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Il manifesto del progetto

Post n°5 pubblicato il 15 Maggio 2014 da lapresenzspettacolo
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Patapàn

                                                                                                                                             

                                                                                                    

 

     Prima di entrare nell’ambito dei tratti semantici del testo, mi piacerebbe far osservare l’armonia dell’impostazione metrica. Senz’altro, le stanze di questa canzone sono state giustapposte in maniera geniale, proseguendo con una certa libertà per quello che riguarda la forma metrica che (come nella migliore tradizione baglioniana e della poesia novecentesca, nonché della canzone italiana), spesso non rispetta i canoni della tradizione dei principali schemi di componimenti letterari come la ballata, la canzone o il madrigale. Nonostante lo schema generale sia non conforme alla tradizione, la traccia metrica aggiunge tratti significativi alla già elevata valenza semantica delle parole. Lo schema è il seguente: strofa, verso chiave camuffato (o concatenatio dantesca, naturalmente con significato traslato, in questo schema nuovo, a puro verso di unione in assonanza col patapàn del titolo, vera chiave che precede e chiude il ritornello), strofa, prima variazione, strofa, seconda variazione, concatenatio (questa volta vera e propria, con un crescendo fondamentale), ritornello, concatenatio, strofa, terza variazione, concatenatio (anche qui a mò di climax), doppio ritornello con verso chiave conclusivo. Analizzando, poi, la composizione di ogni strofa ci si rende conto che Baglioni pratica un anisosillabismo tra ottonari e novenari, modalità propria delle composizioni giullaresche o degli autori di laudi (riscontrabile nel laudario di Cortona, fino a Iacopone). In questo modo particolare di usare il novenario si può riscontrare l’intenzione di Baglioni di proporsi a giullare per lodare il papà. Una prova inconfutabile di quest’uso si potrebbe riscontrare nel fatto che nel secondo verso della prima strofa, sono lucine o sono stelle, Baglioni sposti l’accento metrico (ictus) della parola sono, cercando di marcare maggiormente la sillaba no e donando al verso un ritmo ascendente, secondo la particolarità propria del novenario giambico, col primo accento sulla seconda sillaba ed alternando giambicamente atona e tonica.

Il novenario giambico così formato va ad alternarsi con l’ottonario trocaico (cioè con primo accento sulla sillaba iniziale, secondo lo schema del trocheo latino). Ineluttabilmente, poi, quest’alternanza di ottonari e novenari (che verosimilmente dovrebbero riprodurre l’octosyllabe francese) si ripete nelle prime due strofe, visto che nelle strofe successive Baglioni introduce un senario (messo come prua, di una spinta in giù, versi che anche semanticamente sottolineano una certa confidenza col padre) tra ottonario e novenario, probabilmente per significare una certa confidenza col ricordo del padre dopo le prime battute impacciate ed anticipando ciò che avverrà nei ritornelli. Lo schema metrico delle variazioni procede con andamento lineare: settenari con ottonari tronchi per al prima e terza variazione, settenari con ottonari con dieresi finale per la seconda variazione, e con rime che seguono schemi ogni volta diversi, ma che ripropongono in più di una variazione solo egno (nella prima e nella terza variazione, non a caso il legno è il cavallo che gli permetterà di raggiungere in padre in una situazione onirica) e an (oppure am di tram, nemmeno qui a caso perché è il rumore del cavallo che galoppa verso il suo sogno di rincontrare il padre). Nel ritornello di metricamente significativo si può riscontrare l’uso dell’endecasillabo dopo il ciao pà. Sono tre endecasillabi per ogni ritornello (unici tre dell’intera canzone) e esprimono concetti fondamentali per esplicare lo stato d’animo del protagonista ed il contesto: ma quante strade di sentieri bianchi, così hai saltato giù e ora sei in volo, ma dimmi dove è che stiamo andando, con meravigliosa dialefe tra dove ed è, col cantante che sembra sprofondare in quella è con tutta la profondità della sua voce, che evidenzia l’incertezza dell’andare avanti). Terminata questa noiosissima e opinabile analisi metrica mi piacerebbe addentrarmi sul profondo significato del testo. Il testo è una dedica al padre scomparso all’inizio del 2000. In avvio si sente un suono di accordi molto bassi, come un pianoforte solo e desolato, che sembra ripetere i versi di Guccini nella canzone Quello che non quando dice: Lo senti quel suono di un piano, di un Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova. In effetti il piano sembra scordato e lontano, di sicuro sconfortato dal non riuscire a spiegarsi qualcosa. Forse è il voler comunicare di Baglioni che in lui è ancora vivo il ricordo di un bigliettino trovato in un suo vecchio pianoforte, che recava la data dell’ultima volta che il piano era stato accordato. Quella calligrafia era del padre e la tristezza di questi accordi iniziali acuisce, forse metaforicamente, la mancanza di quell’accordatore speciale (la notizia del ritrovamento del biglietto viene direttamente da Baglioni durante il suo tour Incanto tra pianoforte e voce). La prima immagine del testo ci presenta il ricordo. Si parte con una immagine richiamata da un odore che è ancora sulla pelle. Presumibilmente qui si allude al sangue del padre che scorre ancora nelle vene del figlio, per poi ricordare le domande che il figlio Baglioni rivolgeva al padre. Qui il figlio è ancora distante dal padre e la frase che unisce le prime due strofe ci spiega, con un’azione metatestuale, che si è ancora nel ricordo: quel ti ricordi pà ci fa capire che la tristezza di Baglioni non si avvede della lontananza del padre ed il tutto è ancora un inutile modo di scacciare via la tristezza tramite il ricordo. Da sottolineare la familiarità del saluto nelle canzoni di Baglioni: in Viaggiatore sulla coda del tempo (album precedente) c’era una canzone, A Clà, in cui il cantante salutava l’uomo e lo faceva quasi in romanesco, sordizzando la velare di Clà, arrivando quasi a dire A Glà. Questo succedeva soprattutto nei concerti. In Patàpan lui romanizza già la prima frase rivolta al padre e quel ti ricordi pà diventa quasi una frase dialettale. Nella seconda strofa cè una ulteriore immagine dei due che camminano ed il figlio è ancora lì che si pone domande, ancora immensamente più piccolo del padre. Sembra di rivedere l’immagine di una canzone di De Gregori, La casa di Hilde: L’ombra di mio padre è due volte la mia, lui camminava ed io correvo. In effetti il figlio, anche nella canzone di Baglioni, non riesce a stare dietro al padre, così il padre gli trova un legno. Quel legno è forse l’immagine più importante dell’intera canzone. Nel ricordo Baglioni figlio monta sul legno come si farebbe con un cavallo ed il padre lo fa galoppare, facendogli fare il rumore Patapàn. Baglioni, parlando di questo suo ultimo disco, lo ha definito una Antologia di inediti. In effetti nelle canzoni non è difficile scovare molte immagini già presenti nelle sue precedenti produzioni. Le immagini di Patapàn spesso riconducono ad una sua precedente canzone Naso di falco, contenuta nell’album Oltre del 1991. Cito da Naso di falco: si è fatto grande il piccolo guerriero legni incartati non ci son più da cavalcare sul sentiero del sole e del serpente contadino. Ora: naturalmente il serpente contadino è l’immagine della stradina di campagna presente anche qui in Patapàn (prima strofa). In Naso di falco Baglioni elenca moltissime domande che lui si faceva da bambino, ricollegabili alle prime strofe di Patàpan in cui lui pone domande al padre. In più l’immagine del legno inarcato da cavalcare fa il paio con quelli di questa nuova canzone. Direi che è lo stesso legno. Legno che ora l’adulto Baglioni non trova più (legni inarcati non ci son più) perché era solo il padre che poteva darglieli. Solo il padre poteva tendergli quella mano e, come vedremo più avanti: senza un legno adesso un pò più piano vado e spesso cado. Poi Baglioni acuisce ancora la sensazione di sicurezza che il padre gli dava, diventando tutt’uno con quella situazione, ricordandosi le corse nelle praterie quando il cuore (tam tam nel vocabolario baglioniano) gli batteva forte per l’emozione ed il marciare del suo cavallo avanzava accompagnato dall’armonia di un suono di fanfara, chiarissima metafora dell’imbattibilità e della virilità (nel senso di forza indomabile) di quel sentimento e dello stato d’animo del bambino Baglioni. Già, perché da questo momento Baglioni è completamente immerso in quella situazione. Ecco che la fanfara aumenta grazie alle braccia forti del padre (elemento che acuisce la virilità). E’ bastato un primo rumore del suo cavallo, quel primo patapàn dopo il primo schiocco. Adesso Baglioni è al galoppo (significativo foneticamente il pronunciare la parola schiocco, occhi, ginocchi storti, con consonanti occlusive che rendono l’idea del cavallo che non bada a quello che gli si para di fronte durante la cavalcata nella prateria e tra gli alberi). Qui c’è il capolavoro: nell’infinita successione dei vari patapàn (mirabilmente eseguita da una voce ritrovata come quella di Baglioni) Baglioni si libera completamente della sensazione terrena. Oramai è al galoppo e supera l’Oltre per mezzo di questo cavallo. Significativa è la canzone La piana dei cavalli bradi, dove il protagonista superava l’oltre proprio grazie alla forza selvaggia di questi cavalli. Il cavallo qui è il mezzo del ricordo lasciatogli dal padre per raggiungere la sua immagine. Magicamente ed dopo questo climax ascendente, Baglioni si trova di fronte il padre e lo saluta in tono del tutto familiare. In quel posto ci sono strade di sentieri bianchi (forse il sentiero del sole di Naso di falco), da camminare senza stancarsi mai (Paradiso?). IL figlio Baglioni vuole dimostrare al padre che adesso riesce a correre veloce: papà guarda come sono bravo sembra dire ad una figura paterna che sembra quasi assente, proprio come lo sono nel sogno le cose che sogniamo. D’improvviso però il padre resta indietro e sopraggiunge l’immagine di una croce, l’immagine di morte. Baglioni ripiomba immediatamente in terra, sotto una croce, di fronte alla croce del padre. Ci erano voluti tutti quei patapàn per raggiungerlo, ne basta uno per ripiombare giù: metafora impareggiabile della vita. A questo punto c'è una parte importantissima: il fischio. Dopo aver nominato "il tuo fischio" nel testo, il ritornello si riallaccia alla strofa successiva con un fischio melodico. Baglioni aveva già usato il fischio per l'introduzione di una sua canzone del '95 "Titoli di coda", canzone nella quale immaginava la sua morte. Nell'ultimo tour "Incanto tra pianoforte e voce", già citato, introdusse in scaletta una canzone fischiettando (si tratta di "Quante volte") e, visto che il tour era dedicato al padre, tutto sembra molto di più che una coincidenza. In modo particolare fa riflettere il fatto che questo fischio addolcisca la differenza tra il ritornello (come detto, sogno) e la strofa successiva (ricordo malinconico). Il fischio, forse, era una caratteristica del padre. Ora Claudio lo rivede in quel fischio, lo "rincorre dietro un fischio". (Grazie Elisa!) Il padre ed il figlio ora tornano a camminare in coppia solo nel ricordo. Probabilmente il figlio è di fronte alla tomba del padre. Gli sovviene l’immagine dei loro giochi e del padre che effettua una macabra finta di buttarsi giù da un burrone (o forse spingeva il figlio per finta?). Nonostante tutto, questo faceva ridere il figlio, lo faceva ridere col fiatone. Da notare che la camicia è stinta. Forse è per via del ricordo, forse è stinta perché ancora non del tutto materializzata di fronte al Baglioni figlio che sta, comunque, per ricominciare la galoppata verso il padre. Ricorda i dubbi del padre; questa volta è il padre a non riuscire a capire come mai la vita non è come un tram (immagine riconducibile a Cuore di aliante: come un viaggio in tram che ti siedi giù e è il capolinea). Di nuovo lui torna a galoppare, quasi per rassicurare il padre, per sgridarlo di aver saltato giù da quel tram o da quel ciglio di un burrone (se così fosse si svelerebbe il macabro del gioco del padre al figlio). A questo punto mi sembra doveroso fare un’altra citazione in questa canzone. La melodia delle strofe qui è simile ad un’altra canzone di Baglioni: Gagarin. Questa è una vera e propria citazione: come, infatti, Gagarin aveva sfidato Dio voltandosi a guardare la Terra, così il padre è saltato giù davvero dal burrone. Anche se non fosse questa l’interpretazione, infatti, la citazione resterebbe valida perché in Gagarin il ritornello diceva e ancora adesso io volo. Beh, quel volo è di sicuro lo stesso del padre nell’endecasillabo così hai saltato giù e ora sei in volo. Ad ogni modo, dopo aver galoppato ancora tanto per raggiungerlo, Baglioni ritrova il padre. E lontano, lui lo saluta. E lontano come nel primo ritornello. Baglioni si rende conto che adesso può finalmente correre, ma correre da solo. La realtà è un’altra cosa rispetto a quella dimensione di sogno che lui sta vivendo e, nonostante lui cerchi di reiterare il ritornello ed il sogno (riattaccando con un nuovo ciao pà, quasi per destare la sua attenzione), non può nulla. Il padre non gli dice dove è che stiamo andando e questa vita dove mai ci sta portando. Capisce che non era questo il mondo che volevano, nemmeno questo cielo (forse il Paradiso dove è salito per rincontrare il padre) è quello da loro sognato. Il sogno finisce di nuovo miseramente, non poteva durare, tutte le speranze, l’immagine del padre ed il suo galoppo cadono miseramente in volo con l’ultimo, unico e straziante patapàn. Grazie Claudio.


Recensione di

Paolo Talanca

 

 
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Il ritorno di Angelo Cecchelin

Post n°3 pubblicato il 11 Ottobre 2012 da lapresenzspettacolo
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La funzione sociale del Teatro

 

Alessio Colautti ha rimesso in scena lo splendido repertorio comico di Angelo Cecchelin

 
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Habemus Papam

Post n°2 pubblicato il 11 Ottobre 2012 da lapresenzspettacolo

di Francesco Colafemmina

Il film "Habemus Papam" può essere letto seguendo diverse direttrici. Possiamo considerarlo una riflessione sull'inadeguatezza di un uomo chiamato ad un grande compito, sull'obsolescenza delle gerarchie ecclesiastiche, sul desiderio di un uomo di religione d'essere talvolta un semplice laico, spogliandosi di tonache e mozzette. Io lo leggo, invece, come una drammatica e intellettualoide condanna del pontificato di Benedetto XVI.

La pellicola comincia infatti con le immagini della salma di Giovanni Paolo II, seguite da quelle del suo funerale. Immagini di repertorio, poco filmiche, più degne di un documentario. A queste immagini segue l'incipit della storia morettiana, con una teoria di cardinali in marcia verso la Sistina. La storia è ormai nota a tutti: viene eletto papa un anziano cardinale che ricorda Papa Giovanni. Il cardinale accetta l'incarico, ma appena il protodiacono annuncia "eccellentissimum ac reverendissimum dominum..." ecco il novello Papa prorompere in un grido orrido e scappare verso la Sistina. Il Papa, in sostanza, non ha alcuna voglia di fare il Papa. Già qui lo spettatore potrebbe chiedersi: ma perché ha accettato? E invece no... Comincia una sequela di macchiette cardinalizie (i cardinali sono sempre dei teneri vecchietti, anche troppo teneri e troppo buoni per i miei gusti) culminante nell'ingresso in scena dello psicologo Moretti. Il Papa non riesce ad aprirsi al luminare della psicanalisi e così il portavoce vaticano di origini polacche (ma dai metodi staliniani) decide di portarlo in borghese dalla moglie dello psicologo, anch'essa psicologa... E il Papa in borghese scappa e vagabondeggia per Roma, non prega e non dice messa, è in cerca di identità, finché non incontra una compagnia teatrale e si appassiona al Gabbiano di Checov, a lui noto sin dalla gioventù, quand'era appassionato di teatro.

Ora tutti sanno che Giovanni Paolo II da giovane faceva l'attore, ma questa della fuga teatrale del Papa rinunciatario non è che una soluzione a portata di mano per una trama che va letta non per le sue luci, quanto piuttosto per le sue ombre, i suoi ammiccamenti, i riferimenti alla riflessione seria del regista Nanni Moretti che non va certo confusa con l'istrionico cinismo del Moretti attore. Così ci tocca mettere in evidenza alcuni elementi che sono - paradossalmente - sfuggiti a quasi tutti i critici che hanno versato fiumi di parole su questo filmetto privo di reali ambizioni cinematografiche.

Anzitutto la prima stonatura riguarda il carattere nevrotico ed iracondo del novello Papa: abbiamo già riferito dell'urlo furibondo appena prima della proclamazione, in seguito il Papa rompe un bicchiere, risponde con fare burbero e iroso ad una commessa che gli ha appena servito dell'acqua, alterna momenti di catatonia a momenti di riflessione. In particolare, mentre questo Papa esaurito viaggia in un tram ripete ad alta voce un suo ipotetico discorso dal balcone di San Pietro, affermando: "abbiamo spesso molta paura di ammettere le nostre colpe".

Già a partire da questo elemento - le colpe della Chiesa - tutto dovrebbe cominciare a chiarirsi. Infatti poco dopo ecco che la guardia svizzera che il portavoce della sala stampa ha piazzato negli appartamenti papali facendo così credere ai cardinali ancora riuniti formalmente in conclave che il Papa è nelle sue stanze, mette in filodiffusione una canzone. Quale? Naturalmente una canzone rivelatrice: todo cambia della cantante argentina Mercedes Sosa.

Tanto per darvi un'idea del messaggio eccone riprodotta una strofa:

Cambia lo superficial
cambia también lo profundo
cambia el modo de pensar
cambia todo en este mundo.

Il cambiamento diventa così un altro elemento chiave per comprendere il senso di questo film. E infatti, mentre i cardinali a metà fra il rincoglionimento senile e l'inebetimento, battono le mani e si dondolano ascoltando la canzone, il Papa in borghese per le vie di Roma ascolta un gruppetto di giovani (ah i giovani!) che cantano la medesima canzone.

Cambiamento! La Chiesa ha bisogno di cambiamento e invece ecco una torma di cardinali nelle loro antiche vesti, legati alle etichette, confinati in palazzi dai quali non riescono ad uscire, ecco un Papa che sta stretto nella sua mozzetta e che non sopporta il collarino. Ecco il vero uomo, ecco colui la cui inadeguatezza non è un semplice fatto personale, ma è un simbolo (ecco perché il Papa non ha nome) dell'inadeguatezza di un'intera generazione di prelati a comprendere il mondo, a vivere il cambiamento dell'età contemporanea.

Ora vi domando: chi è succeduto a Giovanni Paolo II? Un cardinale chiamato Joseph Ratzinger. Per una forma di rispetto nei riguardi dell'attuale pontefice, l'attore scelto da Moretti somiglia a Giovanni XXIII, è un nonnetto bonario e un po' nevrotico. Ha la passione per il teatro - reminiscenza wojtyliana - ed è dunque molto diverso da Benedetto XVI. Tutto ciò, a mio parere, solo per non offendere la sensibilità di molti cattolici. Guarda caso però l'unico cardinale tedesco del film è un perfetto inetto, un uomo poco pratico che sembra vivere fra le nuvole...

La conclusione è delle più scioccanti. Il Papa ritornato, sotto la pressione dei cardinali, in San Pietro, si affaccia finalmente alla loggia e tiene un breve discorso alla folla festante. Cosa dirà? Beh, ormai già lo sappiamo: "oggi la Chiesa ha bisogno di grandi cambiamenti, dell'incontro con tutti e di capacità di comprensione". Ma lui non è in grado di offrire tutto questo, si sente inadeguato e quindi rinuncia. Tragedia! Sullo sfondo del Miserere di Arvo Part i Cardinali piangono e si affliggono, la folla è addolorata, la Chiesa sembra essere alla frutta, ma il film è finito.

Facciamo dunque un rewind e cerchiamo di capire cosa voglia dirci il film. Muore Giovanni Paolo II e i cardinali devono eleggere un nuovo Papa. Nessuno vorrebbe essere eletto, tutti sanno che è impossibile reggere il confronto con Karol "santo subito". Viene però eletto Papa un anziano cardinale... ma la storia si distacca dalla realtà. Non si tratta di Benedetto XVI che accetta nonostante la sua inadeguatezza e che sembrerà piombare la Chiesa in un rigido inverno con tutti i passi falsi, i casi Ratisbona e Williamson, le esternazioni sul profilattico, le affermazioni scomode, i coinvolgimenti nella copertura dei casi di pedofilia nel clero, etc. etc. No, viene eletto Papa un uomo che è consapevole di essere inadeguato, di rappresentare una gerarchia mummificata nei suoi piccoli tic, nella sua incapacità di comprendere il mondo, nel suo accontentarsi di una realtà ovattata e piena di muffa. Quest'uomo è davvero coraggioso, perché nonostante il suo turbamento e la sua depressione avrà la forza per rinunciare all'incarico. La Chiesa ha bisogno di cambiare, di venire incontro al mondo e lui non è capace di dar seguito al cambiamento.

Il sogno dell'intellighenzia non anticlericale, ma profondamente laica, che non ha in odio la Chiesa ma la vorrebbe aggiornata, la vorrebbe giovane, cambiata, contemporanea, è il sogno di Moretti che immagina un Ratzinger rinunciatario. Immagina un Papa che non abbia voglia di arrecare nuovi danni alla Chiesa attraverso la sua inadeguatezza, ma che sappia farsi da parte il giorno stesso della sua elezione.

Il film non è anticlericale, ma mi ha profondamente turbato. Mi ha turbato soprattutto sapere che la sceneggiatura di questo film è stata letta previamente da un Cardinale... E mi turba la tenerezza della stampa cattolica incapace di approfondire la lettura di un film oltre il riscontro dell'assenza di tematiche anticlericali.
La coincidenza dell'uscita del film con la data fissata per la beatificazione di Giovanni Paolo II non fa che accrescere in me la consapevolezza che Papa Benedetto XVI continua ad essere un Papa scomodo, un Papa che in molti vorrebbero cancellare dalla storia nonostante i suoi tentativi di essere compreso anche da quei "lupi" sempre pronti ad assalirlo. E questo, da cattolico, non mi fa certo gridare alla scomunica o alla censura per un intellettuale del calibro di Nanni Moretti, ma mi addolora e mi fa invocare viepiù la protezione del Signore sul nostro amato Santo Padre.

 
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Baglioni tour mondiale

Post n°1 pubblicato il 30 Aprile 2010 da lapresenzspettacolo
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Claudio Baglioni poeta dell'angoscia umana

    Le sue canzoni, il suo modo di cantare attirano come un parafulmine l'angoscia degli spettatori che producono un rito collettivo di trasfert. Lui, con i suoi acuti finali e lunghi si preoccupa di mandare tutte queste emozioni all'infinito.

 
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Teatrando

Il Teatro come opportunità

Istituto Comprensivo San Giovanni
XVI^ Distretto Scolastico
Via dei Cunicoli, 8 - Trieste

CONVEGNO:
IL TEATRO COME OPPORTUNITÀ

Venerdì 3 maggio ore 17.00 - 19.30
TEATRO BASAGLIA

Interverranno:
ORNELLA URPIS, presidente Commissione Pari Opportunità del Comune di Trieste
ASSUNTA SIGNORELLI, direttore Dipartimento di Salute Mentale - ASS n.1
PINO ROVEREDO, scrittore e autore teatrale
SABRINA MORENA, regista
MARCO TORTUL, educatore e regista Oltre quella sedia
BARBARA DELLA POLLA, attrice
ADELE PINO, assessore della Provincia di Trieste
Il teatro è… un mezzo, uno strumento, un luogo fisico, un luogo mentale, è scoperta di sé, parola, ascolto, azione, corpo, riflessione, arte, collaborazione, divertimento, superamento dei propri limiti, libertà, conoscenza, educazione, esperienza, gioco, rispetto, cultura… il teatro è una OPPORTUNITÀ.
Qual è stato e qual è oggi il ruolo del teatro nella scuola, nell’ambito delle relazioni tra uomo e donna, tra genitori e figli, tra civiltà e culture diverse che si incontrano, nella valorizzazione delle abilità e delle capacità del singolo? Che cos’è il teatro interessHante? In che modo il teatro può essere occasione di riscatto? Il convegno, aperto a tutti, sarà un’occasione di confronto sul valore dell’attività teatrale.
Info: rassegnateatrando@yahoo.it – 366.5423592

 

Colautti

 
 

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