Creato da manonsolospine il 15/07/2008

my goooddd....

quello che succede...ma non si vede....

 

 

 
 

RITA......

Post n°624 pubblicato il 30 Dicembre 2012 da manonsolospine

Tutti dicono che il cervello sia l'organo più complesso del corpo umano, da medico potrei anche acconsentire. Ma come donna vi assicuro che non vi è niente di più complesso del cuore, ancora oggi non si conoscono i suoi meccanismi. Nei ragionamenti del cervello c'è logica, nei ragionamenti del cuore ci sono le emozioni.
Rita Levi Montalcini

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/vita/frase-122688?f=a:1840>

 
 
 

I beni dei boss non rendono nulla

Post n°623 pubblicato il 30 Dicembre 2012 da manonsolospine

Quanto rendono i beni sequestrati alle mafie? Niente. Le aziende che una volta erano dei boss non ce la fanno a sopravvivere. Le eccezioni sono rare, rarissime. Una di sicuro è quella di Pontecagnano, sulla litoranea che da Salerno scende verso sud. È un albergo ad ore. Lì, gli affari vanno sempre bene. Come prima.

Quella "roba" strappata con tanta fatica a Corleonesi e Casalesi non produce quasi mai ricchezza, l'antimafia non riesce ancora a far soldi. Al contrario genera perdite. Sempre garantite. Fino a quando è un capo della 'Ndrangheta a mandare avanti il business tutto va a gonfie vele, quando poi arriva lo Stato le imprese affogano nei debiti. Un esempio? Il famoso Cafè de Paris di via Veneto, a Roma. Era affollatissimo al tempo degli Alvaro di Sinopoli, a due anni dalla confisca uno dei locali simbolo della Dolce Vita rischia la chiusura. I numeri raccontano tutto. Su 1663 società confiscate dal 1982 - anno primo della legislazione antimafia - solo 35 sono in attivo. E per un soffio. Praticamente soltanto il due per cento.

Troppa burocrazia. Troppa indolenza. Troppo disinteresse. E troppo il tempo che passa dal sequestro di un bene alla confisca, dalla sua destinazione all'assegnazione definitiva. Cinque anni, sette, anche nove anni. Terreni che sono ormai abbandonati. Aziende finite inesorabilmente fuori mercato. Dipendenti a spasso. Con banche che revocano i fidi, assicurazioni che non assicurano più, fornitori che chiedono il rientro immediato dei loro crediti. È il fallimento italiano della (vera) lotta alla mafie. Tutto funziona perfettamente se è nelle mani dei boss, tutto va in rovina se non ci sono loro.

È il crac delle confische, delle ricchezze portate via a uomini della Cupola o del Sistema, ristoranti, fabbriche, impianti minerari, fattorie, allevamenti di polli, supermercati, agriturismi, distributori di benzina, cantine, serre, trattorie, discoteche, residence, ottiche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli.

La punta più alta di confische in Sicilia: 621 le aziende espropriate ai boss. In Campania sono 332. E 216 in quella Lombardia che, da qualche anno, si rivela la prima regione lontana dai tradizionali territori dei clan ad avere ricchezze sporche nel suo ventre.

Cosa si può fare per proteggere questo tesoro e far guadagnare le imprese non più di mafia?

"Tre cose", risponde Franco La Torre, presidente di Flare (la rete europea di associazioni contro il crimine organizzato) e figlio di Pio, il deputato del Partito comunista italiano ucciso nell'aprile del 1982 giù a Palermo per la sua grande battaglia per una Sicilia libera dai boss, artefice di quella legislazione antimafia che porta il suo nome e che ancora oggi - dopo trent'anni - resta un esempio in tutto il mondo. Quali sono le tre cose da fare? Franco La Torre: "La prima: la presenza di amministratori giudiziari competenti che siano in grado di fare il loro mestiere fino in fondo e di programmare piani a medio e a lungo termine per le aziende confiscate. La seconda: sostenere la legge d'iniziativa popolare- quella che ha lanciato la Cgil - per la tutela di tutti i dipendenti delle aziende sotto confisca e per garantire loro gli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori dei settori in crisi. La terza: utilizzare il contante sequestrato e reinvestirlo nelle attività dove si registrano le sofferenze".

L'elenco delle aziende che vanno o sono già andate in malora in pochi anni, o addirittura in pochi mesi, è infinito. C'è una mappa dei disastri da una parte all'altra dell'Italia. A Palermo c'è l'hotel San Paolo, in via Messina Marine, al confine fra Brancaccio e il porto di Sant'Erasmo, quasi difronte alla "camera della morte" dove in piena guerra di mafia i boss torturavano i loro nemici di cosca. Costruito da Giovanni Ienna per conto dei fratelli Graviano (i due, Giuseppe e Filippo, si nascondevano nella suite prima delle stragi del 1992), quest'albergo è famoso per un ascensore esterno di vetro dove i genitori accompagnavano i figli per far vedere Palermo dall'alto e perché lì, nell'"ambiente" dell'hotel e degli amici dei Graviano - nel 1993 - è stato fondato il primo club di Forza Italia in Sicilia. L'albergo oggi accumula debiti spaventosi. Una voragine.

Stessa sorte per l'azienda agricola Suvignano di Monteroni D'Arbia, in provincia di Siena. I vecchi proprietari erano i costruttori Piazza di Palermo. Un'estensione di 713 ettari, campi coltivati a grano e a orzo, uliveti, un bosco, 13 case coloniche, un'antica fornace, una villa padronale, un agriturismo, una riserva di caccia, 200 capi di suini e duemila pecore.

In rosso permanente anche gli 80 distributori di benzina sparsi fra il beneventano, l'avellinese, il casertano e il basso Lazio, tutti sequestrati ai Salzillo, quelli del "petrolio della camorra". E ancora, tanti altri beni-azienda in perdita totale. La Delfino srl di Gioia Tauro, rottami e rifiuti nel regno dei Piromalli e dei Molè. La Pio Center di Bovalino, un pezzo di sanità calabrese fra Locri e Reggio nelle grinfie dei Nirta. E poi Villa Santa Teresa di Bagheria, sequestrata all'ingegnere Michele Aiello, il re Mida della Sanità privata in Sicilia, quello che è sospettato di aver fatto da prestanome al vecchio Bernardo Provenzano e che ha contributo a trascinare in un gorgo giudiziario e a Rebibbia il governatore della Sicilia Totò Cuffaro.

Uno dei casi più clamorosi resta sempre quello della Riela Group di Catania, all'epoca della confisca - nel 1999 - la quattordicesima azienda più florida di tutta la Sicilia con un fatturato di 30 milioni di euro. Quando i titolari erano Lorenzo Riela e suo figlio Francesco (condannato all'ergastolo per omicidio), legati tutti e due ai Santapaola, i dipendenti erano 250. Oggi sono 12. I Riela hanno provato a riprendersi la loro società di trasporti con vari prestanome. E facevano tutto dal carcere con la complicità di amministratori giudiziari.

Come è possibile che una "famiglia" si possa riappropriare del bene che gli è stato sottratto dallo Stato?
"Questa della Riela Group è forse l'esempio più negativo in assoluto", dice Enrico Fontana, presidente di Libera Terra Mediterraneo, il consorzio delle cooperative che gestisce le proprietà agricole confiscate in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. E spiega: "Lo Stato ci deve mettere la faccia. Non basta sequestrare e poi gestire burocraticamente un bene, ma quel bene bisogna farlo diventare un buon esempio. La verità è che queste aziende che erano delle mafie non si possono considerare come tutte le altre, è necessario trattarle come aziende speciali. A parte le difficoltà di carattere finanziario - i lavoratori vengono messi in regola, si pagano i contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare al nero - queste imprese operano in contesti estremamente difficili. Dal sequestro in poi l'intervento su ognuna di queste aziende deve essere fatto con grande attenzione al mercato".

Ma come può un amministratore giudiziario nominato da un Tribunale fare impresa come un vero imprenditore?
Il più delle volte la gestione si rivela una sciagura. Di quelle 1663 aziende confiscate in via definitiva dal 1982 quasi la totalità sono destinate alla disfatta, alla liquidazione e alla cancellazione dai registri camerali e tributari. C'è da fare tanto. Lo Stato deve cambiare marcia. Non serve solo applicare la legge e poi abbandonare le aziende, lasciarle in mezzo ai guai economici, prigioniere degli istituti di credito, sotto ricatto, sotto minaccia della concorrenza della porta accanto, i boss ancora sul mercato.

L'anno scorso Unioncamere e Libera hanno sperimentano un sistema di governance delle aziende confiscate. Un monitoraggio per capire quali sono le emergenze più immediate e soprattutto capire come intervenire. La lista degli interventi necessari: istituire strumenti di finanza agevolata e di incentivazione fiscale, introdurre facilitazioni contributive per il mantenimento dei dipendenti, prevedere un welfare per ricollocare i lavoratori in caso di chiusura dell'attività, sostenere con aiuti la nascita di cooperative, destinare una quota del Fondo nazionale di garanzie per le piccole e medie imprese anche alle associazioni che gestiscono beni confiscati alla criminalità.

È proprio tutto nero (e in rosso) il mondo dell'imprenditoria dal passato mafioso?
"L'esperienza più virtuosa è quella della Calcestruzzi ericina", ricorda ancora Enrico Fontana mentre racconta "le perfette coincidenze" avvenute una decina e passa di anni fa a Trapani, dopo che avevano sequestrato l'impianto al capo mandamento della provincia Vincenzo Virga. Un prefetto attentissimo (Fulvio Sodano), un amministratore giudiziario molto preparato e appassionato, una cooperativa con soci capaci. Ne è venuto fuori un piccolo grande miracolo. Tutto nasce nel 1996 quando al boss tolgono la Calcestruzzi e quattro anni dopo gliela confiscano. Qualcuno ha provato a boicottarlo l'impianto, la mafia ha provato a riconquistarlo.

Ma poi le cose hanno preso un'altra piega. Per la prima volta - la vicenda non ha precedenti - l'Unipol ha concesso un mutuo ventennale di 700 mila euro senza garanzie e poi è cominciata l'avventura. "Noi ci siamo ingranditi, è la prova che se tutti lavorano bene ce la possiamo fare", dice Giacomo Messina, il presidente della nuova Calcestruzzi. Quando era di Vincezo Virga i dipendenti erano 11, dopo tanto tempo e con l'antimafia i dipendenti sono diventati 14. Hanno assunto un ingegnere ambientale, una donna per le pulizie, hanno assunto anche un nuovo autista. E allargato gli uffici. E realizzato un nuovo stabilimento per il recupero degli scarti edilizi. Un piccolo gioiello. Un'anomalia nel panorama dell'Italia che non vuole arricchirsi con i soldi della mafia.

Come quell'albergo confiscato alla camorra sulla strada che porta verso i templi di Paestum. Una clientela molto particolare. Quasi tutte coppie della zona. Molti impiegati, qualche professionista, ogni tanto si vede anche un pensionato. All'Hotel Mare ci vanno per fare l'amore. Nei dintorni di alberghi così - del genere daily use - ce ne sono almeno una dozzina. Ma l'Hotel Mare è l'unico sequestrato alla camorra. Non ci sono angosce a fine mese. Sempre in attivo.

 
 
 

I segreti inconfessabili della cronaca nera

Post n°622 pubblicato il 26 Agosto 2012 da manonsolospine

In questi giorni penso spesso al delitto perfetto. Non voglio commetterne uno e non voglio neanche che un colpevole la faccia franca per sempre. La rapina, l’omicidio o il rapimento perfetto che ho in mente sono perfetti dal punto di vista giornalistico, perché il mio amore per l’illegalità è esclusivamente passione per la cronaca nera.

Quali sono gli ingredienti del delitto perfetto? Molti cadaveri? Qualcosa di insolito a proposito delle vittime o dell’arma del delitto? Un lungo intervallo tra un delitto e l’altro che fa crescere tensione e mistero? Ovviamente tutte queste cose. Per esempio, la morte nell’arco di alcuni mesi di una serie di suore – avvelenate con l’arsenico versato nel vino della comunione – sarebbe perfetta, soprattutto se si scoprisse che l’assassina è un’ex alunna del convento che si sta vendicando per un torto immaginario subìto quand’era bambina.

Se vi sembra di cattivo gusto, permettetemi di dirvi che c’è di peggio. I sondaggi dimostrano che l’interesse dei lettori è particolarmente solleticato quando la vittima è una donna giovane e attraente. Soprattutto attraente. Se guardiamo solo le foto delle vittime di omicidio che appaiono sui nostri quotidiani, dovremmo concludere che le donne sovrappeso e con la pelle rovinata non corrono il rischio di essere uccise.

E qual è il colpevole perfetto? Ovviamente la rispettabilità è un elemento che aiuta molto. Come Agatha Christie scoprì molto tempo fa, non c’è assassino più affascinante di un piccolo borghese che cova invidie e libidini innominabili fino a quando non riesce più a contenerle. La ricchezza aggiunge un brivido in più. Ma il punto forte di ogni caso di omicidio è sempre il mistero. Niente, per esempio, è riuscito a tener vivo l’interesse per Jack lo Squartatore (su cui ogni anno vengono pubblicati nuovi libri) più del mistero della sua identità.

L’ultima volta che li ho contati, i sospettati erano 43, tra cui il figlio del principe di Galles, Lewis Carroll e il dottor Barnado, fondatore degli omonimi orfanotrofi. All’epoca degli omicidi, avvenuti tra l’estate e l’autunno del 1888, si scatenarono tutti i pregiudizi dei giornalisti e dei lettori. Si era parlato molto del fatto che le mutilazioni subite dalle vittime erano così crudeli che, come scrisse un giornale londinese, “nessun inglese avrebbe mai potuto infliggerle”, e se ne trasse questa conclusione: “Deve essere stato un ebreo”. La stampa era anche convinta che lo squartatore fosse uno straniero, e mi vergogno a dire che, tra le teorie più diffuse, c’era quella secondo cui si trattava di un “estroso italiano o francese”.

A quei tempi i giornali riferivano qualsiasi diceria sui presunti comportamenti bestiali degli stranieri o di chiunque era considerato un estraneo. Il 2 ottobre 1888 il Times pubblicò un servizio del suo corrispondente da Vienna in cui scriveva: “Uno dei metodi che usano gli ebrei per espiare il peccato di aver avuto rapporti sessuali con una donna cristiana è quello di ucciderla e mutilarla”. L’unico motivo di queste calunnie, naturalmente, erano il razzismo o i pregiudizi contro gli immigrati, che all’epoca in Inghilterra erano molto diffusi.

Grazie al cielo, quei tempi sono passati. Ma lo sono davvero? La settimana scorsa, mentre ero al festival di Internazionale a Ferrara, ho conosciuto alcune persone che curano un sito web, Occhioaimedia.org
, che raccoglie esempi contemporanei di giornalismo troppo insistente sulle origini etniche o impegnato a dipingere gli immigrati come criminali.

Qualche esempio: “Afferra e bacia una tredicenne a Roma, cinese arrestato” (Leggo, 12 giugno 2009). “Nomadi si fingevano benestanti per raggirare società immobiliari” (Resto del Carlino Civitanova Marche, 17 marzo 2009). E “un altro branco romeno stupra una ragazza. È ora di intervenire contro la violenza” (Libero, 1 febbraio 2009).

Ne potrei citare molti altri, perché il comportamento criminale è lo strumento più usato dai giornali per fomentare il razzismo. Per molti lettori e per molti giornalisti, l’ingrediente ideale di un articolo di cronaca nera non è la ricchezza, la rispettabilità o la bellezza delle vittime e degli assassini, ma il fatto che siano coinvolti degli immigrati. A quanto sembra, per troppa gente, sono loro i criminali “perfetti”.

 
 
 

Sentenza Pussy Riot

Post n°621 pubblicato il 26 Agosto 2012 da manonsolospine

Non dico che queste tre ragazzine...avranno sì e no 20 anni...siano delle santarelline,ma condannarle a due anni....mi pare eccessivo.

Hanno pure chiesto ufficialmente scusa....

La situazione è grottesca, com'è stato grottesco il processo...

Sotto il comunicato di Amnesty

 

La sentenza emessa il 17 agosto da un tribunale di Mosca, che ha condannato a due anni di carcere tre componenti del gruppo punk Pussy Riot, colpevoli di "teppismo per motivi di odio religioso", è secondo Amnesty International un duro colpo alla libertà d'espressione in Russia.

A febbraio, Maria Alekhina, Ekaterina Samutsevich e Nadezhda Tolokonnikova avevano intonato un brano di protesta all'interno della principale chiesa ortodossa di Mosca.

Amnesty International ritiene che il procedimento sia stato motivato politicamente e che le tre Pussy Riot siano state ingiustamente processate per quella che è stata una legittima, per quanto potenzialmente offensiva, azione di protesta.

L'organizzazione per i diritti umani considera Maria Alekhina, Ekaterina Samutsevich e Nadezhda Tolokonnikova prigioniere di coscienza e chiede alle autorità russe di rilasciarle immediatamente e senza condizioni.

"In risposta all'ondata di proteste che hanno accompagnato le recenti elezioni parlamentari e presidenziali, le autorità russe hanno introdotto varie misure che limitano la libertà d'espressione e di riunione. Il processo alle Pussy Riot è un ulteriore tentativo del Cremlino di scoraggiare e delegittimare il dissenso. Un tentativo che è destinato al fallimento" - ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del Programma e Asia centrale di Amnesty International.

 
 
 

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