Creato da lapresenzterzapagina il 13/04/2010
di Roberto Sinico

La mia formazione

1 Crepet

2 Corona

3 Vattimo

4 Strada

5 Totò

6 Hack

7 Bozzi

8 Bergoglio

9 Cacciari

10 Baglioni

11 Albanese

 

La Scuola è il centro del mondo

Lo Stato stesso subordina la società dello scritto alla società della parola. Esiste un'istituzione che è al di là delle istituzioni: laddove si impara a leggere gli scritti e in cui il rapporto orale appare come la condizione degli scritti: la Scuola. È qui che il mondo della storia è sospeso al logos. È qui che si realizza la condizione trascendentale di ogni storia - la luce in cui vedo la luce - la parola dal maestro all'allievo. Carlyle ha definito la Scuola - anche superiore - come il luogo in cui si impara a leggere.

Emmanuel Levinas  (1906-1995

 

Techne et Auctoritas

La Tecnica che uccide

Dopo la Natura matrigna la Tecnica maligna

          di Roberto Sinico

 

Suocere arcigne affamate di potere

La famigerata famiglia

     Papa Wojtyla in una ricerca sociologica : la famiglia muore per l'arcigno potere delle suocere Papa

     La famigerata famiglia avrà pure delle ragioni intrinseche per la sua crisi. Una di queste può essere individuata nella localizzazione del potere mondiale. Più si astrae sovraentizzandosi quello militare ed economico, più si concentra quello inter-umano nell'istituzione più cellulare, nella famiglia. Qui impera, nelle situazioni normali la sucocera. Infatti papa Wojtyla aveva coommissionato un'indagine scientifica, pubblicando i risultati sul Corriere della Sera, prontamente tolto dal giro mediatico informativo dalle gerarchie ecclesiali. Questo era l'esito del lavoro accademico: nel 90 per cento dei casi la famiglia si dissolve per colpa della suocera

 

 

 

 

Letteratura prossima

Trovato l'antidoto alla morte : riderle in faccia

Superato il pessimismo cosmico di Leopardi: la natura matrigna non può fare più tutto quello che vuole

 

Il tradimento come passatempo: la coppia fissa e' una noia

 

 

La Fame nel Mondo

Fame

 

 

Saggezza a posteriori

Post n°5 pubblicato il 25 Gennaio 2019 da lapresenzterzapagina
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Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto

 

Dalai Lama    Il pensiero del Monaco Buddhista Tibetano

 

Dalai LamaBuddismo Tibetano

 
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Il ritorno del Realismo

Post n°4 pubblicato il 27 Ottobre 2012 da lapresenzterzapagina
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L’addio al pensiero debole che divide i filosofi

Ferraris e Vattimo discutono il manifesto del "New Realism" che propone di riportare i fatti concreti al centro della riflessione
Maurizio Ferraris, La Repubblica, 19 agosto 2011

Piedi

Siamo ancora postmoderni o stiamo per diventare "neo realisti", ritornando al pensiero forte? Il dibattito filosofico è aperto. Grazie anche al convegno che si terrà a Bonn il prossimo anno sul "New Realism" a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. Il dialogo con Vattimo (che lanciò in Italia il pensiero debole con un´antologia curata con Pier Aldo Rovatti e uscita nel 1983 dove si guardava al postmoderno come ad una chiave per la democratizzazione della società, diffondendo pluralismo e tolleranza) cerca di affrontare i punti principali della questione.

FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio?

VATTIMO Che cos’è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l’appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti – economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti?

FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, è la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto è illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere è menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo è contropotere: "il milione di posti di lavoro non si è visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". È per questo che, vent’anni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione all’epoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa d’atto di un fatto vero.

VATTIMO Se si può parlare di un nuovo realismo questo, almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c’è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" – sì, lo dico senza pudore – con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito".

FERRARIS Per essere un resistente, sia pure emerito, la tua tesi secondo cui "la verità è una questione di potere", mi sembra una affermazione molto rassegnata: "la ragione del più forte è sempre la migliore". Personalmente sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l’agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l´acqua, sia la base per ristabilire la giustizia.

VATTIMO Io direi piuttosto: prendiamo atto del fallimento, pratico, delle speranze post-moderniste. Ma certo non nel senso di tornare "realisti" pensando che la verità accertata (da chi? mai che un realista se lo domandi) ci salverà, dopo la sbornia ideal-ermeneutica-nichilista.

FERRARIS Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico è sempre stato idealista, come sai bene. Quanto all’accertamento della verità, oggi c’è un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. È il 15 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse Ardeatine, è fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi "sarà poi vero? chi me lo prova?". Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi "chi lo accerta?".

VATTIMO È ovvio (vero? Bah) che per smentire una bugia devo avere un riferimento altro. Ma tu ti sei mai domandato dove stia questo riferimento? In ciò che "vedi con i tuoi occhi"? Sì, andrà bene per capire se piove; ma per dire in che direzione vogliamo guidare la nostra esistenza individuale o sociale?

FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verità è un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire più un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, è lo smascheramento, "il re è nudo"; ed è vero che il re è nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo è l’uscita dell’uomo dall’infanzia, l’emancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo è a dir poco insofferente nei confronti dell’università).

VATTIMO Chi dice che "c’è" la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c’è" qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell’aereo su cui viaggio, posso anche essere d´accordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernità rende possibili non saremo d’accordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci darà una risposta esauriente.

FERRARIS Se l’ideologia del postmoderno e del populismo è la confusione tra fatti e interpretazioni, non c´è dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sarà ben difficile constatare dei fatti. Ma c'è da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche l’esperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che l’umanità abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorità", appunto perché è uscita dall’infanzia. Se non è in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verità è un affare di potere" perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi?

VATTIMO Dici assai poco su dove cavare le norme dell’agire, essendo il modello della verità sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre l’idea che magicamente i fatti si presentino da sé. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla più sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere?

 
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La tecnica come nuova Auctoritas

Post n°3 pubblicato il 29 Marzo 2012 da lapresenzterzapagina
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Il pessimismo terreno di Umberto Galimberti

Nelle sue opere più importanti come Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente (1975), Psichiatria e Fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo (1984), Gli equivoci dell’anima (1987) e Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica (1999), Galimberti indaga il rapporto che effettivamente sussiste tra l’uomo e la società della tecnica.

Memore della lezione di Emanuele Severino (di cui è stato allievo) e di Heidegger, Galimberti sostiene che nelle condizioni attuali l’uomo non è più al centro dell’universo come intendeva l’età umanistica: tutti i concetti chiave della filosofia (individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia) dovranno essere riconsiderati in funzione della società tecnologica attuale.

Al centro del discorso filosofico di Galimberti c’è la tecnica, che secondo il filosofo è il tratto comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione.

Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo conto che il rapporto uomo-tecnica si sia capovolto, e per questo ci comportiamo ancora come l’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta.

Galimberti

Il punto cruciale sta nel fatto che tutto ciò che finora ci ha guidato nella storia (sensazioni, percezioni, sentimenti) risulta inadeguato nel nuovo scenario. Come "analfabeti emotivi" assistiamo all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità dell'organizzazione tecnica, priva ormai di qualunque senso riconoscibile. Non abbiamo i mezzi intellettuali per comprendere la nostra posizione nel cosmo, per questo motivo ci adattiamo sempre di più all’apparato e ci adagiamo sulle comodità che la tecnica ci offre. Ciò di cui necessitiamo è un ampliamento psichico capace di compensare la nostra attuale inadeguatezza.

Inadeguato non è solo il nostro modo di pensare, inadeguata è anche l’etica tradizionale (cristiana e kantiana in particolare): le diverse etiche classiche, infatti, ponevano l’uomo al centro dell’azione, per cui  Kant dice di non trattare l’uomo come mezzo ma sempre come fine. Ma oggi questo è smentito dai fatti dell’apparato, infatti l’uomo (per usare un’espressione di Heidegger) è la materia prima più importante, è ciò di cui la tecnica si serve per funzionare. La scienza , da quando  è al servizio della tecnica e del suo procedere, non è più al servizio dell’uomo, piuttosto è l’uomo al servizio della tecno-scienza e non solo come funzionario dell’apparato tecnico come gli esponenti della Scola di Francoforte andavano segnalando sin dagli anni '50, ma come materia prima. L’etica, di fronte alla tecnica, diventa pat-etica, perché come fa a impedire alla tecnica che può di non fare ciò che può? E l’etica, nell’età della tecnica, celebra tutta la sua impotenza. Infatti, finora abbiamo elaborato delle etiche in grado di regolare esclusivamente i rapporti tra gli uomini. Queste etiche, religiose o laiche che fossero, controllavano solo le intenzioni degli uomini, non gli effetti delle loro azioni, perché i limiti della tecnica a disposizione non lasciava intravedere effetti catastrofici. Anche l’etica della responsabilità che affiancò l’etica dell’intenzione (Kant) ha, oggi i suoi limiti. A formularla fu Max Weber (poi la riprese Jonas nel suo celebre teso Il principio di responsabilità) che però la limitò al controllo degli effetti "quando questi sono prevedibili". Sennonché è proprio della scienza e della tecnica produrre effetti "imprevedibili". E allora anche l’etica della responsabilità è costretta a gettare la spugna. Oggi siamo senza un’etica che sia efficace per controllare lo sviluppo della tecnica che, come è noto, non tende ad altro scopo che non sia il proprio potenziamento. La tecnica, infatti, non ha fini da realizzare, ma solo risultati su cui procedere, risultati che non nascono da scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle risultanze delle sue procedure.

Motore

Per Galimberti viviamo in una società al servizio dell’apparato tecnologico e non abbiamo i mezzi per contrastarlo, soprattutto perché abbiamo la stessa etica di cent’anni fa: cioè un’etica che regola il comportamento dell’uomo tra gli uomini. Tuttavia quello che oggi serve è una morale che tenga conto anche della natura, dell’aria, dell’acqua, degli animali e di tutto ciò che è natura.

Riprendendo importanti autori come Marx, Heidegger, Jaspers, Marcuse, Freud, Severino e Anders e coinvolgendo discipline quali l’antropologia filosofica e la psicologia , Galimberti sostiene che oggi l’uomo occidentale dipende completamente dall’apparato tecnico, è un uomo-protesi come sosteneva già Freud, e questa dipendenza non sembra potersi spezzare. Tutto rientra nel sistema tecnico, qualsiasi azione o gesto quotidiano l’uomo compie ha bisogno del sostegno di questo apparato. Ormai viviamo nel paradosso, infatti se l’uomo vuole salvare se steso e il pineta dalle conseguenze del predominio della tecnica (inquinamento, terrorismo, povertà, etc.) lo può fare solo con l’aiuto della tecnica: progettando depuratori per le fabbriche, cibi confezionati, grattacieli antiaerei e così via. Il circolo è vizioso e uscirne, se non impossibile, sembra improbabile, visto soprattutto la tendenza delle società occidentali. Una speranza sarebbe quella di riuscire a mantenere le differenze tra scienza e tecnica; se riusciamo a salvaguardare una differenza tra il pensare e il fare, la scienza potrebbe diventare l´etica della tecnica. La tecnica procede la sua corsa sulla base del "si fa tutto ciò che si può fare". La scienza, che è il luogo pensante, potrebbe diventare, invece, il luogo etico della tecnica. In questo senso va recuperato il valore umanistico della scienza: la scienza al servizio dell’umanità e non al servizio della tecnica. La scienza potrebbe diventare il luogo eminente del pensiero che pone un limite. Perché la scienza ha un´attenzione umanistica. Promuove un agire in vista di scopi. Mentre la tecnica è un fare senza scopi, è solo un fare prodotti.

Il valore più profondo del pensiero di Galimberti consiste, appunto, nel tentativo di fondare una nuova filosofia dell'azione che ci consenta, se non di dominare la tecnica, almeno di evitare di essere da questa dominati.

 

 

 

 
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Dietro l'ipocrita apparenza

Post n°2 pubblicato il 28 Marzo 2012 da lapresenzterzapagina

Piera degli Esposti, regina di Tutti pazzi per amore

   Il malefico grugno storpiato da un sorriso sarcastico e diabolico è quanto di più esaltante ha proposto il film che la Rai mette in onda su Rai Uno la domenica sera. Il significato simbolico delle sue irruzioni fredde ed impetuose, a scalciare le lamentose dipendenze di figlie e marito, rimandano alla sua esperienza pasoliniana di Medea. Madre ambivalente, che da la vita ed uccide, senso tragico greco che ha il suo corrispettivo contemporaneo in una tragedia minima e nauseante, che parla di bisogni, aspettative, affermazioni dell'ego ad ogni costo. Madri che vogliono figli, i quali rappresentano allo stesso tempo un limite a loro stesse, non unìevoluzione. E, Piera, con saggia femminilità matura le taccia e le castra all'origine assumendo con fierezza su di se il titolo di Crudelia Demon

 


 

 
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La sofferenza umana

Post n°1 pubblicato il 14 Aprile 2010 da lapresenzterzapagina
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              Il senso di colpa

"Mi sento in colpa…" non è solo un modo di dire piuttosto ricorrente. Il senso di colpa è qualcosa di molto profondo, a volte un sentimento molto doloroso e alla base di gravi problemi e disturbi. Il senso di colpa arriva a determinare le nostre azioni, le nostre scelte, la nostra vita. Abbiamo intervistato la D.ssa Mazzilli, psicologa e psicoterapeuta, per cercare di approfondire l'argomento, e magari di individuare qualche soluzione alle situazioni più diffuse e ricorrenti.

Cosa è il 'senso di colpa' ammesso che sia possibile definirlo in poche righe? Il senso di colpa è una emozione che permette di contenere le pulsioni distruttive e di prendere coscienza della sofferenza dell'altro. Identificato in questa modalità può avere anche sfumature costruttive perché mette in guardia qualora si stiano oltrepassando i limiti, costringe ad una messa in discussione e ad un'assunzione di responsabilità. Il senso di colpa, sperimentato spesso da ogni persona sensibile e responsabile, è un meccanismo della coscienza che, se non è deformato, segnala un disagio e ci rimprovera quando facciamo qualcosa che infrange il nostro codice morale, perseguitandoci fino a quando non ci attiviamo per rimediare con un gesto  Cercare di "evitare" il senso di colpa, significa comportarsi in modo da evitare di fare del male ad un'altra persona. Il senso di colpa è una reazione naturale ad una nostra azione cattiva, illecita, crudele o disonesta: una volta riconosciute le proprie responsabilità e prese le misure correttive, il campanello d'allarme della mente ha terminato la sua funzione.

Tuttavia può succedere che la colpa non sia collegata ad un atto specifico, ma nasca da un senso di inadeguatezza non compreso, da un senso di incapacità, di malessere non chiaro, può cioè scaturire da scenari più profondi della nostra interiorità, non necessariamente associati all'esperienza di vita pratica, trasformandosi in un'angoscia legata alla convinzione di essere inadeguati, inferiori, incapaci di essere amati e apprezzati.

Si parla di senso di colpa e si pensa anche all'educazione religiosa che abbiamo avuto da bambini e che (esperienza personale) molto ha fatto per inculcare e rafforzare il senso di colpa. Quanto dipende, il senso di colpa, dal tipo di educazione ricevuta, e dal tipo di cultura religiosa a cui si appartiene? E' certamente interessante notare come l'educazione religiosa cattolica ci insegni che ognuno nasce macchiato dalla "colpa" del peccato commesso dai nostri progenitori quando disobbedirono all'ordine divino e per questo furono cacciati dall'Eden.

Senso di Colpa

Per lo psicoanalista il senso di colpa invece ha a che fare con la nostra storia personale, con le esperienze di vita fatte fin dall'infanzia. Il sentimento di colpevolezza nasce dal nostro "giudice interiore" che ci mette di fronte agli insegnamenti che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, dalla religione e dalla regole sociali, come se si dovesse pagare un prezzo in termini di sofferenza interiore per avere osato desiderare qualcosa di vietato. Infatti basta solo aver pensato di violare una "regola" per vivere una sensazione di disagio, per non sentirsi più la coscienza pulita. Il bambino impara molto presto a sentirsi in colpa per non aver soddisfatto le aspettative degli altri e spesso quando è spettatore di un divorzio, di una malattia o di una sofferenza dei genitori, si convince di essere responsabile, come se effettivamente tutto ciò che è doloroso o "negativo" fosse, per qualche ragione, colpa sua.

Il sentimento di colpevolezza può celare un senso di onnipotenza ("è tutta colpa mia!"), una specie di volontà di controllo sugli altri e su ciò che si vive, un meccanismo perverso che ci costringe a vivere nella dipendenza, lasciando agli altri il potere di liberarci. La maggior parte delle persone che si sentono "colpevoli" soffrono, in qualche modo la paura dell'abbandono, il timore di perdere un amore o l'approvazione degli altri. Il sentimento di colpevolezza infatti induce ad adottare una certa condotta in funzione della fedeltà al gruppo di riferimento, al di fuori del quale ci si sentirebbe persi. La possibilità di fare una scelta fuori dal coro spaventa, è forte la tentazione di rimanere fedeli al gruppo rinunciando a se stessi e alla propria vera identità. Crescere vuol dire anche liberarsi dai condizionamenti e dalla paura di infrangere imposizioni e regole, adottando un comportamento rispettoso verso il gruppo, ma senza rinunciare a sé.

E la famiglia? Alcuni genitori a volte fanno leva sul senso di colpa dei figli per ottenere cose altrimenti impensabili... sembra quasi che in gioventù abbiano programmato i figli a rispondere - una volta adulti ed apparentemente indipendenti - a determinate sollecitazioni, e i sensi di colpa sembrano essere molto 'gettonati' nella classifica dell'efficacia... Alcune madri sono esperte nel far leva sui sensi di colpa dei figli e sanno, meglio di chiunque altro, come ottenere da loro quello che vogliono, riuscendo a colpirli proprio là dove sono più vulnerabili. Frasi taglienti, apparentemente innocue, creano mostruosi sensi di colpa, malessere e senso di inadeguatezza e hanno il potere di trasformare il figlio in un "bambino cattivo". "E così hai deciso di andare a studiare fuori città…così non ti vedrò per mesi"…L'operazione più difficile per un figlio è quella di comprendere profondamente che è la propria mamma ad attivare una manipolazione e che non è lui ad avere torto.

Senso di Colpa

E' difficile proprio perché la madre che colpevolizza lo fa da sempre e ormai il senso di colpa si è completamente impossessato del figlio che fatica a vedere il vero e proprio abuso di potere che la madre mette in atto. Da adulto, si vedrà costretto ad affrontare la paura di essere rifiutato se non soddisfa puntualmente i bisogni della madre. E' necessario individuare l'esistenza del senso di colpa, capire cosa sta succedendo. Può succedere di sentirsi nervosi o inadeguati dopo un dialogo con i propri genitori, di avere mal di testa, di accorgersi che i loro commenti hanno il potere di spegnere ogni entusiasmo e che tutto l'impegno profuso per tentare di accontentarli non basti mai.

A volte diventa indispensabile mantenere le distanze e imparare a dire di no, ma prendere la situazione di petto potrebbe essere rischioso perché i genitori potrebbero offendersi, smettere di parlare, accumulare rancore ed infine esplodere, incatenando ancor più il figlio al proprio senso di colpa.


Quali i principali disturbi di carattere psicologico determinati da un senso di colpa?

L'indecisione che provoca continui ripensamenti ed enormi difficoltà ad adottare qualsiasi risoluzione, anche quella più banale. Quando ci si sente inadeguati, non si può tollerare di sbagliare: il senso di colpa diverrebbe insostenibile.

L'ipocondria (timore sproporzionato delle malattie) è uno dei disagi più comuni che nascono dal senso di colpa. Tutte le colpevolizzazioni seguono un ritiro di affetto che il bimbo vive come una minaccia di abbandono e di morte. Inoltre queste lo feriscono al punto da ritardare la crescita autonoma e lo costringono ad una dipendenza eccessiva dalle idee dei genitori. Nella vita adulta quel bimbo avrà paura di realizzare i propri desideri perché essi rappresenteranno una trasgressione. Il risultato sarà scegliere di rinunciarvi.

La superstizione prende vita dal senso di colpa, è una modalità difensiva allucinatoria che ha a che fare con il pensiero magico. E' come se una catastrofe fosse sempre alle porte e allora le mille attenzioni irrazionali (gatti neri, olio che si versa, rituali che si ripetono sempre uguali) servirebbero a scongiurare magicamente la disgrazia.

Grande bisogno di essere considerati e amati: maggiore è la sensazione di essere inadeguati e colpevoli, maggiore è la richiesta di considerazione totale. Molte coppie fondano il loro relazionarsi sul desiderio di ricevere dal partner quello che non si è avuto da piccoli, rivendicazioni insensate, destinate ad essere frustrate. Il risultato è un forte rancore verso il coniuge che ci delude.

L'onnipotenza è una peculiarità del pensiero infantile, si articola nella convinzione che tutti i desideri possano essere soddisfatti. A volte questa modalità persevera anche nella vita adulta, lasciando l'individuo vittima di colpevolizzazioni continue proporzionali a tutte quelle aspettative che inevitabilmente rimangono deluse e irrealizzabili.

Come fare per contrastare i sensi di colpa, quando questi interferiscono pesantemente con la nostra vita quotidiana, ci impediscono di vivere serenamente? Esiste una ricetta 'fai da te' che si può tentare di applicare? Conoscere se stessi, guardarsi dentro è sicuramente lo strumento più adatto per affrontare i sensi di colpa i quali hanno origine nell'infanzia e condannano a scontare una pena nel quotidiano in età adulta, una pena fatta di mortificazioni inutili auto inflitte. E' importante individuarne la fonte, fare pace con il proprio passato, liberandosi così di fardelli pesanti che forse non riguardano più quello che siamo o che facciamo, ma solo quello che siamo stati o che abbiamo vissuto. Questo lavoro su se stessi è una sorta di ritorno all'autenticità, uno sforzo ad essere più adesivi ai veri bisogni e desideri. Uno dei pericoli è quello di "lasciarsi vivere" orientandosi verso scelte senza ambizioni o evitando accuratamente obiettivi impegnativi.

"Ho deciso di rimanere a lavorare in questo call center… si guadagna poco ma almeno lavoro solo 4 ore al giorno…mi sento in colpa nei confronti di mia moglie che vorrebbe di più ma io preferisco così…sto più tranquillo". Queste persone si sentono inadeguate, frustrate, in conflitto tra il desiderio di migliorare la propria posizione e la difficoltà a realizzarlo. Si convincono, inconsciamente, che il loro valore dipenda esclusivamente da ciò che realizzano e non da ciò che sono e molti di loro sono stati figli di genitori troppo efficienti, dediti al lavoro e al sacrificio. La scelta della inattività o anche quella della permissività è un cuscinetto utile per ammortizzare il senso di colpa che deriva dalla incapacità di liberarsi dai propri autoritari "genitori interni". Un passo costruttivo potrebbe essere quello di cercare di accettare quell'aspetto di sé tendente alla inattività, riconducendolo anche ad un tentativo di farsi del bene. Da una parte cercare di differenziarsi dall'immagine dei propri genitori, dall'altra imparare a crearsi degli obiettivi e a pianificare ma rispettando i propri tempi.

C'è anche chi mangia tanto, specialmente cibo ipercalorico, per poi sentirsi in colpa verso se stesso e verso gli altri (percepiti come sempre pronti a giudicare). Il rapporto con il cibo ci dice qualcosa della nostra capacità di relazionarci: non sentirsi mai sazi di cibo è come non sentirsi mai sazi dell'amore che ci donano gli altri, giudicato sempre insufficiente. Si crea una grande dipendenza dagli altri e soprattutto una grande mancanza di fiducia e autostima, si mangia per riempire vuoti di affetti e ci si sente in colpa subito dopo per non riuscire ad aderire ai canoni dettati dalla società in tema di immagine. E'raro gustare un pasto come momento di puro piacere, nella maggior parte dei casi si finisce per non conoscere affatto i propri cibi preferiti così come si ha difficoltà a scegliere partner o amicizie che veramente fanno stare bene.

Un altro comune senso di colpa è legato al vissuto di quei figli che non si occupano dei genitori anziani: chi decide di non vivere con i propri genitori anziani può sentirsi ingrato o "traditore" (e spesso immagina che un giorno sarà abbandonato a sua volta, giusta punizione per il suo egoismo). Se il tempo dedicato ai propri genitori, per necessità o per scelta, è poco, è importante far sì che diventi comunque un momento intenso, interamente dedicato a loro. Non è raro a decidere di tenere con sé l'anziano genitore, sia proprio quel figlio che è stato trattato meno bene, il quale, spinto da un desiderio inconscio di ricevere quell'amore che è mancato, crede di poterlo finalmente ottenere offrendo le sue cure. I figli sufficientemente amati, sono meno condizionati da questo tipo di desiderio profondo.

Senso di Colpa

Le madri che lavorano si possono sentire in colpa per il fatto di lasciare i propri bimbi da soli tanto tempo. Gli effetti di questo tormento si possono osservare nella perdita di autostima e di interesse per il lavoro, nella somatizzazione, nell'aggressività o, a volte, nella smisurata indulgenza verso i figli. A volte si fa l'errore di non accettare la vita che si è scelta e rimproverarsi è più facile che prendere coscienza di quello che si desidera davvero: "Perché sono rimasta incinta se sapevo che poi avrei dovuto occuparmi dei figli? Perché non ho lasciato il lavoro? Perché ho scelto di separarmi invece di restare con mio marito, in fin dei conti poteva darmi una mano con i bambini…"

In realtà, poche ore di disponibilità vera, attenta e partecipe con i propri bambini sono sicuramente più nutrienti di una presenza continua ma distratta o, peggio ancora, esclusiva e soffocante. Diventa indispensabile ingegnarsi, organizzare la propria vita migliorandola, per esempio delegando compiti, ove possibile, in casa o sul posto di lavoro, confrontarsi con altre mamme etc…L'importante è mettere a fuoco quello che si desidera davvero e riconciliarsi con il passato.

Lo stesso vale anche per quei padri divorziati che sono costretti a vedere i propri figli sporadicamente. Molti cercano di conservare la loro autorevolezza ma si sentono presto rifiutati e recitare la parte di padre-amico-permissivo li aiuta a sentire meno quel senso di colpa che nasce puntuale dalla sensazione di aver deluso le aspettative che il loro ruolo richiede. Un "buon padre" dovrebbe essere sempre presente, ascoltare i figli, incarnare "le regole", dare ottimi esempi. E se tutto questo non si raggiunge? Si ha la sensazione di aver fallito, di perdere l'amore dei propri figli. E' fondamentale rapportarsi con i propri figli non pensando all'immagine che si vuole dare loro di sé in quel momento, ma cercando di capire quello di cui hanno veramente bisogno.

E la psicoterapia? Ogni volta che viviamo una esperienza negativa, ci sentiamo all'istante giudicati colpevoli, accusati e condannati al tormento del senso di colpa che si manifesta anche nei sogni, durante la notte, non si riposa mai. Quando c'è malumore, sensazione di disagio, quando ci sentiamo tristi o nervosi vuol dire che il "giudice morale" sta lavorando dentro di noi, ci sta condannando in silenzio, per qualcosa che abbiamo fatto o pensato. Magari nemmeno ce ne accorgiamo, ma questo accade di continuo ed è impresa estremamente difficile sottrarsi alla sua ingerenza. Pochi sono momenti durante i quali il nostro giudice interno interrompe la sua attività e in questi rari casi ci sentiamo felici. Forse è impossibile arrivare a farlo tacere definitivamente, ma è fondamentale attivarsi almeno per ridurre la sua influenza. Ripeto ancora una volta l'importanza di imparare a riconoscere il senso di colpa attraverso l'introspezione, la presa di coscienza aiuta a tenerlo a bada e in questo senso la psicoterapia può essere di grande aiuto:rafforzare l'Io e renderlo il più possibile autonomo rispetto al super Io, alleggerendolo dai condizionamenti infantili.

04 Dicembre 2009

Dott.ssa Mariacandida Mazzilli, psicologa, psicoterapeuta
www.psicologiadonna.it

 

 
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