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« la dottrina platonica del Benel'edonismo etico di Epicuro »

l'Aurea Medioocritas di Aristotele

Post n°4 pubblicato il 13 Giugno 2015 da ahivelasquez1975
 
Tag: etica

È risaputo che i filosofi con le loro teorie non sono delle isole a sè stanti, lontane e non comunicanti tra di loro. Come le isole di un arcipelago poggiano su un fondo comune anche le teorie filosofiche hanno tra loro collegamenti e rimandi che le inseriscono in un dibattito intellettuale che si distende nello spazio e nel tempo. Così anche la dottrina etica di Aristotele sottostà a questa regola in quanto è stata elaborata nel milieu intellettuale ateniese della scuola platonica in confronto e scontro non solo tra i discepoli di Platone ma anche, e soprattutto, in critica al filosofo delle Idee e del Bene. A differenza di Platone, dunque, l'approccio di Aristotele all'etica non è di tipo assoluto e analogo a quello che si può avere nei confronti di una scienza esatta come la matematica ma si presenta, invece, con uno stampo empirico e descrittivo. Nell'etica aristotelica, infatti, c'è un'attenzione ai comportamenti differenti tra le persone ed alla constatazione che non esiste una sola "vita buona" ma che le vite ispirate alla virtù possono essere molte tanto da dover parlare di "vite buone". Nonostante queste differenti "vite buone",  Aristotele nota che tra loro esiste una cifra comune, un elemento che si ritrova in tutte e le rende simili tra loro; queste vite, infatti, sono vite felici. È capire, dunque, cosa sia la felicità il passo successivo dell'indagine etica di Aristotele che ha preso il cammino a partire dalla constatazione empirica dei comportamenti e non cercando di ricavare l'etica dal mero ragionamento astratto.

Nell'Etica Nicomachea il filosofo offre una definizione della felicità arrivandoci non tramite un ragionamento astratto ma continuando attraverso la strada solcata dal suo metodo empirico. La felicità non è una mèta da raggiungere o un oggetto da possedere cui una volta fatto proprio dà quello che cerca di definire. La felicità è più simile alla persistenza, è presente nel mentre si fanno le cose. Notando questo nell'osservazione delle "vite buone", lo Stagirita arriva a concepire la felicità come un modo di affrontare le diverse attività della vita, un modo di fare le cose; ad esempio, si può mangiare distrattamente oppure farlo gustando ed apprezzando ogni porzione di cibo con una conseguente intima e completa soddisfazione.  Questa definizione primaria ed empirica è,  ovviamente, un po grezza e Aristotele sente il dovere di approfondirla e raffinarla. La felicità,  continua con un esempio, è come essere ben nutriti assumendo la quantità giusta di cibo; tale quantità,  quindi, sta in "mezzo" ossia assumere una quantità di cibo nè troppo esigua e neanche eccessiva. Tale "mezzo", però,  non va confuso con il significato del sostantivo "medio" ma più correttamente con "giusto" il quale è frutto di prove, tentativi e valutazioni personali sulla corretta quantità di cibo da assumere. Analogamente all'esempio, il modo per essee felici e vivere una vita buona tra le tante è agire con moderazione comprendendo, attraverso un percorso personale di tentativi e valutazioni, quale sia il proprio giusto mezzo. Questa è la dottrina etica delle virtù,  della moderazione spesso etichettata in modo negativo con la formula dell'aurea mediocritas della persona senza qualità travisando completamente il pensiero di Aristotele. Esistono, dunque, molte "vite buone" le quali hanno come caratteristica comune la felicità ossia un modo di fare le cose frutto di tentativi e valutazioni del singolo che nel tempo impara ad individuare il "giusto mezzo" a lui congeniale.

La dottrina del "giusto mezzo", la filosofia della moderazione introducono un altro punto che distingue Aristotele da Platone e che si presenta come una critica all'intellettualismo etico. Non è vero che chi conosce il bene sicuramente non potrà essee malvagio e seguirà la prescrizione che da tale conoscenza ne deriva; la vita buona è la moderazione ma un individuo può conoscere cosa sia il bene in una determinata situazione però essere debole moralmente e seguire una comportamento non etico. Aristotele, dunque, introduce nella filosofia etica il concetto di debolezza morale, la scelta da parte della sensibilità individuale di un comportamento non etico ancorché il soggetto sia consapevole di quello che fa.

Il pregio di Aristotele è quello di presentare una teoria etica di approccio empirista che spiega le varietà del comportamento umano e concependo nel suo sistema il concetto di debolezza morale delle persone. La dottrina etica presentata è nella sua sostanza una filosofia della moderazione, della ricerca del giusto mezzo in ogni situazione quotidiana il quale coincide con la felicità. Esistono, però, delle situazioni in cui non esiste il giusto mezzo e la dottrina aristotelica si dimostra inadeguata; tra dire o non dire la verità,  ad esempio, non esiste una via di mezzo e ciò mostra che accanto alle virtù relative di matrice aristotelica esistono delle virtù assolute di cui la presente teoria non tiene conto. Inoltre, possono esistere soggetti per i quali la filosofia della moderazione non è sinonimo di felicità e che, anzi, è inadeguata a loro. Pertanto, l'etica relativista ed empirista dello stagirita, pur superando alcune difficoltà proprie della teoria etica platonica, non riesce a dar conto di cosa fare per agire moralmente in ogni situazione e non pone alcuna necessità per cui la filosofia della moderazione sia sinonimo di "vita buona".

 
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