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Non ci sono armadi della vergogna

Post n°992 pubblicato il 22 Giugno 2006 da AnTreviso
 
Tag: 2006

Se la storia si ripete in farsa

«Gli ex-camerati di via Milano e il capogiro da sottogoverno», titolava ieri *Repubblica*. «Gli ex-cacciatori di fascisti e il capogiro da bobine», verrebbe voglia di controtitolare. Ma il desiderio di scherzare davvero non c’è davanti alle connotazioni che sta assumendo il Potenza-gate, partito come l’ennesimo caso di voyeurismo giudiziario e approdato a una vigorosa campagna di delegittimazione della destra italiana alla vigilia della scadenza forse più rilevante nella sua storia politica, cioè il referendum costituzionale di domenica prossima.
Non è solo una questione di giornali e d’interpretazioni più o meno faziose: l’inchiesta stessa, a tre giorni dal colpo di cannone dell’arresto di Vittorio Emanuele, si rivela confezionata su misura di un’operazione politica in grande stile. La selezione delle intercettazioni da allegare agli atti, tutte relative allo strettissimo entourage del presidente di An, e il privilegio dato ai capitoli con una chiave di lettura “morale”, sono evidentemente fatti apposta per colpire quello che in termini economici si chiamerebbe il core-business della destra di oggi: i valori e lo stile, il rispetto delle donne e la meritocrazia.
Non è la prima volta, e chi ha un percorso nel partito lo ricorda bene. Trentacinque anni fa, all’inizio degli anni ’70, fu utilizzato uno schema assai simile. All’epoca il “nocciolo” dell’affermazione missina e della trasformazione della Fiamma da movimento reducistico in grande forza popolare era il carisma di Giorgio Almirante e la sua capacità di attrazione per l’elettorato moderato e anticomunista nel Mezzogiorno. La magistratura di Milano scelse la strada dell’inchiesta per ricostituzione del partito fascista per demolire un successo che preoccupava l’arco costituzionale e ricondurre la destra nel recinto dei partitini senza speranze né ambizioni. Si operò senza riguardi, senza senso di responsabilità, con un cinismo assoluto. L'indagine, trasferita alla procura della Repubblica di Roma per competenza territoriale ed estesa dal luglio 1975 a tutto il gruppo dirigente missino del periodo 1969-72, non fu mai portata a termine, ma le sue conseguenze politiche si dispiegarono per decenni, fino a l’altro ieri.
Paolo Mieli, commentando il quarantennale del Msi, descrisse così quella fase: «Nel giro di due anni Almirante ottenne un imprevedibile successo e il reinserimento del suo partito nel grande gioco: nel dicembre del ’71 i voti missini furono nuovamente usati per l’elezione di un presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Quello stesso anno il procuratore Luigi Bianchi d’Espinosa chiese l’incriminazione di Almirante per ricostituzione del partito fascista. Nacquero nuovamente comitati antifascisti a cui partecipavano rappresentanti di tutti i partiti democratici. Ma nacquero altresì da frange dei servizi d’ordine dei gruppi dell’ultrasinistra formazioni clandestine che sperimentavano la lotta armata con assalti a sedi e uomini del Msi».
Alle politiche del ’76 fu la disfatta. Intorno alla destra era stata fatta terra bruciata, e si raccolsero i risultati: il Msi scese dall’8,7 al 6,1, da 61 a 35 deputati, da 26 a 15 senatori. Racconta ancora Mieli: «Nel Msi è il momento della resa dei conti. De Marzio, Tedeschi, Nencioni, il segretario della Cisnal Roberti, Birindelli, Covelli, Plebe e molti altri mettono sotto accusa Almirante per i ritardi nella trasformazione del partito in Destra nazionale». Poi la scissione, e non c’è bisogno di dilungarsi sul resto.
L’elezione di Leone come la riforma della Costituzione? D’Espinosa come Woodcock?
Il paragone tra la storia di ieri, con i suoi risvolti tragici, e la chiave moralistico-boccaccesca delle indagini attuali può sembrare persino irriverente, soprattutto ai militanti “di lungo corso”, quelli che sicuramente sono rimasti più scossi dai risvolti dello scandalo e dai giudizi della stampa sui «capogiri da sottogoverno». Ma è appunto questa la forza del Potenza-gate e del suo circo mediatico: colpire il cuore della destra, i suoi quadri intermedi, diffondere sfiducia non solo nell’area vasta dell’elettorato ma anche e soprattutto nella “macchina” dei militanti, dei dirigenti e degli amministratori locali, che nell’ultima campagna elettorale si è dimostrata in tante aree più efficiente e attiva di ciò che si immaginava.
E allora, ricordando il passato, l’invito non può essere che quello di recuperare il senso delle proporzioni. Nel nuovo “armadio della vergogna” fabbricato dal gip Alberto Iannuzzi non ci sono più gli scheletri di golpe inesistenti, le divise della forestale o i berretti dei colonnelli greci, ma i lustrini della costumeria Rai e le ciglia finte di qualche aspirante soubrette. L’idea che possano intimidire e demoralizzare un mondo sopravvissuto a ben altro è francamente ridicola. Piuttosto, la macchina da guerra messa in moto a Potenza ci indigna e ci offre inquietanti spunti di riflessione sul quadro politico presente e futuro: ci sono giudici che pensano di provocare per via giudiziaria il “crollo delle destre” che le urne non hanno regalato? Ci sono aree della magistratura che stanno inviando messaggi in codice – della serie “guardate che possiamo fare” – al nuovo governo, inadempiente rispetto agli impegni presi sull’immediata demolizione della riforma della giustizia? Qual è la misura esatta del Potenza-gate, posto che non sembra limitata alle ambizioni mediatiche di un pm-acchiappavip?
Da un pezzo avevamo rinunciato alla dietrologia, un genere molto in voga a destra negli anni della persecuzione politica, ritenendola tramontata e politicamente irrilevante, ma forse toccherà riabilitarla: non ci sembra un portato incoraggiante dopo appena un mese di governo di quelli che dovevano trasformare l’Italia in un Paese normale.

Secolo d'Italia di martedì 20 giugno 2006

Commenti al Post:
franco460
franco460 il 25/06/06 alle 09:32 via WEB
W la costituzione, No senza esitazione. ciao
 
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