di questi colloqui meriterebbe un altro post, ma ora volevo parlare in modo un po’ più leggero di quel periodo. Come dicevo, i miei amici studiavano ancora, quindi mi trovavo in un’insolita situazione di solitudine oziosa. Intrapresi pertanto due attività: la manifattura di una sciarpa ai ferri e la lettura dell’Ulisse di Joyce in inglese. Entrambe furono abbandonate non appena iniziai a lavorare poche settimane più tardi. Dell’Ulisse, che lessi anni dopo in italiano, conservo un ricordo che potrei definire “scoppiettante”: il primo capitolo, e se conoscete il romanzo sapete che lo stile accompagna la narrazione, ha la vivacità intellettuale e il sarcasmo goliardico degli studenti protagonisti dell’episodio. E la ricchezza lessicale di Joyce, sebbene all’epoca (e probabilmente anche adesso) molto al di sopra del mio inglese, era comunque affascinante e sorprendente. Non altrettanto potrei dire della sciarpa.

Quando, dopo complicati tentennamenti, presi finalmente la mia decisione, mi venne la smania di cominciare al più presto possibile. Il che comportava andare da Torino ad Alba, dove avrei dovuto espletare le pratiche necessarie per ottenere il libretto di lavoro. Esiste ancora? Credo di no, il mio giace in un cassetto. Non so da cosa fosse motivata la mia fretta, forse da imminenti vacanze pasquali, ricordo soltanto che dovevo assolutamente andare ad Alba una mattina e chissà perché non c’erano né treni né pullman.

C’era soltanto un pullman fino a Poirino, a circa metà strada, che io presi, riservandomi di fare poi l’autostop fino ad Alba, impresa invero piuttosto avventurosa. Sull’incrocio per Alba trovai un ragazzo sconsolato, che aspettava un passaggio già da parecchio. Con rinnovata fiducia sporgemmo i pollici insieme, ma passò forse una mezzora senza che succedesse nulla. Rassegnato, il ragazzo si allontanò dal ciglio della strada per andare a sedersi su un muretto, lasciandomi sola con il mio pollice teso. La prima auto si fermò. Il mio occasionale compagno di viaggio avrebbe dovuto rallegrarsi per l’esito positivo della vicenda, ma ciò nondimeno tirò giù diverse madonne.

Vedo ora che il mio libretto porta la data del 28 marzo, un venerdì, forse quel giorno stesso. Due giorni dopo era Pasqua (è meraviglioso quello che si trova in rete oggigiorno). Probabilmente per quello dovetti scaracollarmi ad Alba in tutta fretta: forse speravo di iniziare a lavorare subito dopo Pasqua; o era comunque necessario per poter iniziare la settimana seguente. In ogni caso lunedì 7 aprile 1986 fu il mio primo giorno di lavoro. Meglio non chiedersi quando sarà l’ultimo.

 
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Sapienti, specialisti e infarinati

Post n°502 pubblicato il 02 Aprile 2016 da meninasallospecchio

Ho l’impressione che la gente non si renda ben conto che la rivoluzione portata da Internet ha una tale portata che la rende paragonabile all’invenzione della stampa di Gutenberg. Anche allora ci sarà stato qualcuno che si chiedeva cosa fare con i monaci disoccupati. Qualcun altro avrà detto: “Eh, ma così i giovani d’oggi non imparano più niente a memoria, perché trovano tutto scritto dentro quei cosi, come li chiamano, libri”. “Già, staranno piegati tutto il giorno su questi libri, rovinandosi la vista e le spalle, anziché parlare fra loro”. “No, no, io mi rifiuto, di imparare a leggere non ne voglio proprio sapere”. “In questa taverna non abbiamo libri: parlate fra voi”.

Anche quando si è iniziato a utilizzare la pergamena, il papiro e poi la carta, qualcuno avrà detto che così nessun giovane sarebbe stato più capace di incidere una tavoletta d’argilla. Poi è passato del tempo e ce ne siamo fatta una ragione.

E’ un bene o un male? Boh. Sono categorie che non appartengono alla storia. Come quando mio figlio mi chiede fra Sumeri e Ittiti chi erano i buoni e chi i cattivi. Non saprei. Certo, possiamo applicare le nostre categorie morali alla storia antica come ai cambiamenti recenti, ma mi chiedo che senso abbia.

La storia della conoscenza ha avuto una grande trasformazione con la rivoluzione industriale. Nel Rinascimento, ancora fino al Settecento, esistevano i dotti, i sapienti, quelli che sapevano di matematica e di lettere, di arte e di diritto, di ingegneria e di filosofia. Leonardo costruiva macchine, dissezionava cadaveri e affrescava cenacoli. Piero della Francesca dipingeva ritratti e studiava matematica. Michelangelo scolpiva madonne, progettava cupole e scriveva poesie. La specializzazione del sapere è un’invenzione recente, funzionale al sistema produttivo così come l’abbiamo conosciuto fino al Novecento.

Ricordo ancora quando ho iniziato a lavorare, trent’anni fa. Nel mio mestiere c’erano dei guru, dei super-specialisti stimatissimi che sapevano tutto su qualche argomento specifico: tutti si rivolgevano a loro per avere lumi, piuttosto che perdere tempo consultando fumosi manuali, spesso difficilmente reperibili, senza mai la certezza che l’informazione fosse quella più appropriata.

Oggi tutto questo non serve più. Non ci serve sapere le cose, o meglio, non ci serve saperle in dettaglio. Le possiamo trovare in qualsiasi momento, quando ci occorrono, senza appesantire i nostri neuroni con un mare di nozioni insignificanti e inutili nella maggior parte delle circostanze. Quindi non è più necessario studiare? Al contrario. Ma il livello della conoscenza deve essere molto più astratto ed elevato. E i modi della conoscenza devono essere completamente diversi, in parte tutti da inventare.

Quando scrivo un post vado mille volte su Wikipedia. Spesso lo faccio per controllare l’esattezza di quello che sto scrivendo. A volte per cercare supporto a un argomento con un esempio, una citazione. Ma so quello che sto cercando. Cioè non lo so, non lo ricordo, non lo conosco nel dettaglio. Ma so che esiste, e so come cercarlo. Anche nel mio lavoro, spesso non so fare quello che dovrei. Ma che importa? In un attimo trovo tutto quello che mi serve. A che gioverebbe una competenza tecnica destinata a diventare obsoleta nel giro di un paio d’anni al massimo. Mi serve una competenza di alto livello, trasversale, interdisciplinare. Fatta anche di cultura generale, di conoscenze linguistiche, di capacità di analisi di un testo, di sintesi, di rapidità nella lettura e nel discernimento, di capacità di giudizio nel valutare l’attendibilità di una fonte.

Fare una ricerca in rete non è affatto banale. Bisogna individuare non solo delle parole chiave, ma anche un contesto che le differenzia da altre parole chiave simili: la sostanza, direbbe il filosofo, quello che fa sì che una cosa sia ciò che è. E poi bisogna distinguere l’informazione commerciale da quella di contenuto, e in quest’ultima, quella di fonte attendibile da quella raffazzonata, quella neutrale da quella partigiana, quella utile da quella inutile, quella vera da quella falsa. Bisogna approfondire senza perdersi, saper fare il backtracking, ovvero tornare sui propri passi fino all’ultimo bivio che ci stava portando sulla strada giusta e tenere a mente anche le strade sbagliate che potrebbero servirci in futuro. E poi sapersi fermare. Raccogliere le idee, sintetizzare, sedimentare, creare la propria versione. E infine scrivere, rimettere in gioco, alimentare il meccanismo.

Ho avuto tanti buoni insegnanti nel mio percorso scolastico e nella mia vita e tutti hanno contribuito a creare la mia capacità di giudizio. Ma in questo momento mi viene da pensare soprattutto a chi è stato capace di insegnarmi l’interdisciplinarità, la mescolanza dei saperi che la nostra tradizione tende improvvidamente a separare.

Insomma, serve quella “infarinatura”, un tempo così disprezzata, fatta di tante nozioni superficiali che in fondo si fa sempre in tempo ad approfondire e che ci consentono, se non altro, di navigare nella rete e nel mondo. La solidità non deve stare dentro le competenze tecniche o specialistiche, ma nel metodo, nelle capacità di logica, di valutazione e di interpretazione. 
Carneade, chi era costui? Aspetta, lo cerco con google.

 
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Nuovi generi letterari

Post n°501 pubblicato il 09 Marzo 2016 da meninasallospecchio

Pare che io abbia inaugurato un nuovo genere letterario: la nota sul registro.

L’altro giorno c’era il collegio dei docenti. Uhm… sarà meglio che spieghi a voi babbani di cosa si tratta. Ogni tanto il preside, pardon, il dirigente, convoca una riunione di tutto il personale docente, cioè dei prof, per discutere di argomenti di rilevanza topica, come ad esempio il PTOF. Il PTOF… vabbé, non fa niente, cose che voi babbani non potete capire.

Comunque. Il collegio dei docenti si svolge in una saletta nel seminterrato, denominata pomposamente aula magna. Del resto è tutto è relativo. La saletta è in realtà composta da due vani comunicanti. I secchioni si siedono davanti, mentre i cazzari allignano nelle retrovie, dove, grazie anche alla mezza parete che separa i due vani, si possono fare impunemente i cazzi propri. Non diversamente dagli studenti che studiano un’altra materia nella tua ora, infatti, anche i prof si portano compiti da correggere, tablet e smartphone con cui messaggiare. Ovviamente mi pregio di appartenere alla stirpe dei cazzari. D’altronde, che mi frega del PTOF, chissà il prossimo anno dove sarò. Ciò nondimeno partecipo scrupolosamente alle votazioni su qualsiasi argomento, prediligendo quelle a scrutinio segreto in cui posso esprimermi in modo vagamente destabilizzante.

L’altro giorno, seduta dietro di me, c’era una prof che non conosco. Tenete presente che sono lì da meno di 5 mesi. Neanche pochi, direte voi. Già, ma bisogna fare i conti con il fatto che a una certa età si è un po’ rincoglioniti. Aggiungo che nel mio caso non si tratta solo dell’età: per me l’identificazione delle facce delle persone è sempre stata un problema, anche quand’ero giovane. Ho cercato ora in rete: pare che questo disturbo si chiami prosopagnosia e ho appena fatto un test dal quale risulto senza speranza.

Vabbé, ma non è solo questo. Certi prof, con cui non abbiamo classi in comune, non li incrocio mai. Oltretutto ci sono due sale professori e ciascuno di noi abita, per così dire, in una specifica, quella dove ha l’armadietto. Al piano terra c’è la sala professori più frequentata, gente che va e viene, un porto di mare. Sopra invece c’è una saletta più intima, ma dotata di tutti i comfort, compreso un bagno interno, dove i prof possono svolgere le proprie funzioni senza mischiarsi alla plebe studentesca. Io abito in questa seconda sala, dove ho già avuto modo di farmi apprezzare dai colleghi per la proprietà linguistica del mio francese.

Ma torniamo a noi. Dicevo di questa prof che non conosco, che stava seduta dietro di me e se la rideva con il vicino di sedia. Siccome le serviva qualcosa su cui appoggiarsi per scrivere, aveva preso dalla sala professori un registro a caso, di una classe non sua. Poi, distrattamente, aveva cominciato a sfogliarlo, e a quanto pare aveva trovato la lettura di suo gradimento, al punto da condividerla con il collega. Insomma, a un certo punto sento dietro di me leggere le mie note: “Senti questa: X è sdraiato sotto al banco. E quest’altra: Y esce dall’armadio. Z si fa un selfie. Ma chi è che le scrive?”. Mi giro: “Sono io l’autrice”. “Ma sono fantastiche, dovresti scrivere un libro”.

La seconda volta che me lo sento dire. Il mio primo libro si doveva intitolare “200 km per una scopata non certa”, sugli incontri on line. Questo secondo come lo intitoliamo? Alle note sul registro non avevo ancora pensato. Mi stavo più focalizzando sullo stupidario studentesco, tipo quando gli dici di scrivere nome e cognome e loro scrivono “Nome e cognome”, oppure gli dici di scrivere la formula chimica dell’acqua e loro scrivono “Formula chimica dell’acqua”.
Pensavo di intitolarlo “Corso di informatica per allievi carabinieri”. 

 
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Lucy e l’arciere di Machiavelli

Post n°500 pubblicato il 21 Febbraio 2016 da meninasallospecchio

Parliamoci chiaro. La questione della step child adoption era stata messa lì dall’inizio per fare una trattativa con Alfano. Continuiamo a parlare chiaro. Non esiste nessuna questione di principio su questa norma del tutto marginale. Stiamo parlando di bambini che già esistono e che già vivono con due genitori dello stesso sesso: si tratta semplicemente di riconoscere i loro diritti a vivere come bambini normali. E cioè che entrambi quegli adulti che per loro sono genitori possano prenderli a scuola, assisterli in ospedale e anche pagare gli alimenti se la coppia si divide. Di che cosa stiamo parlando?

Chi contesta questa norma in realtà la usa strumentalmente per disconoscere i diritti degli omosessuali tout-court e di fatto per imporci una visione delle norme di legge nel migliore dei casi confessionale, nel peggiore decisamente fascista. L’utero in affitto non c’entra una beata. E comunque esistono paesi civili che hanno norme civili anche per la maternità surrogata, che in sé non ha niente di abominevole. Ma in ogni caso non è di questo che stiamo parlando.

Vabbè, rassegniamoci. Questa norma non entrerà nella legge. Grasso che cola, se ci sarà una legge, dopo tanti anni di testa china di fronte al Vaticano. Che cosa è successo? La step child adoption, come dicevo, è stata messa lì per dare il contentino ad Alfano. Insomma, Renzi fa come suggerito da Machiavelli, ovvero come l’arciere che volendo colpire il bersaglio, mira un po’ più in alto, perché conosce la traiettoria ad arco della sua freccia. Trama della commedia: Alfano si oppone alla legge; Renzi stralcia la step child; Alfano può sostenere di aver avuto una vittoria; Renzi può dire di aver fatto la legge.

Tutti contenti? No. I 5 stelle non hanno avuto una parte nella commedia. Allora che fanno? Ovviamente ai 5 stelle non frega un benemerito cazzo di leggi, diritti civili, omosessuali e quant’altro. L’obiettivo unico e irrinunciabile è sputtanare il PD. Impresa invero tutt’altro che titanica, visto che a sputtanarsi sono già bravi da soli. Insomma, per settimane i grillini sostengono che voteranno la legge, ma attenzione! Ribadiscono più e più volte che la voteranno soltanto ed esclusivamente se non verrà cambiata nemmeno una virgola (sottinteso step child adption). L’idea è quella di mettere in crisi la maggioranza di governo.

Ma la strategia non funziona. Renzi coglie al balzo l’idea di una maggioranza laica di sostegno alla legge, che gli consentirebbe anche di farsi bello a sinistra e Alfano non si schioderebbe dalla poltrona in nessun caso. A questo punto Grillo si accorge di aver sbagliato qualcosa e fa quella magnifica uscita della libertà di coscienza per i suoi. Coscienza? Ah sì? Ma non eravate quelli del non si cambia nemmeno una virgola?

Dietro-front. Ammazzati tutti i canguri, si torna a trattare con Alfano. Sono abbastanza convinta che finirà come doveva andare fin dall’inizio: niente step child. Non è grave. Ci penseranno i giudici, come sempre succede in Italia, a garantire i diritti che i legislatori non sono capaci di tutelare. E’ già successo con quella merda di legge 40, quella sulla procreazione assistita, il cui referendum abrogativo era stato pesantemente boicottato dalla propaganda cattolica. Anche in quel caso una cattiva legge, vessatoria nei confronti delle donne e priva di qualsiasi logica dal punto di vista medico, è stata smantellata punto per punto dalle sentenze della Corte Costituzionale.

Nel frattempo i grillini non sono riusciti a pensarne una nuova. Tornano a dire che sono disposti a votare la legge ma soltanto se non si cambia nemmeno una virgola. Ma va? Dove l’ho già sentita? Renzi menziona Lucy che toglie il pallone a Charlie Brown, citazione non felicissima perché temo che Lucy appaia simpatica e vincente nella sua crudeltà, e che in qualche modo non faccia altro che realizzare il destino sfigato di Charlie Brown. Piuttosto il tutto mi ricorda quelle vecchie pubblicità della cintura Gibaud, con gli incubi in cui una situazione spiacevole si ripeteva all’infinito. A questo punto basta che ne usciamo in qualche modo. Una legge non pienamente soddisfacente è meglio di nessuna legge. Del resto ormai in tutto il mondo civile per i gay c’è il matrimonio, mentre noi stiamo ancora al palo. 

 
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