Creato da rss55mrz il 02/11/2009

cahiers de doléances

appunti sul pensiero politico

 

 

Ah, la storia, che fastidio!

Post n°21 pubblicato il 12 Agosto 2015 da rss55mrz

Vecchi e sclerotici accademici che hanno guadagnato e consolidato la loro cattedra universitaria facendo l'apologia del Risorgimento, ora vedendosi scavalcati da nuovi e approfonditi studi storici, che mettono in discussione le loro tesi, si arroccano sulle loro non più difendibili posizioni. E ancora, come allora, affermano l'unità nazionale come se essa fosse stata un ideale, il traguardo agognato e raggiunto da tutti gli Italiani seri. Poiché ovviamente sono seri solo gli Italiani liberali o tutti coloro che la pensano come loro. Che storici d'accatto! Ancora credono all'eroica impresa dei Mille e ancora ammirano il grande tessitore. Sulla storia d'Italia è quasi meglio leggere gli autori stranieri.
In fondo li capisco: essi sono come certe persone che nella loro vita hanno appreso due o tre cosette appena, che presto sono risultate utili (poiché tutti i filistei hanno l'occhio lungo per scoprire ciò che serve per far carriera), quindi comode e rassicuranti, e che soprattutto rispecchiavano la loro mentalità limitata; e a queste due o tre ideuzze rimangono attaccati saldamente per sempre, per cui finiscono per negare o odiare tutto ciò che possa metterle in discussione. E' una condizione intellettuale in cui volutamente e per pigrizia si decide di ignorare l'altrui pensiero. Ecco come sono questi storici nostrani (ma ci sono delle grandi eccezioni), che pur di non rivedere il proprio sapere - potrebbe essere faticoso o pericoloso - assumono toni arroganti e parlano ex cathedra condannando come falsi gli altrui studi senza conoscerli. Non hanno il coraggio e la convenienza per cambiare opinione; del resto disturba e destabilizza parecchio la psiche.
E' vero che nessuno storico può essere "veritiero", ma almeno il confronto, potrebbero farlo. No, nemmeno questo, preferiscono ignorare. Allora siamo migliori noi poveri docenti liceali che, raccontando il Risorgimento, facciamo un confronto tra ciò che si trova in decine di manuali scolastici e gli altri studi storici sulla questione meridionale; senza essere filo-borbonici ma nemmeno filo-savoiardi. Oppure fa bene quel nostro collega che salta a piè pari il Risorgimento, per non essere costretto a raccontare le balle scritte sui testi in adozione.
Certo, hanno difeso e continuano a difendere l'unità nazionale solo coloro che con essa hanno guadagnato qualcosa: la cricca tosco-padana e i suoi lacché meridionali. E l'aspetto pietoso di questa faccenda è che tra le fila di questi storici ci sono molti meridionali: intellettuali ben pensanti, certo, perfettamente integrati nell'efficiente Nord, di cui apprezzano ricchezza e pulizia, forse a tal punto da capire puree sostenere le ragioni di una questione settentrionale! A questi sublimi perfetti patrioti consiglio di studiare.
Solo oggi diventa possibile e necessaria la difesa dell'unità nazionale (anzi dello Stato italiano), in una situazione storica in cui per l'insipienza (non credo per sbadataggine) e il tradimento di alcuni uomini politici italiani - che hanno fatto strame della nostra Costituzione - la sovranità nazionale è stata c e d u t a alla criminale Unione europea.
E che cosa deve fare il Sud, ora che è diventato una colonia elevata al quadrato?

 
 
 

Il "Manifesto" di Ventotene e l'idea di un'Europa libera e unita

Post n°20 pubblicato il 25 Luglio 2015 da rss55mrz

Abbiamo notato che nei vari dibattiti gli intellettuali nostrani fanno un continuo riferimento al Manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nell'agosto del 1941, per giustificare o per sostenere con le stesse argomentazioni degli autori la necessità di un'unione europea.

Alcuni sono pronti a riconoscere che quella attuale non è l'Europa sognata da Spinelli e gli altri, tuttavia confermano e continuano a professare la fede europeista senza alcun dubbio.

Conviene esamiare alcuni passi del Manifesto per capire quali idee in esso contenute potevano giustificare il desiderio di una unione europea, e compendere successivamente quali forze sociali e quali condizioni future avrebbero permesso di realizzarla.

Nel Manifesto si afferma che “L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso”, tuttavia “essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.” Dunque, secondo gli estensori del Manifesto la causa delle due guerre sta nel nazionalismo. “La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo "spazio vitale" territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno”. Gli orrori che l'umanità ha dovuto subire sono da attribuire all'ideologia nazionalistica, per cui se essa vuole evitare “Questa volontà di dominio” di uno stato più forte a cui tutti gli altri sono asserviti, occorre pernsare al riordinamento dell'Europa secondo un altro ideale di civiltà. Le masse popolari dovranno essere capaci di “accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”.

L'internazionalismo dunque contro il nazionalismo, che comunque nel periodo postbellico di crisi generale dovrà scongiurare il pericolo che proviene dai ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali, i quali “cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l'ondata dei sentimenti e delle passioni internazionalistiche, e si daranno ostinatamente a ricostruire i vecchi organismi statali”.

Ciò che non avevano previsto gli estensori del Manifesto è che proprio la stessa genìa che aveva scatenato le due guerre mondiali, visti i fallimenti di questa politica aggressiva e imperialistica, decide di diventare internazionalista, di adottare l'ideologia progressista.

Giustamente si nota che: “Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali: i quadri superiori delle forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l'innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l'edificio scricchiola e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto fin'ora e le esporrebbe all'assalto delle forze progressiste”. Ma, dobbiamo constatare che queste forze reazionarie non hanno perso la loro egemonia, perché non scompaiono con il crollo dei totalitarismi, e non hanno dovuto battersi per mantenere la loro supremazia sulla masse popolari. Invece hanno saputo camuffarsi accuratamente, e questo lo rileva anche il Manifesto: “Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati, convertiti nel preciso contrario”.

Ebbene, il camuffamento geniale adottato dalle classi dominanti è proprio l'unione europea. Certo, Spinelli e gli altri non lo potevano prevedere. Ma è proprio con questa nuova ideologia che i ceti dominanti hanno soggiogato le masse, utilizzando come strumento di convinzione lo spauracchio della guerra; insomma adottando la critica al nazionalismo dei progressisti essi sono diventati internazionalisti. Un internazionalismo economico, di cui la moneta unica è lo strumento per esercitare un dominio di tipo medioevale sui popoli. Anche se, a dispetto della professata fede europeista, Germania e Francia continuano a salvaguardare il loro sacro egoismo nazionale a scapito delle nazioni mediterranee.

Viene da pensare all'accortezza usata dai ceti dominanti nell'abbracciare l'ideologia progressista, proprio quando leggiamo il pericolo paventato da Spinelli, là dove dice che “il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale”. E' questo il punto che non colgono i sedicenti intellettuali di sinistra: non è sul sentimento patriottico che i ceti dominanti faranno affidamento per convincere i cittadini a sentirsi europei, bensì sull'idea che la scomparsa degli stati nazionali (con la suggestiva e accattivante possibilità di circolare liberamente per l'Europa) avrebbe scongiurato la guerra e posto fine ai privilegi.

Le classi dominanti si resero conto che sarebbe stato impossibile, dopo due tragiche guerre, chiedere ai propri cittadini di combattere. A loro non serve più sollecitare il latente patriottismo presente nelle masse popolari, per dare sfogo a quel nazionalismo imperialista che ha dominato l'ultimo quarto dell'Ottocento e la prima metà del Novecento. Alle classi dominanti conviene addirittura appoggiare i regimi democratici o addirittura socialisti per rendere il cammino più agevole alla nuova ideologia europista. Insomma, le classi reazionarie sono rimaste al potere ma si sono ben guardate di far risorgere le gelosie nazionali.

L'abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani, obiettivo del Manifesto, di fatto è avvenuta, ma ad avvantaggiarsene non sono stati i popoli, bensì le classi dominanti di tutti i paesi dell'unione. L'idea di Europa, di cui le classi dominanti si sono servite, ha avuto lo scopo di mettere nelle mani di una ristretta oligarchia tutto il potere. Con la scusa del carattere patologico del nazionalismo, queste élite hanno smantellato, con vari trattati, quel processo storico che ha portato al sacrosanto riconoscimento dei diritti elementari a favore delle classi più povere. I trattati europei sono stati un attacco alla “democrazia”, e nel caso dell'Italia a un vero e proprio attacco alla Costituzione repubblicana. L'unità internazionale che si augurava Spinelli ha giovato alle classi reazionarie, le quali hanno avuto sempre la grande capacità di cambiare, a seconda della convenienza, la propria ideologia. Insomma, è la stessa genìa, che nel Nocento ha mandato milioni di persone a massacrarsi sul fronte, quella che ora parla di sacra unione europea. E' una forma di imperialismo interno, nei confronti di sudditi europei diventati forse troppo vicini al potere e forse un po' troppo privilegiati. L'idea di Europa è la forma attraverso cui le élite dominanti esercitano la loro lotta di classe. E questo proprio nel momento in cui anche i sedicenti intellettuali di sinistra, dopo il crollo dell'Urss e la caduta del muro di Berlino, salutavano con entusiasmo la fine delle ideologie e della lotta di classe.

L'Europa libera dal totalitarismo auspicata dal Manifesto rimane una chimera poiché attraverso lo strumento monetario coloro che hanno organizzato l'unione esercitano un regime totalitario, non più basata sul terrore, ma su vincoli legislativi arbitrari, emanati da una casta che si è arrogata tutto il potere. Ai popoli è stata negata ogni possibilità di decidere, agli Stati è stato imposto di cedere la propria sovranità che appartiene al popolo.

L'Europa così com'è organizzata, con la sua mistificatoria unione, è il martirologio dei popoli. Costretti dalle leggi europee ad eccettare un ruolo ancor più subalterno rispetto a quello a cui erano relegati i loro nonni, i cittadini non si accorgono di questo crimine perpetuato ai loro danni, anche perché intellettuali prezzolati, politici corrotti, giornalisti servi continuano ad ipnotizzarli con questa idea. L'unione europea è un crimine economico, e come la guerra farà moltissime vittime, appartenenti sempre ai ceti popolari. L'idea di Europa è un ideale assurdo perché non potrà mai essere realizzato democraticamente, poiché questa prassi politica in Europa non è stata mai possibile in tutta la sua storia, tanto meno lo sarà in futuro, viste il neofeudalesimo trionfante.



 
 
 

Pietro Verri, Primi elementi per somministrare al popolo delle nozioni tendenti alla pubblica felicità (1791-92).

Post n°19 pubblicato il 11 Novembre 2012 da rss55mrz

L’Italia geme nell’inerzia sotto il peso della falsa politica e della superstizione: Ella è l’oggetto del disprezzo dell’Europa. Questo Catechismo è scritto per gettare i semi di una conversione.

Dal dialogo primo

 

 

La rivoluzione è un cambiamento rapido ed essenziale nella forma del governo, la può fare il popolo; mentre la ribellione è l’opposizione della forza di alcuni contro la massa preponderante. La rivoluzione di un Principe porta d’ordinario alla tirannia, la rivoluzione del popolo alla libertà . La prima ha come motivo l’ambizione, la seconda l’insopportabilità dei mali.

Per quale motivo il popolo per secoli ha tollerato i governi viziosi? Per più motivi: per i pericoli che sgomentano; per l’inerzia naturale dell’uomo; per l’accorgimento col quale i governi sanno temperare i mali, isolare gli uomini e divertirli.

La rivoluzione non succede mai sintanto che i mali d’un cattivo governo non pesino più dei pericoli della fatica e dell’inquietudine.

Secondo questi principi, quanto più un popolo sarà pigro, tanto più un governo potrà crescere impunemente i sui mali? Giusto, inoltre quanto più un popolo è alieno dall’esaminare gli oggetti pubblici, tanto meno resta sensibile agli insulti di chi lo governa. L’animo non si sdegna contro l’ingiustizia e la prepotenza se non quando ha chiare idee dei propri diritti. Una nazione illuminata conosce la propria dignità e guarda con sdegno chi osa insultarla.

Perché i governi viziosi isolano gli uomini? Questa è l’arte più antica e comune del dispotismo d’introdurre una reciproca diffidenza fra gli uomini … in modo tale che non comunicando tra loro non abbiano idee chiare dei loro diritti, né sentimento ben formato della giustizia.

Perché il divertimento contribuisce ad allontanare le rivoluzioni? Il governo favorisce ogni genere di spettacoli proprio perché divertono dal pensare ai mali pubblici, e gli uomini giungono persino ad amare un governo cattivo quando questi protegge simili spettacoli.

Con quale mezzo in una nazione si propagano i lumi sulla natura della società? Per mezzo di buoni libri. Un governo cattivo proibirà la lettura dei buoni libri. Si favorirà invece la lettura e la moltiplicazione dei libri che servono per distrarre il popolo: i libri che allontanano l’uomo dal pensare e lo fissano alla semplice corteccia delle cose, sono sempre stati favoriti dai cattivi governi. L’architettura, la pittura, la musica, la molle poesia, tutte le graziose frivolità sono ottimi passatempi per tenere gli uomini nell’infanzia. Ma gli uomini e i libri che addestrano la ragione umana devono essere sempre mal veduti da un governo arbitrario.

Ai giorni nostri però abbiamo visto che Federico II e Caterina II proteggere e favorire i filosofi. La vanità di essere lodati da quegli autori, che saranno letti anche nel secolo a venire, li ha indotti a simulare benevolenza, ma la maschera è caduta ben presto. Diderot dovette assai in fretta partire da Pietroburgo; D’Alambert col pretesto dell’aria dopo poche settimane abbandonò la corte di Federico e Voltaire già aveva deciso di ritirarsi. I dispotici capiscono che la sicurezza loro dipende dalla ignoranza del popolo; e l’orgoglio di governa sempre rimane offeso da chi abbia una esistenza sua propria indipendente.

Quali semi si dovrebbero gettare nel popolo per disporlo col tempo a riformare il cattivo governo? In Francia si è scritto molto sul diritto. I Francesi dicono: gli uomini sono nati con diritti uguali, i quali sono la libertà, la sicurezza, la proprietà, e la resistenza all’oppressione. Ma riflettendo su come l’uomo nasca debole e dipendente e bisognoso di soccorso, proviamo molta difficoltà nel persuaderci che nasca libero, tanto più che la libertà non si trova nello stato della selvaggia indipendenza, ma è figlia di una buona costituzione civile; quindi sembra che l’uomo non possa considerarsi nato libero, né avente col nascere un diritto alla libertà; né alla proprietà.

Questi incerti principi si potrebbero sostituire con altri più evidenti e popolari; ne basterebbero quattro: primo, quelli che governano sono una piccola parte della nazione; secondo, la nazione è l tutto; terzo, ogni distinzione che non abbia per oggetto la pubblica utilità è un abuso e una usurpazione; quarto, allora che gli uomini sono insultati e che il governo toglie la proprietà e la tranquillità, che i sudditi non godono della sicurezza, quando non la ragione del bene pubblico ma il capriccio, la prepotenza, l’orgoglio e i vizi personali regolano la società, la resistenza è giusta e la rivoluzione è un beneficio insigne.     

Il primo passo verso una riforma è quello di fare che gli uomini governati conoscano finalmente che essi realmente sono i più forti e che la loro spensieratezza li rende soggiogati alla furberia di chi è più debole di loro. Da ciò si vede che il cattivo governo ha bisogno che la nazione sia viziosa e ignorante, e che deve temere i lumi e la virtù. Dovunque vedi un governo dispotico, qui sia certo che la nazione non ha virtù. Non vi può essere governo dispotico se non là dove ogni cittadino indifferente per il male altrui non conosca che gli interessi privati; né vi può essere Patria, che vuol dire una sociale cospirazione al ben essere di tutti.

Il primo passo per guidare una nazione schiava allo stato di libertà credo che sarebbe far nascere un principio d’onore, un infamia allo spionaggio, un pubblico ribrezzo al tradimento, un senso morale, insomma un culto pubblico di virtù. Frattanto l’oggetto dei filosofi dovrebbe attenersi a dilatare le virtù, a insinuare il ribrezzo per le azioni basse… e se anche nella letteratura venisse mostrata agli uomini la bellezza della virtù, lentamente nascerebbe una generazione migliore.

Ma la religione non ci insegna di essere sudditi ai nostri superiori e che ogni podestà viene da Dio? La nazione è più del governo, esso deve essere suddito della nazione che gli è superiore. Ogni podestà viene da Dio, ma la prima forza e podestà Dio le ha collocate nella nazione.

Se ogni azione che non abbia per oggetto la pubblica utilità è un abuso, è una usurpazione, pare però che offenda i privati diritti di molti. Che diritto ha un uomo di lagnarsi se un altro uomo si chiama nobile, conte, marchese, ecc, che male fanno alla nazione se i discendenti di chi abbia fatto delle azioni generose e utili conservano il nome? Precisiamo, io chiamo abusiva quella distinzione che si arroga un cittadino, senza che la società intera ne tragga utilità. In quel paese dove la nobiltà  sia veramente il premio delle nobili azioni, ella sarà da conservarsi. Ma la nobiltà fa danno quando rende animata l’avidità del denaro, la cabala, la bassezza, l’adulazione, e offre sempre il premio di ottenere con esse una distinzione. Bisogna che non possa essere distinto se non colui che con la persona, con l’esempio, con i suoi lumi si è fatto conoscere uomo di merito. Oggidì l’uomo più virtuoso, che non abbia natali e titoli, è calpestato dal fasto dei grandi titolati, pieni di vizi e di bassezze e d’ignoranza. Sgomberate le illusioni, aprite un campo libero alla ragione e vedrete comparire la felicità pubblica. I filosofi devono gettare i semi, il temo li svilupperà. I filosofi devono con il ridicolo, con la ragione, con il Teatro (ne è un esempio Goldoni), nei libri abbattere la chimera della nobiltà, e distruggerla, come hanno fatto delle streghe e dei maghi.

La rivoluzione però pota con se enormi disordini, come può dirsi un beneficio insigne? Vero, ogni rivoluzione è sempre accompagnata da gravi disordini, perché nel momento in cui il popolo rompe ogni riguardo, e si sottrae al governo, non vi è forza che lo moderi e l’anarchia si presenta. Ma quando il cattivo governo, soffocando i germi delle virtù, degrada le nazioni, e riduce gli uomini a dover arrossire in faccia all’Europa colta della propria patria, basta una sola scintilla di onore per sentire che una rivoluzione sarà un bene insigne, e produrrà un uovo ordine di cose, promovendo la pubblica felicità. Il tumulto, la sedizione, il furore popolare sono pubbliche disgrazie, se producono la sostituzione di un dispotismo con un altro … bisogna che da questi mali ne nasca una Costituzione. Quindi, un uomo virtuoso e illuminato, sotto un governo cattivo, deve per quanto in suo potere gettare i semi per la riforma, e lavorare acciocché gli uomini sentano la loro forza, e si prepari quindi la massa del popolo ad essere degna d’aspirare alla libertà.

E che dire di quei cittadini indolenti che sono insensibili ai mali altrui, che guardano con occhio eguale la bassezza e la generosità, se pure anche non chiamano accorgimento la prima e pazzia la seconda, uomini onorati volgarmente come prudenti? Dico che sono i veri cadaveri del corpo politico, e sono senza avvedersene i più forti nemici del bene pubblico; il loro stato di morte morale corrompe con l’esempio della pacatezza e uniformità ogni virtù civile.

Come mai questi uomini cauti, pacati, sono universalmente giudicati uomini dabbene e proposti per imitazione alla gioventù? Questo è un sintomo di una nazione corrotta e schiava. La virtù vuole che siamo giusti, e non lo è colui che considera con occhio eguale le generose azioni e le vili; che mostra rispetto a chi ha potere e trascura il merito disarmato. Questa massa di uomini volgarmente prudenti è l’argine che impedisce nella nazione l‘espansione della virtù e i progressi della ragione. Se gli usurpatori, i prepotenti leggessero sul viso dei cittadini il loro ribrezzo; se quella vivissima indifferenza che si è innalzata con il nome di prudenza non adulasse continuamente la malvagità e non avvilisse il merito, i pubblici nemici sarebbero di meno.

Anime incallite sotto il giogo della schiavitù, uomini giacenti nel letargo della abiezione, svegliatevi, mirate la virtù, la verità, la felicità pubblica; cessate di seminare con l’esempio vostro quei funesti papaveri prudenziali, che perpetuano il sonno obbrobrioso del vostro paese.     

 

 
 
 

Il Manifesto degli Eguali

Post n°18 pubblicato il 10 Novembre 2012 da rss55mrz

POPOLO DI FRANCIA

Per quindici secoli tu hai vissuto schiavo e perciò infelice. Da sei anni tu respiri a fatica nell'attesa dell'indipendenza, della felicità e dell' eguaglianza.

L'EGUAGLIANZA! primo voto della natura, primo bisogno dell'uomo, e principale nodo di ogni associazione legittima! Popolo di Francia! tu non sei stato favorito più delle al­tre nazioni che vegetano su questo globo sventurato! Sempre e dovunque la povera specie umana, abbandonata ad antropofagi più o meno astuti, servì di zimbello a tutte le ambizioni, di pastura a tutte le tirannidi. Sempre e dovunque si cullarono gli uomini con belle parole: mai e in nessun luogo con la parola essi hanno ottenuto la cosa. Da tempo immemorabile ci sentiamo ipocritamente ri­petere: gli uomini sono uguali; e da tempo immemorabile la più avvilente, la più mo­struosa ineguaglianza pesa insolentemente sul genere umano.

Da quando esistono società civili, il più bel­l'appannaggio dell'uomo è riconosciuto sen­za opposizioni, ma non si è ancora potuto rea­lizzare una sola volta: l'eguaglianza non è mai stata altro che una bella e stèrile finzione della legge.

Oggi che è reclamata a più alta voce, ci si risponde: Tacete, miserabili! l'eguaglianza di fatto è soltanto una chimera; contentàtevi dell'e­guaglianza presuntiva: siete tutti eguali di fronte alla legge. Canaglia, che più ti occor­re? Legislatori, governanti, ricchi proprietari, ascoltate alla vostra volta.

Noi siamo tutti eguali, vero? Questo principio è incontestato, perché, a meno di essere presi da pazzi, non si potrebbe dire seriamente che è notte quando è giorno.

Ebbene! noi pretendiamo ormai di vivere e morire eguali come siamo nati: vogliamo l'e­guaglianza reale o la morte; ecco quel che ci occorre.

E l'avremo questa eguaglianza reale, non im­porta a qual prezzo. Guai a quelli che trovere­mo sulla nostra strada! Guai a chi volesse far resistenza a un voto così deciso!

La rivoluzione francese è soltanto il prodro­mo d'un'altra rivoluzione, molto più vasta, molto più solenne, e che sarà l'ultima.

Il popolo ha marciato sui corpi dei re e dei preti coalizzati contro di lui: succederà lo stesso ai nuovi tiranni, ai nuovi tartufi politici assisi al posto dei vecchi.

Che cosa ci serve oltre all'eguaglianza dei di­ritti?

Ci serve che quest'eguaglianza non sia sol­tanto scritta nella dichiarazione dei diritti del­l'uomo e del cittadino, la vogliamo in mezzo a noi, sotto il tetto delle nostre case. Per essa noi acconsentiamo a tutto, a far tabula rasa per conservare essa sola. Periscano, se neces­sario, tutte le arti, purché ci resti l'eguaglian­za reale!

Legislatori e governanti, che non avete più ingegno che buona fede, proprietari ricchi e spietati, invano vi sforzate di neutralizzare la nostra santa impresa dicendo: Essi non fanno altro che riproporre quella legge agraria ri­chiesta più d'una volta prima di loro. Calunniatori, tacete alla vostra volta, e ascol­tate, nel silenzio della confusione, le nostre pretese dettate dalla natura e basate sulla giu­stizia. La legge agraria o la distribuzione delle terre fu l'aspirazione momentanea di qualche soldato senza princìpi, di qualche popolazione mossa dall'istinto più che dalla ragione. Noi tendiamo a qualche cosa di più sublime e di più equo: il bene comune o la comunione dei beni! Non più proprietà privata delle terre, la terra non è di nessuno. Noi vogliamo, noi reclamiamo il godimento comune dei frutti della terra: i frutti sono di tutti.

Dichiariamo di non poter più sopportare che la stragrande maggioranza degli uomini lavo­ri e sudi al servizio e per il piacere dell'estre­ma minoranza. Già da troppo tempo, meno d'un milione d'individui dispongono di ciò che appartiene a più di venti milioni di loro simili, di loro eguali.

Si ponga termine, infine a questo enorme scandalo che i nostri nipoti non vorranno cre­dere! Sparite infine, abominevoli distinzioni di ricchi e poveri, di grandi e piccoli, di pa­droni e servi, di governanti e governati.

Non ci sia più fra gli uomini altra differenza che quella dell'età e del sesso. Poiché tutti hanno gli stessi bisogni e le stesse facoltà, non ci sia dunque per tutti che una sola edu­cazione, un solo nutrimento. Essi si contenta­no di un unico sole e di una stessa aria per tutti: perché non dovrebbe bastare a ciascuno di loro la stessa quantità e la stessa qualità di alimenti?

Ma già gridano contro di noi i nemici dell'ordine di cose più naturale che si possa imma­ginare.

Disorganizzatori e faziosi, ci dicono: Voi vo­lete solo massacri e bottino.

 

POPOLO DI FRANCIA,

Non perderemo tempo a rispondere a costoro, ma ti diremo: la santa impresa che organiz­ziamo non ha altro scopo che di porre un ter­mine ai dissensi civili e alla miseria pubblica. Mai più vasto disegno è stato concepito e messo in esecuzione. Di quando in quando, qualche uomo di genio, qualche sapiente ne ha parlato a voce bassa e tremante. Nessuno di loro ha avuto il coraggio di dire la verità tutta intera.

Il momento delle grandi risoluzioni è giunto.

Il male è al colmo; copre la faccia della terra.

Da troppi secoli vi regna il caos sotto il nome di politica. Che tutto rientri nell' ordine e ri­prenda il suo posto. Al richiamo dell'egua­glianza, si organizzino gli elementi della giu­stizia e della felicità. È venuto il momento di fondare la REPUBBLICA DEGLI EGUALI, il grande asilo aperto a tutti gli uomini. Sono giunti i giorni della restituzione generale. Famiglie gementi, venite a sedervi alla tavola comune eretta dalla natura per tutti i suoi figli.

POPOLO DI FRANCIA,

A te era dunque riservata la più pura di tutte le glorie! Sì, sei tu che devi offrire per primo al mondo questo commovente spettacolo. Antiche abitudini, pregiudizi inveterati, tente­ranno ancora di ostacolare la fondazione della repubblica degli Eguali. L'organizzazione dell'eguaglianza reale, l'unica che risponda a tutti i bisogni, senza far vittime, senza costare sacrifici, da principio forse non piacerà a tut­ti. L'egoista, l'ambizioso fremerà di rabbia. Quelli che possiedono ingiustamente gride­ranno all'ingiustizia. I godimenti esclusivi, i piaceri solitari, le comodità personali, causeranno vivi rimpianti a qualche individuo in­differente alle altrui pene. I fautori del potere assoluto, i vili sostegni dell' autorità arbitra­ria, piegheranno a stento le loro teste superbe sotto il livello dell' eguaglianza reale. La loro corta vista penetrerà difficilmente nel prossi­mo futuro della felicità comune; ma che pos­sono poche migliaia di malcontenti contro una massa d'uomini pienamente felici, e sor­presi d'aver cercato sì a lungo una felicità che avevano sotto mano?

Sin dall'indomani di questa autentica rivolu­zione, si diranno tutti stupiti: E che! la felicità comune costava tanto poco? Bastava soltanto volerla. Ah! perché non l'abbiamo voluta pri­ma? Era dunque necessario farcelo dire tante volte? Sì, senza dubbio; un sol uomo sulla terra che sia più ricco, più potente dei suoi si­mili, dei suoi eguali, e 1'equilibrio è rotto: il delitto e la sventura sono sulla terra.

POPOLO DI FRANCIA,

A qual segno devi ormai riconoscere la bontà di una costituzione? […] quella che poggia interamente sull'eguaglianza di fatto è la sola che possa convenirti e soddisfare le tue aspirazioni. Le carte aristocratiche del 1791 e del 1795 ri­badivano le tue catene invece di spezzarle. Quella del 1793 era un grande passo di fatto verso l'eguaglianza reale, non le si era mai andati tanto vicino; ma non raggiungeva an­cora lo scopo e non raggiungeva affatto la fe­licità comune, della quale però consacrava solennemente il grande principio.

POPOLO DI FRANCIA,

Apri gli occhi e il cuore alla pienezza della felicità: riconosci e proclama con noi la REPUBBLICA DEGLI EGUALI.

 

(F. BUONARROTI, Cospirazione per l'egua­glianza detta di Babeuf, Einaudi, Torino 1971)

 
 
 

Rousseau, Contratto sociale (1762)

Post n°17 pubblicato il 10 Novembre 2012 da rss55mrz

dal Contratto sociale

Rousseau vuole ricercare se nell’ordine civile vi possa essere qualche regola di governo legittima e sicura, in cui giustizia e utilità siano conciliate.

Egli nota che l’uomo è nato libero ma dappertutto è in catene. Se vi sono degli schiavi per natura è perché vi sono stati degli schiavi contro natura. La forza ha fatto i primi schiavi, la loro viltà li ha perpetuati.

Il più forte non lo è mai abbastanza per essere sempre padrone, se non trasforma la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere.

Ma dal diritto del più forte non può risultare nessuna moralità: se bisogna obbedire per forza non si ha bisogno di farlo per dovere.

Poiché nessun uomo ha un’autorità naturale sul suo simile, e poiché la forza non produce alcun diritto, le convenzioni rimangono alla base di ogni autorità legittima fra gli uomini.

 

Una convenzione come quella che pone da una parte un’autorità assoluta e dall’altra un’obbedienza senza confini è contraddittoria [antiHobbes]. La rinuncia alla propria libertà è incompatibile con la natura umana.

 

Prima di parlare della forma di governo, R. spiega come si forma un popolo.

R. parla di “ostacoli” che hanno impedito il mantenimento degli uomini nello stato di natura. Il genere umano ha dovuto dunque mutare maniera di essere per potersi conservare. E lo fece unendo la propria forza e la propria libertà, dirigendole verso una forma di associazione che difendesse e proteggesse la persona e i beni di ogni associato, nella quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisce tuttavia che a se stesso e resta libero come prima.

Questo contratto è sintetizzato in una clausola: alienazione di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Dandosi a tutti non si dà a nessuno, in questa associazione si guadagna l’equivalente di ciò che si perde e maggior forza nel conservare ciò che si ha.

 

Essenza del patto sociale: ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della Volontà generale.

 

Questa riunione produce un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti voti ha l’assemblea. In altri tempi prendeva il nome di città, ora di repubblica (o corpo politico).

Affinché il patto sociale non sia una formula vana, è sottinteso che chiunque si rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da tutto il corpo politico.

 

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un cambiamento importante: alla sua condotta conferisce una moralità che mancava in precedenza; la giustizia si sostituisce all’istinto; la voce del dovere subentra al diritto all’appetito; l’uomo si vede costretto a consultare la sua ragione prima di ascoltare le sue tendenze.

L’uomo ha perso molti vantaggi che gli provengono dalla natura, ma ne ha acquistati altri (sviluppo di idee e di sentimenti più nobili); da animale stupido e limitato si fa essere intelligente e uomo.

Ciò che l’uomo perde con il contratto sociale è la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che lo tenta e che egli può raggiungere. Ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede.

            La libertà naturale ha limite nelle forze dell’individuo.

            La libertà civile è limitata dalla volontà generale.

            Il possesso è l’effetto della forza o il diritto del primo occupante.

            La proprietà è fondata su un diritto positivo.

Lo stato civile ha dato la libertà morale – perché l’impulso del solo appetito è schiavitù, mentre l’obbedienza alla legge che ci è prescritta, è libertà.

 

Fondamento di tutto il sistema sociale: invece di distruggere l’uguaglianza naturale, al contrario il patto sostituisce un’uguaglianza morale e legale a ciò che la natura aveva potuto mettere di ineguaglianza fisica tra gli uomini.

 

Il fine della volontà generale è il bene comune (essa è inalienabile e indivisibile).

Limiti del potere sovrano: il sovrano non può gravare i sudditi di nessuna catena che non sia utile alla comunità. La volontà generale, per essere veramente tale, deve esserlo nel suo oggetto come nella sua essenza. Ogni atto di sovranità, ogni atto autentico della volontà generale, obbliga o favorisce ugualmente tutti i cittadini.

 

[R. ammette l’esilio o la pena di morte per chi viola il patto]

 

Gli atti della volontà generale sono le leggi. Repubblica è ogni Stato retto da leggi in cui domina l’interesse pubblico. Ogni governo legittimo è repubblicano. Le leggi sono le condizioni del civile associarsi. Il legislatore è colui che guida la volontà generale e redige le leggi, ma il potere legislativo è della volontà generale, del popolo, che approva le leggi mediante liberi suffragi.

Il fine di ogni sistema di legislazione si riconduce a due oggetti principali: libertà e uguaglianza.

Attenzione sul concetto di uguaglianza: R. non intende che i gradi di potenza e di ricchezza debbano essere uguali, ma che la potenza sia al di sotto della violenza, mentre per la ricchezza che nessun cittadino sia abbastanza ricco per poterne comperare un altro e nessuno sia abbastanza povero da essere costretto a vendersi.

 

Ultima questione importante: la religione nello Stato.

Hobbes ha ritenuto che lo spirito dominatore del cristianesimo era incompatibile col suo sistema. Rousseau afferma che mai uno Stato fu fondato senza che la religione ne fosse la base, inoltre che la religione cristiana è in fondo più nociva che utile alla forte costituzione dello Stato.

Dopo la predicazione di Gesù che separando il sistema teologico dal sistema politico all’interno dello Stato si è aperto un perpetuo conflitto che ha reso ogni buon governo impossibile tra gli Stati cristiani.

“Ma questa religione non avendo nessuna relazione particolare con il corpo politico lascia alle leggi la sola forza che esse trovano in se stesse senza aggiungerne nessun’altra, e con ciò uno dei grandi legami della società particolare rimane senza effetto. Di più: lungi dall’attaccare i cuori dei cittadini allo Stato, essa ne li distacca come da tutte le cose della terra: non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale… Il cristianesimo è una religione tutta spirituale, occupata unicamente delle cose del cielo: la patria del cristiano non è di questo mondo… Egli fa il suo dovere, è vero… ma, purché non abbia nulla a rimproverarsi, poco gli importa che tutto vada bene o male quaggiù… L’essenziale è di andare in paradiso e la rassegnazione [per esempio,di fronte alle usurpazioni]  non è che un mezzo di più per questo […] Il cristianesimo non predica che servitù e dipendenza, il suo spirito è troppo favorevole alla tirannide perché essa non ne approfitti sempre. I veri cristiani sono fatti per essere schiavi.”

Interesse dello Stato è che ci sia una religione che faccia amare al cittadino i suoi doveri: “… una professione di fede puramente civile, della quale spetta al sovrano fissare gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza dei quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele… I dogmi della religione civile debbono essere semplici, pochi… : l’esistenza della divinità potente, intelligente, benefica, previdente e provvidente, la vita avvenire, le felicità dei giusti, il castigo dei cattivi, la santità del contratto sociale e delle leggi, ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi, io mi limito a uno solo: è l’intolleranza […] Non vi può essere una religione nazionale esclusiva, si devono tollerare tutte quelle che tollerano le altre, sino a che i loro dogmi non hanno nulla di contrario ai doveri dei cittadini. Ma chiunque osa dire: fuori della Chiesa non vi è salvezza, deve essere cacciato dallo Stato, a meno che lo Stato non sia la Chiesa, e il principe non sia il pontefice.”[1]



[1] Il testo utilizzato per questa sintesi è quello curato da Giovanni Ambrosetti, Editrice La Scuola, Brescia 1962.

 
 
 
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