Truman Capote e quel volo troppo ardito

Truman Capote, lo stile mi fa martire, ogni parola è sangue | il manifesto

Grandi sono le ambizioni di uno scrittore e Truman Capote non costituì un’eccezione. Peccato che con Preghiere esaudite aspirò all’impossibile, e il tonfo di quella caduta campeggia ora tra le note biografiche che ne ripercorrono carriera e gesta. L’autore di due capolavori come Colazione da Tiffany e A sangue freddo, in quella che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere una Recherche specchio del jet set americano, non riuscì ad emanciparsi dalla pratica irrazionale e illusoria di costruire un successo a tavolino. Ma calarsi nei panni di un archeologo letterato non paga, perché portare alla luce un’umanità di seconda mano è come puntare sull’ovvio, ovvio spesso reso con virtuosismi asmatici. Però, chi scrive è di parte e ritiene che la Recherche non sarà mai riproducibile in alcun modo, come del resto non è riproducibile qualsiasi opera – penso anche ad altri ambiti artistici – che ha già lasciato senza fiato chiunque si sia imbattuto in essa. Dunque, inquadra meglio la questione Alessandro Piperno:

“La ferocia con cui Capote tratta i suoi eroi (per non dire delle sue eroine) è implacabile. Non mi sorprende che negli ultimi anni della sua vita, i più derelitti – minati da una dieta a base di alcol e cocaina – avesse maturato una passione smodata e insana per Marcel Proust, al punto da volerne emulare le gesta. Il progetto a lungo coltivato di Preghiere esaudite avrebbe dovuto produrre, almeno nei propositi, un’opera capitale capace di condensare il nucleo di un’intera tradizione letteraria. Purtroppo, com’è noto, le cose andarono altrimenti. E non solo per la sopraggiunta morte dell’autore: benché Pregherie esaudite sia un libro splendido ricco di ritratti memorabili (su tutti, quello di Colette), è anche la dimostrazione che per scrivere la Recherche non basta conoscere tanta gente importante e non farsi scrupoli a metterla in ridicolo. Naturalmente non tocca a me offrirvene la ricetta, che del resto ignoro. So che per essere all’altezza del suo modello Capote avrebbe dovuto mettere in campo attitudini di cui era sprovvisto: un po’ di pietà, un afflato autentico nei confronti del prossimo, una comprensione capace di andare oltre un cinismo brillante e mondano”.

Dall’incipit di Preghiere esaudite:

“In qualche parte del mondo esiste una filosofa straordinaria che si chiama Florie Rotondo.
L’altro giorno mi sono imbattuto in una delle sue riflessioni, stampata da una rivista consacrata agli scritti degli scolaretti. Diceva: “Se potessi fare quel che voglio, andrei al centro del nostro pianeta, la Terra, a cercare uranio, rubini e oro. Cercherei anche i Mostri non rovinati. Poi mi trasferirei in campagna. Florie Rotondo, 8 anni”.
Florie, tesoro, io so cosa intendi dire, anche se tu non lo sai: come potresti a otto anni?”.

Dall’incipit di Alla ricerca del tempo perduto:

“A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: “Mi addormento”. E, mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi sembrava d’essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V.”

I miei luoghi oscuri

I miei luoghi oscuri

Aveva dieci anni James Ellroy quando sua madre fu violentata e uccisa. A quella tragedia ha poi dedicato I miei luoghi oscuri. Dicono sia un libro bellissimo e struggente. Non fatico a crederlo se la dedica che precede il primo capitolo e la prima pagina dello stesso offrono al lettore questo:

Ti sei fatta fregare da uno scadente sabato notte. Inerme, hai fatto una fine stupida e brutale.

La via di scampo che avevi imboccato ti offrì solo un breve rinvio. Mi avevi portato con te come portafortuna. Fallii come talismano – dunque oggi testimonio per te.

La tua morte caratterizza la mia vita. Voglio trovare l’amore di cui fummo privi ed esercitarlo in tuo nome.

Voglio divulgare i tuoi segreti. Voglio azzerare la distanza tra me e te.

Voglio darti vita.

1.

La trovarono dei ragazzini.

Militavano nella Babe Ruth League e stavano andando al campo per fare quattro tiri. Dietro di loro camminavano tre allenatori, adulti.

Gli adulti notarono alcune perle sparse sull’asfalto. I ragazzini videro una sagoma nella striscia di vegetazione poco oltre il cordolo. Un piccolo fremito telepatico serpeggiò nel gruppo.

Clyde Warner e Dick Ginnold richiamarono indietro i ragazzini – per impedir loro di vedere da vicino. Kendall Nungesser adocchiò una cabina telefonica sull’altro lato della Tyler, accanto al chiosco dei gelati, e vi si diresse di corsa.

Chiamò l’ufficio dello sceriffo a Temple City e al sergente di turno disse di avere scoperto un cadavere. Si trovava proprio lì vicino, sulla strada accanto al campo da gioco della Arroyo High School. Il sergente gli disse di restare lì e non toccare niente.

Partì la chiamata radio: 10:10 a.m., domenica 22 giugno ’58. Cadavere all’incrocio tra King’s Row e Tyler Avenue, El Monte.

***

Il dolore di Ellroy merita rispetto anche quando tracima nelle parole attraverso cui ama presentarsi in pubblico: “Buona sera guardoni, furfanti, pederasti, annusatori di mutande, punk e magnaccia. Sono James Ellroy, il cane infernale, il gufo pazzo con il rantolo della morte, il cavaliere bianco della destra estrema, il trucco perfetto con il pene di un asino. Sono l’autore di venti libri, tutti capolavori. E precedono i miei futuri capolavori. Questi libri vi lasceranno sconvolti, lavati a vapore e a secco, ripiegati e messi in un angolo, fidelizzati, tatuati e sfanculati”.

Se un uomo autentico vi pare poco, allora io degli esseri umani non ho capito niente.

Se solo tu mi toccassi il cuore

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I nostri sguardi si sono incrociati ancora una volta e sono rimasti agganciati, come magneti. Ero turbata, come se la tua presenza accanto a me fosse un crimine. Come se, già allora, fossi incline al peccato. Ti sei accorto del mio malessere e hai cambiato argomento:

  “Vive in un posto bellissimo. Il lago all’orizzonte, il giardino, la grande casa con le persiane verdi.”

  “Me lo dicono spesso. Devo ammettere che è vero.”

 Una pausa, poi hai detto, come se la domanda mi bruciasse sulle labbra:

    “Mi chiamo Raphael.”

   “Luna. Benvenuto a Taoolires…”

    “È italiana?”

  “Sì, ha indovinato. La mia famiglia è del ticinese. La parte italiana della Svizzera.”

  “Italiana di origine, svizzera di nascita e francese d’adozione, se ho capito bene.”

 “Proprio così. Ha riassunto perfettamente la situazione. Una tripla identità.”

   “Comunque, è un nome che le dona molto.”

Hai aggiunto con un sorriso di incredibile purezza.

Questa volta, nonostante il caldo, non ho potuto fare a meno di rabbrividire. Era troppo per me. Eri caduto dal cielo, mi avevi fatto un complimento e portavi il nome di un angelo.

Maxence Fermine, Se solo tu mi toccassi il cuore

Un uomo che scrive come una donna. Direi alla Liala se solo avessi letto un suo libro. Magari l’ho fatto ma dev’essere stato tanto tempo fa, quando per causa di forza maggiore erano altri a scegliere le mie letture. Tuttavia il punto è un altro: ho sbagliato libro e ora non mi resta che imboccare la via della resa facendo tesoro, benché già di mio io abbia contezza di certe trappole, di queste parole di Emanuele Trevi: “Per chi scrive recensioni, ma anche per una parte non trascurabile del pubblico, il cosiddetto modernariato editoriale è molto più interessante e gratificante del mercato delle novità librarie vere e proprie, dove è sempre difficile distinguere i fuochi di paglia e i valori autentici, capaci di trascendere la pubblicità e il successo effimero. A volte il modernariato riporta in luce dei veri e propri giganti seppelliti dall’oblio, come Richard Yates. Oppure rivela, di autori di cui si è conservata la memoria, opere certamente secondarie, ma dotate di un loro significato e di un loro peso estetico”.

Ho abbandonato il libro a pagina 22. Poi in rete ho trovato l’estratto seguente e mi sono convinta ancora di più che svoltare è stata la mossa giusta:

“Se solo tu mi toccassi il cuore, se solo mettessi la tua bocca sul mio cuore, la tua bocca sottile, i tuoi denti, se mettessi la tua lingua come una freccia rossa lì dove il mio cuore polveroso martella…”.

Neve

Vilhelms Purvītis, Inverno

Lettone la neve di Purvītis, giapponese quella degli haiku di Yuko, protagonista del delicato racconto di iniziazione di Maxence Fermine. Chi non si lascerà demotivare dalla texture minimale di Neve, scoprirà una storia d’altri tempi. Tempi in cui ci si orientava facendo affidamento sul cuore:

“La neve è una poesia. Una poesia di un candore smagliante.

  In gennaio ricopre la metà settentrionale del Giappone.

  Lì dove viveva Yuko la neve era la poesia dell’inverno.

 Contro il volere del padre, nei primi giorni del gennaio 1885 Yuko intraprese la carriera di poeta. Decise di scrivere solo per celebrare la bellezza della neve. Aveva trovato la propria strada. Sapeva che quella vita sfolgorante non l’avrebbe mai stancato.

 Nei giorni di neve prese l’abitudine di uscire assai presto di casa e incamminarsi verso la montagna. Per comporre le sue poesie andava sempre nello stesso posto. Si sedeva a gambe incrociate sotto un albero e rimaneva così per ore e ore, vagliando in silenzio le diciassette sillabe più belle del mondo. Poi, quando infine sentiva di possedere la sua poesia, la vergava su carta di seta.

 Ogni giorno una nuova poesia, una nuova ispirazione, una nuova pergamena. Ogni giorno un passaggio diverso, una luce nuova. Ma sempre l’haiku e la neve. Fino al calar della notte.”