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Un blog creato da simurgh2 il 29/04/2010

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L'Olimpiade di Ceclis

Post n°442 pubblicato il 30 Aprile 2012 da simurgh2
 

L'articolo più bello sui giornali che compro la domenica:
Pierluigi Cappello - "Ingagini su Del Piero"- sul Sole 24 Ore

" [..] Abitavo a Chiusaforte, un paese infilato in una gola e stretto lungo la statale e il fiume; le montagne alte limitavano il cielo ma liberavano l'immaginazione. Avevamo tutto il tempo per noi. Eravamo tempo. Così fu facile inventarci una nostra personale Olimpiade. L'Olimpiade di Ceclis. Il campo in cui abitavamo dopo il terremoto. Saremo stati una dozzina, non di più. Per il salto in alto avevamo messo insieme due aste; dei chiodi che qualcuno di noi aveva rubato a suo padre erano stati disposti a intervalli regolari lungo le aste e servivano da sostegno all'asticella, un pezzo di canna da pesca in fibra che si piegava al centro. Cinquanta, sessanta, settanta, ottanta centimetri erano le misure, il traguardo più ambito: un metro. Le prove di resistenza e di velocità non davano problemi: accanto al campo si apriva una braida incolta perfetta per le nostre prestazioni atletiche. Avevamo stabilito in tre giri di braida la durata della prova di resistenza, duemila metri circa, e in centoventi passi quella di velocità. Per il lancio del peso c'era una grossa pietra e il giavellotto era un bastone affilato dai nostri temperini. L'Olimpiade doveva durare due giorni: il primo giorno le semifinali, il secondo le finali. Non c'erano premi per chi avesse vinto, soltanto la stima accordata dal branco.Tra noi c'era un bambino che stava allo sport come un paracarro sta a un centometrista: non era particolarmente gracile, semplicemente non sapeva cosa fosse la coordinazione, era anche un po' tardo ma non troppo, generoso di quella generosità pura dei semplici. Nella corsa veniva spesso battuto dalle bambine, c'è sempre un bambino battuto dalle bambine; nel formare le squadre di calcio era sempre scelto per ultimo: portiere, naturalmente. Il suo soprannome: banana. È stato naturale come un lampo di giugno: ci siamo accordati a sua insaputa per fargli vincere tutte le prove della prima giornata, così, per scherzo, dicevamo tra noi. Lo abbiamo soffiato in alto in alto in alto con le nostre parole, lo abbiamo gonfiato come una mongolfiera sorridente dentro il cielo della sua vittoria. La prova più difficile da fargli vincere è stata il salto in alto: sessanta centimetri, credo. Superati dopo tre tentativi, con un bambino che reggeva l'asticella senza darlo a vedere. Quel giorno tutti noi siamo stati un'iperbole. Lo abbiamo reso celebre. Celebre a Ceclis. Il giorno dopo era una mattina ventosa di maggio. Ultimo nel salto in alto. Ultimo nel lancio del peso. Nella corsa di resistenza è stato doppiato. Lui piangeva sale e noi ridevamo. Quel bambino è diventato un ragazzo, a quindici anni un alcolizzato, a ventuno è stato disintossicato a San Daniele. Dormiva sulle panchine delle stazioni. Il suo concetto di eccellenza consisteva nel bere un bottiglione di vino il più rapidamente possibile sfiorando il coma etilico.

 

 

 

Format è una voce inglese che appartiene al linguaggio dei media: indica l'idea originale di un programma televisivo; con l'idea vengono venduti anche la relativa ricerca di mercato e un profilo stilizzato dei caratteri e dell'aspetto dei protagonisti da lanciare. Dal format le case di produzione fabbricano e scagliano in alto le loro celebrità fino a farle scoppiare. Il cinismo è lucido, il lampo notturno di uno scorpione. La differenza che intercorre tra il cinismo di una casa di produzione televisiva e il cinismo di quei bambini del '77 è che questi ultimi sono stati un'iperbole gratuitamente, senza nessun movente concreto. Con crudeltà tanto maggiore. 

(Pierluigi Cappello)

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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
simurgh2 il 30/04/12 alle 16:11 via WEB
Uno scrittore cerca di servirsi dell'iperbole con parsimonia, lo fa, di solito, quando il silenzio si raddensa in gola davanti a qualcosa di inesprimibile; è l'ultima carta da giocare per conquistare alla parola qualche lembo ulteriore di realtà. Viceversa, il linguaggio mediatico televisivo e giornalistico fa un largo uso dell'iperbole, anche in senso traslato (quando si dice: un comportamento iperbolico, un atteggiamento iperbolico), rendendo così straordinario l'ordinario e ordinario lo straordinario. C'è bisogno di una forma di celebrità buona per tutti, che partecipi del divino e del quotidiano insieme, che suggerisca l'idea che anche noi, della razza di chi rimane a terra, potremmo respirare l'aria rarefatta delle cime. Così, spinti dal soffio forte delle parole, si lanciano in alto ragazzi e ragazze di venti, venticinque anni, come fossero allegri coriandoli di carnevale, ignorando che cosa accade loro quando infilano la parabola discendente. La celebrità è un angelo di fuoco: quando si ritrae rischia di lasciarsi dietro un sentiero di cenere. Occorre una buona apertura d'ali per planare da un empireo simile senza fracassarsi al suolo. Il senso del limite si spezza come una canna di bambù. Quando dico questo penso a Pantani. Oppure a Carnera, che è stato un mito mondiale ed è rovinato al tappeto sotto i pugni di Baer prima e di Joe Louis dopo.
 
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