Truncare sas cadenas

cun sa limba e sa cultura sarda - de Frantziscu Casula.

 

AREA PERSONALE

 

TAG

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

FACEBOOK

 
 

I MIEI BLOG AMICI

Citazioni nei Blog Amici: 5
 

GUSANA

 

GUSANA

 

UN'ISPANTUUUUUU

 

GENNARGENTU

 

 

« Semus totus pastoresIntervista »

Semus totus pastores

Post n°914 pubblicato il 15 Maggio 2018 da asu1000

Pastoriu e intellettualità sarda - seconda parte -

Il pastore è stato storicamente una figura centrale in Sardegna non solo dal punto di vista economico e produttivo ma anche dal punto di vista antropologico, sociale, culturale e linguistico, dando vita, in buona sostanza a gran parte della intellettualità sarda: ad artisti (pittori, scultori): penso min modo particolare a Costantino Nivola di Orani, ai nuoresi Antonio Ballero e Francesco Ciusa, all’olzaese Carmelo Floris; ai grandi avvocati nuoresi come Pietro Mastino, Luigi Oggiano e Gonario Pinna; ad Antonio Pigliaru, il grande studioso del Codice della vendetta barbaricina; a Michelangelo Pira, l’antropologo che con più lucidità in La rivolta dell’oggetto, ha descritto la lacerazione e la mutilazione culturale prodotta dalla negazione della nostra –come Sardi intendo- identità, specie linguistica; a Peppino Fiori che, soprattutto con La società del malessere, e con il romanzo Son’ ‘e taula ha condotto un’analisi serrata del fenomeno del banditismo sardo; a Bachisio Bandinu, lo scrittore che descrive, suggestivamente, l’identità sarda; al gavoese Antonello Satta, che con Cronache dal sottosuolo, la Barbagia, analizza la cultura popolare, piena di “ «fantasie», di passioni appunto, intollerante dei normali codici o capace di adeguarli a una logica tutta sua, interna e creativa, talvolta demoniaca”; all’ollolaese Michele Columbu, l’intellettuale e il politico, grande organizzatore del Movimento dei pastori negli anni ’60, che ama definirsi “un pastore per pura combinazione laureato”.

Pastoriu, poesia e letteratura sarda

Ma è soprattutto l’intera letteratura e poesia sarda ad essere impregnata di “pastoriu”: dalla Carta de Logu (un terzo abbondante delle leggi di Eleonora riguardano il mondo agropastorale) ai poeti Paolo Mossa, Luca Cubeddu e Melchiorre Murenu, il poeta cieco di Macomer cui la tradizione popolare ha attribuito per decenni la famosa quartina (in realtà scritta dal frate di Ozieri Gavino Achea): ”Tancas serradas a muru/fattas a s’afferra afferra/si su chelu fit in terra/l’aiant serradu puru”: tancas costruite contro i pastori e i contadini con la Legge delle Chiudende. Per arrivare a poeti come Montanaru o Peppino Mereu e Diego Mele: basta ricordare del rettore di Olzai la satira, dal preludio fulminante, “In Olzai non campat pius mazzone/ca nde l’hana leadu sa pastura,/sa zente ingolumada a sa dulzura/imbentat sapa dae su lidone”, un’apologo con cui allude all’Editto delle Chiudende, contro cui il poeta si scaglia perché con esso si “regalava” la terra ai potenti di sempre, la terra sarda che fino ad allora era pubblica, comunitaria –e dunque che poteva essere lavorata e utilizzata da tutti, pastori e contadini- e non privata o “perfetta”, come allora si disse, dopo essere stata recintata dai ricchi che potevano permetterselo.

O pensiamo a Grazia Deledda, che dopo aver frequentato le scuole elementari, diventerà autodidatta e impara a scrivere, più che dai libri, dall’oralità. E’ lei stessa ad ammettere che più che quello che era scritto nei libri gli piacevano i racconti e le paristorias meravigliose e incredibili che ascoltava dai pastori nei paesi, nelle feste paesane, nelle novene, negli ovili delle valli nuoresi e vicino a Nuoro. E financo a casa sua, ascoltando i racconti dei servi, in inverno, vicino al focolare, nelle interminabili notti.

O pensiamo ancora ai due Satta nuoresi, Salvatore con Il giorno del giudizio e Sebastiano, il “vate” cantore della sardità mitica e drammatica, incarnata soprattutto dal mondo dei pastori. Quando morì –narrano le cronache- folle di contadini, ma soprattutto di pastori e persino di banditi, scesero dalle montagne per accompagnarlo alla sua ultima dimora, memori del suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale e della sua passione per la patria sarda.

Per non parlare di Lussu e dei “suoi” pastori patrizi di Armungia. Quel Lussu che, parlando del Partito sardo d’azione, ebbe a scrivere: ”Non fu propriamente un movimento di reduci, come quello dei combattenti in tutta Italia. Fin dal primo momento fu un generale movimento popolare, sociale, politico, oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastori”.

Qui mi fermo, non senza però almeno un accenno ai poeti improvvisatori, ieri ( Bernardo Zizi, Remundu Piras o Peppe Sotgiu) come oggi (Mario Masala, Bruno Agus, Salvatore Murgia), pastori, se non di mestiere, certo antropologicamente. Ma soprattutto ricordando le cose egregie e profonde che scrive a proposito dei pastori un brillante scrittore siciliano, Nino Savarese.

Uno scrittore siciliano, Nino Savarese, sui pastori sardi

LE GREGGI

“La pastorizia, che in altre regioni è andata adattandosi, e snaturandosi, fino a mendicare un po’ di posto tra la ressa delle colture, qui, in Sardegna, ritrova le condizioni dei suoi tempi eroici: spazio e solitudine.

Soprattutto non presenta quel tanto di le­zioso e decadente di cui ogni grande attività umana si offusca prima di corrompersi e scom­parire. L’aspetto pastorale sardo, per intenderei, non è materia di estetizzanti e di gente incurio­sita: il bello che vi può cogliere uno spirito pro­fondo, deve prescindere dalla pittoricità e rife­rirsi al rapporto primitivo, degli uomini e degli animali, con la terra e con Dio.

Bisogna sentire che il treno che passa in que­ste solitudini disseminate di greggi è un acci­dente senza conseguenze, e quasi senza senso: solca il silenzio, come un ronzìo nel meriggio, ed appena scomparso, alle sue spalle il silenzio si richiude, più intimo e più ermetico.

In certi punti i vasti pascoli sono limitati da alte cortine di rocce frastagliate e chiare, che all’occhio desioso e disperato dei solitari, debbono apparire come profili di città fantastiche.

In certi fasci di rocce a punta, i pastori vedono forse sagome di cattedrali abbandonate, e tutta questa pietra, rotta e mossa appare alle volte come la vuota sede di una civiltà e di una so­cietà morte di disgusto e di stanchezza.

   Unica realtà, ferma ed immutabile, appaiono le capanne dei pastori, le loro figure avvolte di pelli, le greggi che si muovono lentamente lungo i bordi dei ruscelli o tra i sassi erbosi dei poggi. A dare alla pastorizia questo carattere arcaico e grandioso, concorrono, come sempre accade, condizioni pratiche, e locali necessità. Ma nei modi e nell’estensione di questa attività non c’è forse, anche, una speciale inclinazione? E quella nativa simpatia che accompagna le ma­nifestazioni tradizionali e persistenti di un pae­se, e che si risolve, alla fine, nella coscienza di un privilegio?

Le ragioni che può darci il tecnico per spie­gare lo sviluppo della pastorizia in Sardegna, sono certamente valide, ma non bastano, se non si tien conto di una speciale attitudine dello spirito sardo. .

Insomma, altrove la pastorizia può nascere esclusivamente da una necessità pratica, qui, secondo noi, la necessità sveglia ed istiga una naturale disposizione.

È così del resto che si sono formate le speciali competenze delle diverse regioni italiane, la fama di certe attività e di certe maestranze. Ché da noi il lavoro ha ancora (e bisognerebbe far di tutto perché non lo perda) il suo lato di ispi­razione, il segno di una vocazione. Non si lavora solo con le mani, come nei paesi invasati di ra­zionalismo, ma col cervello e col cuore. Perciò il lavoro ha un contenuto che trascende l’eco­nomia, ed un che di sacro e di esteticamente bello.

Non si tratta dunque di contare quante pe­core e quanti uomini coperti di pelli si incon­trano nei Campidani, nella Gallura e nella Nurra, ma di penetrare l’animo, lo spirito che sostiene, qui, la pastorizia.

Gente di campagna che sappia, stare a cavallo con questa gravità guerriera, e cavalli agili, forti, ma rozzi, che facciano quasi tutto un corpo coi loro cavalieri per la sicurezza, la disinvolta non­curanza con la quale ne sono posseduti, non se ne vedono in nessun altra regione italiana.

Né occhi come questi che sembrano aprirsi a fatica sugli aspetti sociali, forse perché potente­mente attratti dalla visione di un’altra società, più libera e più armonica.

Nei volti assennati e sereni di questi pastori sembra placarsi una lontana inquietudine, un lungo bisogno di pace.

Vanno, o sostano, nella solitudine, senza me­moria del tempo. Senza limite alla loro pazienza.

Lo spazio che essi possono percorrere, per sfuggire ai rigori del clima, è grandissimo, i ri­gori di questo clima molti e gravi: l’eccessivo caldo che avvizzisce le praterie e dissecca le sor­genti, il rigido e persistente maestrale che fa crescere gli alberi aggobbati e patiti; gli assalti della malaria nei luoghi paludosi assai estesi.

Nel Campidano vivono isolati del tutto, sen­za nemmeno quei piccoli riferimenti sociali che si trovano nella pastorizia siciliana; in cui la mas­saria è un centro, oltre che economico, anche sentimentale, nella solitudine del latifondo. I familiari, dai paesi lontani, vanno a rifornirli del necessario, ma non restano con loro; nella Gallura e nella Nurra, invece, le famiglie se­guono i pastori e vivono quasi tutto l’anno attorno a una capanna costruita, di volta in volta, con tronchi e ramaglie; il recinto per le pecore e l’altro pei cavalli e i maiali. Una vita che tiene l’uomo continuamente impegnato per le sue facoltà più energiche. Ed energiche e grandiose sono tutte le manifestazioni che l’accompagnano. Si può vedere ad esempio cuocere un vitello, il qua­le porta nel suo interno (svuotato delle interiora) una pecora o un capriolo, in un modo che ri­corda il clibanum biblico e degli antichi: messo cioè in una buca scavata nella terra e con sopra a bruciare una catasta di legna.

Si può osservate, tra i pastori, almeno fino a qualche tempo fa ne era ancor viva e diffusa la pratica, l’usanza della Ponidura, che nei modi e nello spirito ricorda il tempo di Giobbe. Il pa­store diseredato, quello che ha perduto, per le mortalità o per una serie di disgrazie, tutte le sue pecore, va a chiedere agli altri pastori una pecora a ciascuno per rifare il suo gregge. Nessuno gliela nega, anzi, con uno di quei tratti che da soli basterebbero a dare la misura della profonda umanità di un popolo, tutti seguono di buon grado la tradizionale usanza ed accolgono come un dovere l’aiuto a uno della loro stessa famiglia pastorale, col quale hanno in comune il dolore, il pericolo e il peso della vita. «Et dederunt ei unusquisque ovem suam»”.

In alcune di queste contrade, è stata raccolta, e si conserva con più vivezza che altrove, l’im­magine dell’antica pace della terra; dell’antica giustizia dei Re condottieri di greggi e di popoli.

L’attitudine del popolo sardo per la pasto­rizia ha dunque una effettiva portata psicolo­gica; essa si inquadra nell’insieme di una spe­ciale concezione della vita: austera, essenzial­mente sincera e libera”. ((in Cose d’Italia con l’aggiunta di Alcune cose di Francia.(Tumminelli editore, Roma 1943, pagine 56-61).

In questo passo Nino Savarese individua con nettezza e precisione, il ruolo della pastorizia e dei pastori in Sardegna, al di fuori di ogni visione arcadica ed estetizzante :L’aspetto pastorale sardo,per intenderci, non è materia di estetizzanti e di gente incurio­sita: il bello che vi può cogliere uno spirito pro­fondo, deve prescindere dalla pittoricità e rife­rirsi al rapporto primitivo, degli uomini e degli animali, con la terra e con Dio.

Nel contempo al di fuori di ogni prospettiva puramente pratica ed economicistica: Le ragioni che può darci il tecnico per spie­gare lo sviluppo della pastorizia in Sardegna, sono certamente valide, ma non bastano, se non si tien conto di una speciale attitudine dello spirito sardo.

Insomma, altrove la pastorizia può nascere esclusivamente da una necessità pratica, qui, secondo noi, la necessità sveglia ed istiga una naturale disposizione.

E ancora: Non si tratta dunque di contare quante pe­core e quanti uomini coperti di pelli si incon­trano nei Campidani, nella Gallura e nella Nurra, ma di penetrare l’animo, lo spirito che sostiene, qui, la pastorizia.

Gente di campagna che sappia stare a cavallo con questa gravità guerriera, e cavalli agili, forti, ma rozzi, che facciano quasi tutto un corpo coi loro cavalieri per la sicurezza, la disinvolta non­curanza con la quale ne sono posseduti, non se ne vedono in nessun altra regione italiana.

Né occhi come questi che sembrano aprirsi a fatica sugli aspetti sociali, forse perché potente­mente attratti dalla visione di un’altra società, più libera e più armonica”

Savarese conclude con una osservazione avveduta e fine: L’attitudine del popolo sardo per la pasto­rizia ha dunque una effettiva portata psicolo­gica; essa si inquadra nell’insieme di una spe­ciale concezione della vita: austera, essenzial­mente sincera e libera.

In altre parole potremmo dire – traducendo la prosa di Savarese, ma non allontanandoci dal suo pensiero – che Il pastore non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto lavorativo ed economico (Il lavoro ha un contenuto che trascende l’economia, e un che di sacro e di esteticamente bello): le sue produzioni certo costituiscono ancora uno dei nuclei fondamentali del nostro prodotto interno lordo, ma il mondo pastorale in Sardegna ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda: in primis il valore della solidarietà, che non a caso Savarese ricorda quando parla della Ponidura: ”Il pa­store diseredato, quello che ha perduto, per le mortalità o per una serie di disgrazie, tutte le sue pecore, va a chiedere agli altri pastori una pecora a ciascuno per rifare il suo gregge. Nessuno gliela nega, anzi, con uno di quei tratti che da soli basterebbero a dare la misura della profonda umanità di un popolo, tutti seguono di buon grado la tradizionale usanza ed accolgono come un dovere l’aiuto a uno della loro stessa famiglia pastorale, col quale hanno in comune il dolore, il pericolo e il peso della vita. «Et dederunt ei unusquisque ovem suam»”.

O il valore della difesa dell’ambiente e del territorio, in virtù di quello che Savarese chiama rapporto primitivo con la terra”

Sena pastores e sena pastoriu, si-che morit sa Sardigna

Senza la pastorizia la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.

Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.

Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.

Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.

Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.

Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile,prima ancora che economica e sociale.

Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.

Francesco Casula

La URL per il Trackback di questo messaggio è:
https://blog.libero.it/07061944/trackback.php?msg=13680003

I blog che hanno inviato un Trackback a questo messaggio:
Nessun trackback

 
Commenti al Post:
Nessun commento
 
 
 

INFO


Un blog di: asu1000
Data di creazione: 12/06/2007
 

BB

 

INNU

 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

m12ps12cassetta2Marion20amorino11asu1000deosoeprefazione09marabertowdony686giovanni80_7vita.perezDario.Bertiniacer.250marinovincenzo1958
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
I commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

GENNARGENTU

 

UN'ISPANTUUUUUU

 

GUSANA

 

GUSANA

 

UN'ISPANTUUUUUU

 

GENNARGENTU

 

GUSANA

 

UN'ISPANTUUUUUU

 

BATTOR MOROS

 

BATTOR MOROS

 

BATTOR MOROS

 

BATTOR MOROS

 

MORI

Questo blog, bilingue ( in Sardo e in Italiano) a disposizione, in modo particolare, di tutti i Sardi - residenti o comunque nati in Sardegna - pubblicherà soprattutto articoli, interventi, saggi sui problemi dell'Identità, ad iniziare da quelli riguardanti la Lingua, la Storia, la Cultura sarda.

Ecco il primo saggio sull'Identità, pubblicato recentemente (in Sardegna, university press, antropologia, Editore CUEC/ISRE, Cagliari 2007) e su Lingua e cultura sarda nella storia e oggi (pubblicato nel volume Pro un'iscola prus sarda, Ed. CUEC, Cagliari 2004). Seguirà la versione in Italiano della Monografia su Gramsci (di prossima pubblicazione) mentre quella in lingua sarda è stata pubblicata dall'Alfa editrice di Quartu nel 2006 (a firma mia e di Matteo Porru).

Frantziscu Casula

 

 

 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963