Le scale

Quando ci si appassiona di un desiderio inavvicinabile, le proprie certezze decadono ritrovandosi in una situazione d’indefinito… d’incerto. E così malgrado sia una persona sicura di me, ultimamente, barcollo tra un’apprensione non definita, di cui non ho conoscenza neppure della fine ultima.

Le scale che portano in mansarda sono di noce, i gradini ripidi ed il passaggio è largo solo poco più di settanta centimetri.
Mi precedi con un tacco che fa suonare il legno del primo gradino; al quinto le pieghe plissettate della gonna s’incurvano lasciando margine di veduta all’avvallamento superiore delle tue gambe. Io sono ancora al primo, con i ricami dell’autoreggente che mi arrivano quasi alla gola.

Non intendo se perdo l’equilibrio per questo, ma inciampo in un gradino di turbamento, la pianta in cuoio della scarpa batte un colpo di caduta, ti allarma in uno scatto tempestivo per esclamare – attenzione! –

Nella stessa istantanea fisso l’attenzione di quel tuo movimento fulmineo, che trasforma in un’elica il lembo di stoffa plissettata, prendendo il volo in alta quota e svestendo ancora una volta gli estremi della tentazione.

Rimango in ginocchio, non so se ferito fisicamente o emotivamente, ma riconosco tutta la fragilità di questo disequilibrio e di tutte le volte che ho perduto sostegno in una qualsiasi tua manifestazione involontaria, seduttiva.

Rimango in ginocchio, sorreggendomi con una mano sul corrimano e accorgendomi che l’altra mano si è sorretta involontariamente alla tua caviglia, smagliando un poco la tua calza scura.

Una stretta troppo forte di concitazione.

 

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Il viaggio

Nel primo momento pensò di non cambiare nulla nella sua vita, guardò fuori dalla finestra che tempo facesse, poi prese a correre verso la stazione senza l’impermeabile, sotto la pioggia fastidiosa di Maggio.

In tabaccheria comprò un biglietto di sola andata e rimase per un attimo distratto alla cassa contemplandosi in mano lo scontrino.

– desidera altro signore? –

Decise di acquistare anche tabacco sfuso Drum e delle cartine smoking lunghe solo perché il biglietto ricoprisse il ruolo di filtro.

La filodiffusione annunciò l’arrivo del treno, tuttavia lui rimase seduto su una panchina, frastornato, senza voler riflettere troppo sulla motivazione del perché aspettare il successivo.

Rifiutò di interrogarsi sulla forza che l’ebbe trattenuto un’ora ancora, ma lascio spazio ad un solo pensiero: si chiese se mai fosse dovuto tornare indietro… ancora una volta, indietro… indietro da lei…
Quarantacinque minuti più tardi si trovò in viaggio… in viaggio in un vagone vuoto. In viaggio senza compagnia alcuna, in un viaggio solitario, in un viaggio lungo e senza più un ritorno.

Da quel giorno, per più di un anno, non scrisse più.
Da quel giorno non amò mai più.

autoscatto di spalle

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Rewind

Non esistono delle stagioni, il tepore metropolitano è quasi sempre lo stesso durante tutto l’anno. Una luce pallida, artificiale, evidenzia le tinte della rete di Milano: la gialla, la rossa, la verde. Le musiche sono sempre le stesse, fisarmoniche o violini, timbri che riconducono alle melodie polacche di Bregovic.

E torna come un rewind quel breve racconto, un disco in vinile che continua a suonare non annoiando mai nessun ascoltatore. Lo hanno udito, lo hanno immaginato, lo hanno invidiato… lo hanno persino copiato; e noi lo abbiamo lasciato fare, perché eravamo soltanto noi ad averlo davvero vissuto.

Lui aveva trent’anni, una macchina fotografica, un treno da perdere. Lei di anni ne aveva trentotto, il treno lo aveva già perso, ma non lo sapeva ancora.
Lui scendeva le scale della metropolitana.
Lei le saliva. Lui la vide, lei lo vide… Milano si fermò.
Lui accarezzò con lo sguardo i quindici denari di lucido nylon autoreggente che salivano al piano superiore.
Scavalcò il mancorrente.
Lei insieme alla testa e al treno perse le chiavi di casa. Non si presentò mai all’appuntamento.
I loro pensieri trovarono l’intreccio in un angolo di sotterraneo, i loro passi salirono… salirono su in superficie, fino a lasciare impronte parallele e indelebili nella neve di un parco.
Per un anno non uscirono dalla mansarda del suo Atelier, ma non ce se accorsero mai.
Faceva freddo e faceva anche molto bohémien.
Sotto ordinazioni qualcuno portava piatti da mangiare e libri da leggere. Nonostante tutto mangiavano e con molto appetito.
E tra un delicato amplesso e un fotografare d’istinto, sfiniti di piacere, si leggevano a vicenda qualcosa, a volte persino durante, a riprova che le due cose non erano poi del tutto incompatibili.

fotografie ritrovate

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Guida Turistica

Lo stesso vento ora attraversava gli alberi dell’Aventino complottando con i rami, sfogliando un quotidiano lasciato su una panchina da qualche turista. Oltre le grate del giardino degli aranci si ascoltava uno spettacolo di stornelli romani e poco più vicino alla nostra automobile, una guida turistica riferiva ad un gruppo di connazionali l’origine della basilica di Santa Sabina.
Aveva una voce femminile, con un accento francese, muovevo il retrovisore per riuscire ad individuarla nel gruppo… una targhetta attaccata alla sua camicetta, la distanza non mi permetteva di poterne leggerne la scritta.
– Perché temi l’emotività? – Mi domandava Angela mentre io camuffavo il mio distacco con l’interesse verso l’affascinante guida turistica…
Proseguiva a dare informazioni sulla spiritualità del paleocristianesimo e qualcosa di inerente sul paganesimo, nel frattempo io ragionavo su quanto mi sentissi profano.

Un attimo di silenzio per poi riprendere a parlare ad alta voce trasferendosi dal centro della piazza all’ingresso della basilica; la nostra Fiat era senza intenzione parcheggiata proprio lì di fronte, in un attimo ci ritrovammo circondati dai turisti presenti, noi moderatamente spettatori della loro serata educativa, loro curiosamente testimoni del nostro diverbio.

– Le forme dell’arte paleocristiana significative solo in senso psicologico e non metafisico: sono espressionistiche, non divinatorie… –

– Temo perché in qualche modo mi ha fatto male –

Rispondevo evitando di distogliere lo sguardo che era corrisposto dalla guida, pensavo ricercasse la mia attenzione, come a spiegarmi qualche segreto che non riuscivo a carpire, in qualche modo la sentivo partecipe della mia inquietudine.
Mi guardava, in alcuni istanti con un’insistenza maggiore forse a sottolineare dei concetti più significativi che in qualche maniera fossero pertinenti al mio disagio.

– I grandi occhi sbarrati dei tardi ritratti romani esprimono una vita psichica intensa, intellettuale e affettiva; ma questa vita psichica è senza sfondo metafisico e in sé non manifesta ancora la nuova religione dello spirito… –

Alla fine, potevo scorgere la scritta sulla targhetta attaccata da una spilla sulla camicetta; riportava il nome Christine.

 

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Imprinting

Sono cresciuto all’interno di un negozio di parrucchiere per signora, viale delle Formaci, Roma. Ricordo le donne in camice rosa, gli odori delle lacche, il rumore del fono e i colori dei bigodini con cui giocavo.

Ricordo quando tiravo loro il grembiule, le voci che chiamavano per il mio nome, al diminutivo… e le clienti che mi sollevavano di peso per sorridermi con quei visi incipriati e manicure appena fatte – stili di inizi anni settanta.
Il mondo femminile mi ha sempre affascinato, trattiene in se tutti i particolari che visivamente mi compiace accogliere.
E’ un mondo accattivante e ne vale sempre il desiderio di esplorarlo – che male c’è?
Lo faccio comunque con distacco, con una separazione emotiva che non sempre viene compresa ed accettata; le pulsioni attrattive di questo universo sull’uomo si fanno pungenti, colgono e mettono in tensione sempre il nervo più libidinoso, diversamente il pieno controllo di un distacco, mi permette di anatomizzare questo universo, cogliendone sfumature, suoni e anche piaceri.

Da adolescente, mia madre trasferì il suo negozio da parrucchiera sotto la nostra abitazione; le sue clienti attraversavano un cortile per recarsi dall’ingresso, pochi passi dal giardino al negozio.

Le conoscevo quasi tutte, erano più di quattrocento, ma nella quantità a me piacevano in particolare quattro.

Entravo di nascosto in negozio verso l’ora di mezzodì, tutti erano in pausa. Consultavo l’agenda degli appuntamenti settimanali per annotare alla mente in quale giorno e a quale ora fossero passate. La signora Saveria, Rita Vespa, Anna e quella che chiamavano ‘la Professoressa, era anche il sopranome riportato settimanalmente in agenda.
In cantina, lungo l’intercapedine umida, una piccola finestra dava sul terreno del cortile e da quel nascondiglio, per il breve tratto di strada, potevo osservare le gambe di queste clienti transitare verso l’ingresso del negozio. Era un percorso breve, cinque forse sei passi prima che una di loro salisse i tre gradini.

Proprio in quell’ultimo istante la posizione poteva essere ancora più ottimale, ma la frazione di secondo era minima. Solo alcune volte sono riuscito a scorgere l’accenno di un ricamo sull’orlo della Professoressa.

Non ricordo quando ho smesso questo rito, forse quando ho iniziato ad avere maggiori possibilità di osservazioni dirette sulle donne.
Ma il ricordo di quel diversivo mi riempie di simpatia, leggerezza e di nostalgia.

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Justine Fober

Qualche volta la si intravede ancora, la sera, è un’espressione a ravvisarla, una movenza a distinguerla. Una luna piena o le pieghe di un abito che ha scelto lui stesso nel suo armadio e che lei indossa da quando egli disse: “ti amo”.

Un calice di vino rosso ondeggia in mano al cospetto di un mondo decisamente lontano, un dettaglio minimo del tutto, a molti estraneo, ma comune – maestoso – solo a loro.

E’ Justine Fober, nostalgica su un molo, nel cuore d’un agosto che sognava diverso; la riconosco è proprio lei, quando le brillano gli occhi e non cede più ad un sorriso beffardo. Lei che scruta gli uomini poi sfugge al loro sguardo per non invitarli ulteriormente. Lei che ci somigliava, che passeggia lentamente, guardandosi intorno e trascinando in terra un fazzoletto estivo, forse un foulard bianco con una maglia a grana di riso.
Fober.. di un etimo incerto, un noema semplice, di una grafia emotiva ed un tratto fragile tracciato su una superficie di velluto grigio, una grammatura consistente che poteva anche reggere il disegno… ed un epilogo disfatto per mano della mia stupida incertezza di uomo.

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Genesi

Lui era il tuo datore di lavoro, aveva quarantadue anni in quel periodo. Era titolare di un negozio di parrucchiere a viale delle Fornaci, cento metri circa dalla Basilica di San Pietro. Uomo pulito, classico, vissuto. Entrava sempre in giacca e cravatta, gli calzava come un modello, sembrava un attore. Era gentile con tutte le clienti e severo con le dipendenti al momento giusto, e nella giusta maniera.

Tu eri diventata la sua sciampista, ne avevi soli ventidue di anni. Eri partita dalla Sardegna a diciannove per vivere con tua zia Efisia e diventare una parrucchiera.
Era il tuo sogno, sogni semplici, essenziali i tuoi.

Non ne potevi più della solitudine di una Barbagia, degli obblighi familiari di tua madre e le botte di tuo padre. Sei scappata via da Gesturi, quel piccolo paese al centro dell’isola, ai piedi del monte La Giara. Un paesino di un migliaio di abitanti, persiane chiuse, donne vestite di nero nell’assolata campagna, odore di fieno, carretti trainati da asini, diffidenza, pregiudizi, isolamento.

Eppure sapevi che di donne ne aveva avute, ne aveva ancora una in quel periodo: Elvi. Ti aveva parlato di lei, ti aveva avvisato, è sempre stato schietto. Ma il tuo amore era incondizionato.

Ti sei lasciata portare via da lui, in quei due giorni festivi. Adulto, conoscitore dei sensi, infallibile. Ti ha portato nel suo paese: Castellamare di Stabbia. Ti ha fatto gustare il sapore del mare, delle terme, le affinità partenopee. Ti raccontava di quando da ragazzino, rastrellava le cozze e le mangiava crude. Aveva gli occhi lucidi nei suoi racconti, sembrava quasi piangesse.

Poi ti ha portato a fare all’amore. Ti ha cantato: “Voglio amarti così…”. Ha lasciato tutto e soprattutto tutte.
Ti ha sposato e ti ha promesso di amarti per tutta la vita.

E’ così ha fatto.

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Lucia Ana

E’ brasiliana. Porta con se una grande valigia con le rotelle… rimane ferma ed impacciata davanti al distributore dei biglietti del metrò.

Una carnagione scura, capelli neri, dei grossi occhiali da sole che non toglie neppure qui dove il sole non c’è mai stato.

Qualcuno dietro di me rimane infastidito; le creo scudo cercando di capire cosa deve fare…

– Dove devi andare? –
–…biglietto per Bologna.. tu aiuti me? –

Le seleziono la corsa per la stazione centrale, prendo anche i miei biglietti.
– Vieni con me, ti spiego dove devi andare –

Mi avvicino alla mappa metropolitana, ma vedo che lei continua a rimanere perplessa, preoccupata ripete – per me molto difficile – no treni in Brasile –
Scendiamo lungo le scale, continua a portare con se la grande valigia trascinandola con le rotelle, anche lungo le scale che scendono in profondità. Su ogni gradino un colpo asciutto risuona lungo la metropolitana; qualcuno si volta…
Poi saliti sul metrò si tranquillizza. Le spiego dove scendere, spiego lei le giuste istruzioni per prendere il biglietto del treno quando arriverà in Centrale.

– Io mi fermo prima –

Continuiamo a parlare e nella tranquillità scopre i suoi occhi neri che tratteneva nascosti sotto gli occhiali da sole.
Ora sorride, è due anni che vive in Italia, dapprima a Bologna, poi da pochi mesi trasferita in periferia di Milano.

– Io tra una fermata scendo, vai sempre avanti, tu scendi a ‘centrale’, mi raccomando…–

Nei restanti trenta secondi nessuno di noi parla, osservo dietro di me la porta automatica e la scritta Cadorna che scorre, poi avanti a me quegli occhi profondamente scuri.
Il treno rallenta la sua corsa lungo il corridoio della fermata Cadorna. Mark Augè si sbagliava, mi domando?

– aspetta! – mi dice aprendo velocemente il portafoglio, tirando fuori un bigliettino – sei gentile, prendi… –

Il piccolo bigliettino riporta il suo numero di telefono e il nome Lucia Ana.
La metropolitana si ferma, le portiere si aprono e le persone incominciano a spingere in ogni direzione per uscire, trattengo qualche spinta aspettando di essere l’ultimo, stamattina non ho più fretta.

– Fai buon viaggio Lucia… –
– Come ti chiami? –
– Riccardo… – Le rispondo.

Esco vedendo l’ultimo sorriso di Lucia Ana serrato dalle porte del metrò, poi la vedo prendere gli occhiali da sole per riportarli sul viso e distogliere lo sguardo attorno.

Malgrado avessi perso il biglietto la sera stessa dell’incontro…

rimane una certezza: Mark Augè almeno si sbagliava.

metropolitan

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