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REINCARNAZIONE .....

L’uomo intuisce lo scarto tra le aspirazioni eccessive del suo cuore e le forze e il tempo che ha a disposizione, la soluzione reincarnazionista sembra fornire una facile via di soluzione, in quanto la realizzazione si dispiega in un indefinito numero di esistenze. In realtà essa cela l’illusione di risolvere quantitativamente un problema che è di natura qualitativa:

una relazione di amore con la Persona assoluta ed infinita non si costruisce mediante degli sforzi umani, per quanto ripetuti e numerosi essi siano. Questa sarebbe la torre di Babele. Certamente lo sforzo, nel senso di un impegno decisivo e totale della libertà appartiene strutturalmente a questa relazione che – essendo relazione dialogica e personale – è incontro tra libertà, tra la libertà assoluta e quindi infinita di Dio e la libertà partecipata, limitata e fragile dell’uomo. Il dialogo tra persone presuppone che le persone si incontrino e si fronteggino – volto contro volto -, siano ciò distinte e l’unico modo per distinguersi realmente dalla Persona infinita è quella di esser posti nel limite. Il limite allora, la creaturalità, lungi dall’essere un handicap, risulta essere proprio il presupposto di possibilità di quella relazione d’amore che è la perfezione propria della persona umana; dove il corpo, oltre ad essere il garante del limite in quella situazionalità spazio-temporale che gli è propria essenzialmente, è anche lo strumento indispensabile della relazionalità umana. Per l’uomo il proprio corpo è la condizione del suo essere nel mondo e della sua apertuta al mondo e all’altro. Paradossalmente voler diventare Dio - il che può essere espresso in formule accattivanti, come il dissolversi nell’Uno-Tutto, il perdersi nell’armonia universale di tutte le cose, ecc. – inteso in senso stretto e proprio - vorrebbe dire voler cadere nel nulla, desiderare nihilisticamente l’estinzione di qualunque consistenza del proprio io e della propria identità personale. Nulla di fatto succederebbe in Dio che da sempre è e sempre sarà, mentre la mia vicenda sarebbe solo quella di un annientamento del mio essere e della mia coscienza di me… C’è da chiedersi se questo sia possibile non solo da un punto di vista metafisico, posto che l’appetito dell’essere è connaturato all’essere, ma anche da un punto di vista antropologico: si può dire di desiderare l’annientamento, ma come ammonisce Aristotele «non è necessario che tutto ciò che uno dice lo pensi anche»[19]. Altro invece è vivere la propria relazione con Dio come partecipazione a relazioni sussistenti in Dio stesso, che sono le divine persone della Trinità.

 
 
 
 
 
 
 

 

 

Post N° 238

Post n°238 pubblicato il 15 Giugno 2008 da Antologia1

    La realizzazione morale della persona umana

Se così stanno le cose la perfezione morale non consiste di per sé nell’accumulo di qualità buone, quanto nel coltivare la relazione fondamentale, come relazione di amore, dove l’io umano risponde all’appello del Tu divino che lo interpella come suo Principio, suo Creatore e suo Salvatore: « Ascolta, Israele: […] Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze » (Dt 6,4). Il problema non è “autoperfezionarsi” o “autorealizzarsi”, per cui il tempo a disposizione – per quanto lungo esso sia, o si speri che sia - appare necessariamente esiguo, perché « le sofferenze del momento presente non sono paragonabili (ouk áxia) alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18; cfr. 1 Cor 2,9). La parabola degli operai chiamati a lavorare alla vigna esprime con forza questo concetto. È stato notato come alle parabole appartiene di assumere come medio comunicativo una situazione ben nota agli ascoltatori, presa da un’ovvia esperienza quotidiana. In questo quadro però c’è spesso un dettaglio che stona, anzi che scandalizza. Non è un errore nello svolgimento di un canovaccio retorico, ma qualcosa che appartiene pienamente alla sua strategia. Un padrone va a cercare in piazza gli operai per la sua vigna: li ingaggia in diversi momenti della giornata, contrattando con loro la paga di un denaro. I primi chiamati lavorano tutto il giorno, gli ultimi un’ora soltanto. Giunto il momento della paga ci si aspetterebbe un trattamento differenziato, invece tutti ricevono lo stesso. Ecco il momento di rottura, che cozza contro la prassi ovvia degli uomini. Attraverso questa fessura però siamo invitati a scorgere il nocciolo dell’insegnamento. Si tratta appunto di chiarire che il rapporto non è un mero rapporto di lavoro, ma una relazione di amore, dove il “calcolo” non ha luogo[18], dove invece essenziale è la chiamata e la risposta. Ciò ovviamente non significa che questo rapporto non determini un cambiamento anche in termini di progressi qualitativi (le virtù). Il rapporto è per sua natura totalizzante e non tollera di essere relegato ai margini. Dal centro, che è il suo luogo naturale, è chiamato ad investire tutto l’essere della persona che in questa relazione si lascia liberamente coinvolgere.

L’uomo intuisce lo scarto tra le aspirazioni eccessive del suo cuore e le forze e il tempo che ha a disposizione, la soluzione reincarnazionista sembra fornire una facile via di soluzione, in quanto la realizzazione si dispiega in un indefinito numero di esistenze. In realtà essa cela l’illusione di risolvere quantitativamente un problema che è di natura qualitativa: una relazione di amore con la Persona assoluta ed infinita non si costruisce mediante degli sforzi umani, per quanto ripetuti e numerosi essi siano. Questa sarebbe la torre di Babele.

 
 
 

Reincarnazione ,  

Post n°228 pubblicato il 15 Giugno 2008 da Antologia1

  

 Reincarnazione ,  

persona umana e concezione cristiana della vita e della storia

(Pietro Cantoni)  
  


1.  La reincarnazione nel contesto della Nuova Religiosità
    
    
Solo qualche tempo fa l’argomento poteva ancora sembrare qualcosa di esotico, attinente alla storia delle religioni o alle vicende di qualche gruppo marginale, oggi ci rendiamo sempre più conto della sua impressionante attualità e concretezza. Anche qui l’esito fattuale della secolarizzazione ha smentito tante dotte previsioni e capovolto tante scontate aspettative. L’uomo secolarizzato non è pervenuto ad una generalizzata convinzione che questo “secolo” esaurisce tutto l’esistente, ma ha raggiunto in molti casi la convinzione che c’è altra vita da vivere oltre questa vita.

 

Operata la distinzione tra Nuovi movimenti Religiosi e Nuova Religiosità, si è rilevato che la dottrina della reincarnazione rappresenta il test più sicuro per diagnosticare la presenza della Nuova Religiosità in un dato contesto. Una indagine condotta nel 1991-92, limitata a due città italiane molto diverse per collocazione geografica e culturale: Massa (capoluogo della provincia di Massa Carrara) e Foggia, ha dato questi risultati: su un totale di 2652 risposte a Foggia si è pronunciato a favore della reincarnazione il 31,44% e a Massa, su 5455, il 43,42[1]. Il dato dell’Indagine europea sui valori del 1981 fissava i credenti italiani nella reincarnazione al 21%, un dato lievemente inferiore alla media europea (25%). La stessa indagine, ripetuta nel 1990 nell’ambito della Indagine mondiale sui valori, evidenziava un dato italiano salito al 27% (più precisamente: 23% degli uomini e 31% delle donne), un dato coincidente con la media europea dell’epoca, sebbene – quanto a paesi di tradizione cattolica – inferiore a quello della Francia e della Spagna (28%) e del Portogallo e dell’Austria (29%), superiore invece di un punto a quello della Polonia (26%). Infine, l’Indagine europea sui valori è stata ripetuta nel 1999. I dati internazionali non sono stati ancora pubblicati, ma quelli italiani sono stati anticipati nel volume curato da Renzo Gubert, La via italiana alla postmodernità. Verso una nuova architettura dei valori, Franco Angeli, Milano 2000. Qui, nel capitolo dedicato alla religione, Salvatore Abbruzzese scrive a proposito della risposta «credo nella reincarnazione» che «oltre un terzo degli intervistati crede in una simile affermazione e nell’ambito dei praticanti regolari la percentuale resta comunque elevata»[2].

È evidente che la presenza di una dottrina religiosa nuova in un determinato contesto non è misurabile solo sulla base del numero degli aderenti al movimento che la professa ufficialmente e questo è particolarmente vero a proposito della reincarnazione. «Un’idea religiosa nuova è come un sasso gettato nell’acqua, che determina una serie di cerchi concentrici. I primi cerchi sono più netti e visibili, ma sono anche molto più piccoli; gli ultimi cerchi sono più difficili da vedere, ma sono molto più grandi»[3].

 

2.    Una vita precedente per spiegare il mistero della vita presente

La domanda sul “dopo” è una domanda religiosa per essenza. Insieme e indissolubilmente anche domanda filosofica. La morte è addirittura per Platone al centro della riflessione filosofica, per cui la vita del vero filosofo si risolve in un “esercizio di morte”[4]. La credenza in una vita oltre la morte accompagna l’avventura dell’uomo su questa terra, per così dire, da sempre. Matrimoni e funerali – diceva Giambattista Vico – sono le attestazioni più antiche e comuni della religiosità e della civiltà dell’uomo[5]. Segno che l’uomo, dal momento in cui è apparso sulla scena e ha preso coscienza di sé, ha concepito la vita nel suo inizio e nella sua fine come qualcosa di “sacro” e di “misteroso”, meritevole quindi di attenta riflessione.

La riflessione sulla vita dell’uomo non può poi andare disgiunta dalla riflessione sul male che la attraversa. L’uomo, anche qui – per così dire – da sempre, ha intuito che c’è un legame tra il male, anche fisico, e il male morale. Se ti comporti bene devi raccogliere frutti buoni, se ti comporti male devi raccogliere frutti cattivi. Questa constatazione però, frutto di un primo livello di riflessione, entra ad un certo punto in crisi.

È interessante notare come elementi di questa crisi si trovino in contesti culturali e religiosi molto diversi, come per es, Israele e l’India. In Israele la concezione di un rapporto stretto tra agire dell’uomo e retribuzione morale entra in crisi nella riflessione dei libri sapienziali, in particolare Giobbe e il Qoelet. Anche in India succede qualcosa di simile. Una delle concezioni più tipiche del pensiero indiano è infatti quella della corrispondenza tra karma e destino, due concetti che possono essere assimilati – facendo molta attenzione al carattere semplificatorio di questa assimilazione – a quelli di azione e reazione[6]. È con le Upanishad (e siamo attorno all’VIII-VII secolo a. C.) che la riflessione religioso-filosofica si afferma ed elabora, come soluzione del problema, la dottrina della reincarnazione. La crisi si profila mediante la riflessione su un dato ineludibile e inoccultabile dell’esperienza umana: molto spesso infatti all’agire buono non corrisponde – nell’ambito del mondo della nostra esperienza – una vita beata e all’agire malvagio una vita punita. «Ecco – canta il salmista – , questi sono gli empi: sempre tranquilli, ammassano ricchezze. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell'innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina. Se avessi detto: “Parlerò come loro”, avrei tradito la generazione dei tuoi figli. Riflettevo per comprendere: ma fu arduo agli occhi miei» (Sal 73,12-16). Il saggio delle Upanishad ipotizza allora che l’esistenza umana si manifesti in un insieme strettamente collegato e concatenato di diverse esistenze e che la situazione di una data esistenza presente sia il risultato di una esistenza precedente in una serie causalmente connessa. Questa prospettiva è coerente con un contesto metafisico che ignora il “principio di creazione”, concepisce conseguentemente il tempo in modo decisamente ciclico e interpreta l’esistenza del contingente e diveniente come “manifestazione” di un Assoluto non personalmente inteso.

 

3.    Chi si reincarna?

Proprio quest’ultima osservazione ci induce però ad ampliare e approfondire il nostro sguardo indagatore: qual’è l’antropologia che questa soluzione necessariamente comporta? Detto in altri termini: chi o che cosa trasmigra? Evidentemente qualcosa che intrattiene con il corpo un legame accidentale, quasi casuale, comunque avventizio. Certamente non essenziale.

Un passo famoso della Bhagavadgîtâ può assurgere a testimonianza sintomatica: «A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi»[7]. Questa marginalizzazione della corporeità si accompagna ad una considerazione problematica della persona, che tende anzi in alcune scuole a dissolversi. In perfetta coerenza d’altronde con una concezione impersonale dello stesso Principio assoluto.

Nel mondo della Bibbia questa operazione è impossibile proprio in virtù dell’antropologia che le è propria: qui il corpo fa la parte del leone. In modo così marcato da fornire un certo fondamento a teorie – come la Ganztodtheorie – che relegano la sopravvivenza dell’uomo ad un fattore puramente divino senza nulla concedere alla natura dell’uomo. In questo senso il confronto con la dottrina della reincarnazione può aiutare l’escatologia cristiana a ritrovare un approccio più equilibrato al dato biblico. Nel Nuovo Testamento si conferma e – per qualche aspetto – si accentua in virtù dell’evento centrale dell’Incarnazione del Verbo. La reincarnazione è proprio una dottrina che costituisce un punto discriminante e una reale difficoltà nell’assunzione – peraltro convinta – del pensiero platonico da parte dei Padri. La reincarnazione, in contesto giudeo-cristiano, finisce dunque per vivacchiare nell’ambito dello gnosticismo (neppure qui in posizione centrale) e nella cabbala (influenzata dallo gnosticismo). È solo nei tempi moderni che assistiamo in Occidente ad un ampio recupero ad opera soprattutto delle società Teosofica e Antroposofica (quest’ultima in modo particolare nell’area di lingua tedesca) ed è solo nel clima postmoderno (e postcristiano) della nuova religiosità che questo recupero diventa un fenomeno di massa.

A questo punto è già risultato evidente che la dottrina della reincarnazione non è un dettaglio esotico e marginale a livello quantitativo, ma emerge anche la sua non indifferenza rispetto a tutto il complesso della Weltanschauung cristiana. Vale la pena allora far emergere con maggiore chiarezza i presupposti che la pongono in aperta tensione con la visione cristiana del mondo e della vita. Questo in una prospettiva che risulta insieme teologica e filosofica.

Premetto che queste mie considerazioni non si rivolgono direttamente alle concezioni reincarnazioniste orientali. Questo certamente per mancanza di specifica competenza, ma anche perché il mio interesse si volge in modo particolare a come questa dottrina è recepita e vissuta concretamente in occidente. È stato da tutti osservato che la concezione orientale-tradizionale della reincarnazione e quella occidentale-moderna differiscono considerevolmente su punti tutt’altro che marginali. Innanzitutto il valore da dare a questo evento. Mentre per l’orientale il rinascere in nuovi corpi, siano essi di animali o anche di uomini è comunque visto con raccapriccio e l’ideale da perseguire è quello di uscire dal ciclo ripetitivo e colmo di sofferenza del samsâra e in ciò consiste la liberazione, il moksha; per l’uomo occidentale moderno un’altra nascita è vista come una nuova opportunità di continuare a vivere e di progredire. Da una parte abbiamo dunque una concezione per così dire “pessimistica”, dall’altra “ottimistica” della reincarnazione. Non solo: il contesto immanentista in cui l’occidentale vive, tutto teso alla ricerca della felicità attraverso la soddisfazione dei suoi desideri terreni, lo spinge a cercare la liberazione non in un cambiamento “di livello”, qualitativamente segnato, ma in nuove opportunità di vita. Il passato cristiano ha abituato l’uomo occidentale a coltivare aspirazioni “eccessive” che, una volta orientate nell’ambito ristretto del mondo mondano e sganciate dalla prospettiva della gratuità della grazia si sono rivelate di una tragica pericolosità: le ideologie del secolo scorso ne sono la prova. Nel contesto del crollo delle ideologie la reincarnazione “occidentale” sembra orientarle in un aldilà vissuto piuttosto come continuazione di questo mondo che come trascendimento del mondo in un’altra dimensione di vita: l’escatologia si converte in futurologia.

4.    L’identità personale

Il processo esistenziale, una volta che consapevolemente non è più concepito come rapporto dialogico con una Persona che gratuitamente offre la salvezza perché venga liberamente accolta, si ritrova tradotto nella categoria ormai diventata abituale del “progresso”, frutto di un impegno soltanto o almeno principalmente umano. Qui il problema di “chi trasmigra” – così complesso e bisognoso di letture differenziate in contesto orientale – trova una soluzione ad immediata portata di mano posto il contesto culturale: è l’ anima, l’anima della tradizione cristiana, inconsapevolmente caricata di valenze cartesiane, l’“io” della mia coscienza abituale e ingenua. Ad uno sguardo più attento però questa soluzione, accattivante nella sua ovvietà, si rivela un “falso amico”, perché induce in una prospettiva che è un vero nido di aporie filosofiche e rappresenta comunque un radicale allontanamento dalla fede cristiana in ciò che essa ha di più centrale. Non voglio qui entrare nella vexata quæstio se il termine persona possa essere attribuito con verità senz’altro all’anima (sant’Agostino) e non piuttosto al composto di anima e corpo (san Tommaso d’Aquino). Qui la posta in gioco è il tipo di rapporto che l’anima, come componente spirituale e immortale dell’uomo intrattiene con il corpo. La mia precisa identità personale è garantita soltanto da un principio interiore di carattere spirituale o comporta una connessione non avventizia con dei dati che attengono all’esistenza corporea? Un filosofo americano convinto reincarnazionista – Geddes MacGregor - imposta così il problema con molto humor e vivacità, ma non senza efficacia:

«Il reincarnazionista deve vedere il sé che è rinato come qualcosa d’altro rispetto al sé che io ho di solito in mente quando dico “me stesso” o “tu stesso”. Quando io parlo di “me stesso” mi riferisco normalmente a tutta la persona che io riconosco come me, incluso il timbro della mia voce, la curva delle mie sopracciglia e anche certe caratteristiche di cui voi probabilmente non siete a conoscenza, come il dito del mio piede danneggiato. Riflettendo tuttavia, devo ammettere che certe caratteristiche del sé di cui sto parlando sono effimere anche per la considerazione più comune, come un mal di schiena o un foruncolo sul mio collo. Essi possono essere con me quando parlo con voi oggi, ma non più, spero, quando vi vedo di nuovo domani. Proprio secondo questo modo di vedere comune, dunque, il sé non è interamente costante. Se mi presento davanti a voi con alcune caratteristiche molto insolite, come un eritema su tutto il mio volto, voi potete fermarvi un momento prima di riconoscermi; poi però direte qualcosa di simile a questo: “Dì un po’, che cosa ti è successo?” Dire qualcosa del genere vuol dire riconoscere che il sé, che ritengo di essere me e che voi riconoscete come me, ha patito un cambiamento, ma un cambiamento che, al di là dell’impressione e della sorpresa, è superficiale. Voi vedete, per così dire, al di sotto dell’eritema, il sé “reale” che continua ad avere lo stesso sorriso, la stessa espressione sbigottita, lo stesso suono della voce. Anche un drammatico incremento del mio peso o una sua allarmante diminuzione non sarebbero tali da far dire ai miei amici: “Chi è lei?”»[8]. Il procedimento ci conduce a cercare, al di là di ciò che ci appare come effimero e mutevole, un principio di consistenza e stabilità in cui ritrovare ciò che fa essere quell’uomo che mi sta davanti quella persona lì e non un’altra. Esprimendo questa ricerca con la terminologia scolastica che risale ad Aristotele – e che conserva rettamente intesa tutta la sua validità – ci sforziamo cioè di distinguere la sostanza dagli accidenti. Da ciò che è apparente, cioè manifesto ai miei sensi e che mi appare come un insieme di caratteristiche diverse, molteplici, diversamente mutevoli, a qualcosa che è oggetto del mio pensiero come il soggetto di tutte queste caratteristiche, che mi permette di percepirle come appartenenti ad una stessa realtà sia nello spazio che nel tempo. Si tratta di un cammino che ci spinge ad andare sempre più in profondità. «Fino a quanto in profondità?» si chiede MacGregor. Immaginiamo un uomo di nome Bob: «Il poveruomo ha sofferto un incidente che ha paralizzato la sua faccia e il suo corpo e che ha reso necessario sottoporlo ad una tracheotomia, in modo tale che parla solo con un rauco sussurrio, ben diverso da quella voce intensamente baritonale che io ricordo in lui. Dico ancora, soprattutto se amo e ammiro l’uomo, che, nonostante tutte queste sventure, è “sempre lo stesso vecchio Bob”. “Vedo” qualcosa in lui che è, direi, sempre lo stesso “nel profondo”. In questo “profondo” sé io posso trovare quel vecchio senso dell’umorismo, per esempio, e i ricordi di eventi passati che abbiamo vissuto insieme. Così, dopo tutto, ritengo che Bob sia sempre “lo stesso”»[9]. Questo andare in profondità, oltre il molteplice e il diveniente, se condotto con rigore e perseveranza porta a scoprire un principio assoluto che solo dà pienamente ragione e sottrae all’assurdo della contraddizione tutto questo che io colgo, qualora pensassi che fosse proprio tutta la realtà, senza residui. Così però, mediante un procedimento ben noto alla filosofia cristiana, dai padri greci fino alle famose cinque vie di san Tommaso d’Aquino, arriviamo ultimamente a ciò che “tutti chiamano Dio”, non a quell’io, a quel principio personale che stavamo cercando. Continua MacGregor: «Ora ci dobbiamo chiedere: quanto di Bob dovrebbe essere tolto per arrivare al punto che non sia più riconoscibile come Bob, fino a che forse non sia più Bob? Una tale questione potrebbe essere sollevata nella sfera dell’etica medica. Supponiamo che Bob, in aggiunta a tutte le altre sue disgrazie, perda le proprie facoltà in modo tale da diventare, come spesso si dice in queste tristi circostanze, “nient’altro che un vegetale”. Legalmente e ecclesiasticamente, i miseri resti di Bob che ancora vivono e respirano sarebbero ancora designati come ciò che era stato Bob nel fiore della sua salute; ma il sé che gli amici di Bob avevano conosciuto e amato sarebbe diventato irriconoscibile»[10]. Potremmo paragonare il procedimento da noi seguito allo sfogliamento di un carciofo – la metafora è sempre di MacGregor - «Avendo sfogliato il mio sé come si farebbe con un carciofo, posso aspettarmi di raggiungere in fondo un nocciolo non più sfogliabile che posso chiamare il mio intimissimo sé. Questo nocciolo comunque, anche se io potessi trovarlo, non è, dopo tutto, esattamente ciò che dovrebbe incarnarsi. perché questo intimissimo “me” è eterno e divino, puro e non mescolato»[11]. Partendo da un reale rilevamento fenomenologico che fu già di sant’Agostino che coglie Dio come «intimior intimo meo»[12] o di san Bonaventura che lo riconosce nascosto nel fondo dell’anima, siamo inavvertitamente trascesi dalla sfera dell’anima a quella di Dio senza cogliere la profonda ed essenziale «differenza ontologica». Questo errore di prospettiva è noto, dà ragione di tanti esiti nella storia della filosofia e della teologia; ma può anche aiutarci a rinvenire un’altra strada per cogliere il nucleo personale dell’uomo e prendere atto delle aporie della reincarnazione.  

   

    

 
 
 

Post N° 227

Post n°227 pubblicato il 15 Giugno 2008 da Antologia1


Cattolici confusi?


Molto di più:  perduti nella

ricerca  dell'occulto


Margherita Enrico
 
  
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Sono sempre più numerosi i cattolici che pur frequentando la Chiesa, credono nella reincarnazione, consultano maghi, cartomanti e guaritori, comunicano con i defunti, si affidano all'oroscopo, praticano discipline orientali.


Pare che questi cattolici ragionino con la loro testa incuranti della Parola di Dio e delle disposizioni della Chiesa: vanno a messa, e anziché fondare la loro speranza unicamente in Dio si affidano agli astri, all'occulto, desiderando un "Dio magico" che esaudisca subito le loro richieste e non chieda meditazione, riflessione, conversione. La caratteristica generale del mondo occulto è, infatti, l'ambizione più sfrenata "presto e subito ". La Chiesa Cattolica condanna apertamente: "…tutte le pratiche contrarie alla virtù della religione" (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2117), ma il cattolico pare non curarsene andando tranquillamente avanti per la propria strada inventandosi la propria religione su misura, o meglio il proprio cocktail religioso: un po' di yoga, una scorza di esoterismo e di magia, un pizzico di credenza nella reincarnazione, il tutto mescolato con qualche reminescenza del catechismo appreso durante gli anni dell'infanzia e che non è stato completamente rimosso, ma solo relativizzato in una gradevole mistura sincretistica destinata prima di tutto all'appagamento personale.


Queste considerazioni mettono in luce una società secolarizzata in cui Dio non è più in prima fila al centro dell'attenzione umana. Società che è diventata la base su cui nascono i nuovi movimenti occultistici e miracolistici, che si concretizzano in una nuova cultura, viaggiando nei pensieri e nelle riflessioni dei singoli e diventando un modo di concepire la vita opposto a quello cristiano.

 

l. Reincarnazione

Quasi tutti i cattolici che "credono" nella reincarnazione dicono di avere ricordi di esistenze passate e credono che la prossima vita sarà migliore. Frequentano regolarmente la Chiesa ma abbracciano il pensiero delle filosofie orientali e ne praticano le discipline.

Questi cristiani però, non si rendono conto che la reincarnazione è assolutamente incompatibile con la fede cristiana, perché rinnega l'Incarnazione e la Resurrezione di Cristo. Rinnegano la Salvezza operata da Gesù sul Calvario: con la reincarnazione si salvano infatti da soli. Inoltre, Dio, quando si è fatto uomo, non ha preso in prestito un corpo, non si è rivestito di un corpo, ma lo ha assunto in se stesso. E quel corpo è passato attraverso la morte. Il suo corpo glorioso, non è un corpo diverso da quello della sua esistenza terrena. Se no, non sarebbe la stessa persona. 

Questo significa che anche il nostro corpo risusciterà, e che l'anima ed il corpo che noi siamo non potranno godere la felicità se non insieme per sempre. Il nostro corpo, quindi, non è un corpo intercambiabile, destinato a scomparire, mentre la nostra anima sopravvive in altri corpi presi in prestito. Il nostro corpo è unico e destinato a raggiungere la nostra anima dopo la separazione provvisoria che la morte comporta: 

"L'unità dell'anima e del corpo è cosi profonda che si deve considerare l'anima come la “forma”del corpo; ciò significa che grazie all'anima spirituale il corpo composto di materia è un corpo umano vivente; lo spirito e la materia, nell'uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un' unica natura” (Catechismo della Chiesa Cattolica n.365) 

I cristiani che credono alla reincarnazione, non hanno chiaro il concetto della morte che credono semplicemente un passaggio ad un'altra forma di esistenza, senza che ci sia alcuna responsabilità nei confronti di Dio. Essi pensano che ciò che seminano in questa vita, lo raccoglieranno nel loro prossimo stato di reincarnati trascurando la Parola di Dio che ci dice :  "E’ stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio " (Eb 9,27).

 

2. Maghi e guaritori  

Molti  sicuramente troppi  cattolici si rivolgono agli operatori dell'occulto per questioni materiali come lavoro e denaro e per problemi familiari e di salute. Quasi tutti hanno la convinzione di non fare nulla di male, ma di chiedere solo quello che loro chiamano “un aiuto in più”. Ma ci può essere qualcosa “in più” di Dio? Pare proprio che alcuni cristiani credano di sì. 

Quasi tutti poi, in cerca di una religione dolce a proprio uso e consumo, mischiano concetti occultistici teosofici alla fede cristiana. La Chiesa al n. 2117 del Catechismo condanna apertamente ogni forma di magia ed occultismo come contraria al primo comandamento. La divergenza più significativa tra cristianesimo e magia risiede nel fatto che il mago o lo stregone deve comunemente fare appello alle forze demoniache per assicurare l'efficacia della sua azione.

La severità della Bibbia verso tutte le pratiche di magia, stregoneria e dei loro derivati spiritismo e divinazione, si manifesta sin dagli inizi della rivelazione ebraica: "Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o l'augurio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti" (Dt 18,10)

Anche negli Atti degli Apostoli vi sono chiari riferimenti contro la magia. Simon mago viene condannato severamente perché sfruttava la potenza della Spirito a beneficio delle sue pratiche magiche (cfr. At 8, 9-26); e san Paolo rimprovera duramente il mago Elimas perché si opponeva alla conversione del proconsole Sergio (cfr. At 13, 8-12). E ad Efeso: "Un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano davanti a tutti" (At. 19,19).

Quindi tutto ciò che riguarda i presunti "poteri "dell'essere umano sul mondo divino o spirituale che con le sue innumerevoli creature "diaboliche","angeliche", "spiriti di natura ", o di "trapassati"si piegherebbe al volere dell'uomo per mezzo di riti e preghiere, è in netta contrapposizione con la fedeltà e il culto che si deve solo al Dio creatore. E’ il primo comandamento del decalogo: "Non avrai altri dei davanti a me"

 
 
 

Post N° 226

Post n°226 pubblicato il 08 Giugno 2008 da Antologia1

 

       IN PRIMO PIANO:


B. XVI: un relativismo pervasivo e non di rado aggressivo


Quando, infatti, in una società e in una cultura segnate da un relativismo pervasivo e non di rado aggressivo, sembrano venir meno le certezze basilari, i valori e le speranze che danno un senso alla vita, si diffonde facilmente, tra i genitori come tra gli insegnanti, la tentazione di rinunciare al proprio compito, e ancor prima il rischio di non comprendere più quale sia il proprio ruolo e la propria missione... Anche qui, in certo senso specialmente qui, dobbiamo fare i conti con gli ostacoli frapposti dal relativismo, da una cultura che mette Dio tra parentesi e che scoraggia ogni scelta davvero impegnativa e in particolare le scelte definitive, per privilegiare invece, nei diversi ambiti della vita, l'affermazione di se stessi e le soddisfazioni immediate.

 

 

 
 
 

    COSA NE PENSATE ?? 

Post n°222 pubblicato il 08 Giugno 2008 da Antologia1

«Siamo una società cinica. Perché mancano esempi positivi»
 il sociologo Carboni


 Dati i comportamenti visibili delle élite, prevalgono atteggiamenti opportunistici
 DA MILANO
 « I cambiamenti di un Paese sono possibili se la classe di­rigente si pone come esem­pio per il resto della popolazione. Se manca l’esempio, tutto diventa più difficile e la classe dirigente diventa un’élite autoreferenziale». Il sociologo Carlo Carboni studia da molto tempo le dinamiche esistenti tra le stanze del potere e l’opinione pubblica. Nell’ulti­mo suo libro, La società cinica,
  pubblicato per i ti­pi di Laterza, af­fronta quel che chiama « il males­sere italiano » non solo dal lato del­­l’offerta ma anche della domanda. «La società italiana non è ignorante – spie­ga Carboni –, tanto che meccanismi come la comunicazione, l’istruzione e l’informazione riescono a selezio­nare una cittadinanza più consape­vole e competente. Il problema è che la mancanza di esempi ' alti' da par­te della classe dirigente ha portato gli italiani a comportamenti di adatta­mento e indifferenza, a Nord come a Sud » .
 Una società cinica fino a quando po­trà fare a meno del merito?

 Purtroppo, c’è la convinzione che il merito sia un concetto astratto e che ognuno faccia bene a pensare esclu­sivamente ai propri interessi: se devo fare un colloquio di lavoro, è meglio poter contare su eventuali parentele piuttosto che sulle competenze che ho acquisito. In realtà, dobbiamo in­tenderci bene quando parliamo di merito.
 In che senso? Quali distinzioni vanno fatte?

 Non possiamo intendere il merito so­lo in chiave educativa. Lo dico da do­cente universitario: sono contrario al­la tirannia del titolo di studio. Ci sono almeno due tipi di merito: c’è il meri­to scolastico e c’è il merito di merca­to. Nel primo caso, non è giusto equi­parare la laurea triennale a quella spe­cialistica. Chi fa i primi tre anni all’u­niversità ha un ' di più' culturale, ma solo chi continua nei due anni suc­cessivi vede applicato il merito in mo­do selettivo. E la selezione si comple­ta con l’ingresso nel mercato del la­voro.
 A che punto è l’Italia nella tanto an­nunciata

 « rivoluzione
del merito » ?
 C’è una fase di appannamento che ri­guarda ancora il sistema scolastico, mentre sul piano del merito di mer­cato siamo tranquillamente ai livelli della Germania. I nostri imprendito­ri, che sono a contatto con la concor­renza internazionale, i meccanismi di selezione e di promozione dei talenti li vivono, li subiscono e li creano. Non è un caso che la Confindustria sia u­na delle poche organizzazioni nel no­stro Paese che abbia mostrato corag­gio nell’avvicendamento ai vertici, con l’avvento di una donna, Emma Mar­cegaglia, dopo la stagione di generali consensi targata Montezemolo. Quan­do il sistema funziona, le leadership possono tranquillamente cambiare senza che vi siano scossoni.
 Perché in politica non è ancora così?
 
In politica tutti vincono e tutti perdo­no. Si modificano i contenitori, ma mai gli uomini. Il ricambio genera­zionale, nonostante l’inserimento in Parlamento di giovani e donne in mi­sura maggiore rispetto al passato, av­viene sempre troppo lentamente.
 Che cosa pensa della proposta di creare un’Authority del merito?

 È meglio modificare certi costumi dal­l’interno: i rettori delle università dia­no meno importanza al numero degli iscritti e più peso alla qualità dell’of­ferta formativa, la pubblica ammini­strazione recuperi l’efficienza e il pre­stigio perduti. Il merito diventi la co­lonna portante del cambiamento e la società non si illuda che tutto possa cambiare da un momento all’altro. Il percorso è lungo.
 Diego Motta
 

 

 

   

 
 
 

Post N° 220

Post n°220 pubblicato il 07 Giugno 2008 da Antologia1

 
 COSA C’E’ DIETRO LA SPARATA DI D’ALEMA SULLA CHIESA

 27.05.2008 

 
Retroscena divertenti, due aspetti drammatici e un interrogativo curioso….

 
Per uno che si chiama Massimo non è facile ammettere l’esistenza di Dio (almeno nella forma monoteista). E’ quasi un controsenso, deve aver pensato D’Alema che, infatti, si definì “ateo” fin dai primi giorni di scuola non partecipando alle lezioni di religione. Come il bambino saccente della battuta di Walter Fontana che rispose a chi gli chiedeva se credeva in Dio: “Beh, credere è una parola grossa: diciamo che lo stimo”.


Anche quello di D’Alema col Padreterno infatti è un rapporto da pari a pari, da collega. Per questo – come si è appreso ieri dai giornali – D’Alema ha ritenuto di impartire qualche lezione al Papa sul come rappresentare gli interessi dell’Altissimo nelle vicende politiche italiane.

Eppure … Proprio il recente convegno dalemiano su “religione e politica” nasconde una inquietudine personale che – per quanto mi riguarda – osservo da tempo. Un’ansia religiosa nascosta, ma bruciante e qualche volta commovente. Per capire la quale occorre entrare nel “personaggio D’Alema” per cui io confesso una spiccata simpatia. Trovo interessante proprio l’apparenza di antipatia e arroganza dietro cui si nasconde l’uomo, con la sua complessità, la sua intelligenza e il suo spleen.

L’esordio politico del “Lìder Massimo” fu fantastico ed emblematico. Infatti il piccolo D’Alema, figlio di un autorevole parlamentare del Pci, come rappresentante dei “Pionieri” scrisse da solo e tenne in pubblico, davanti a Palmiro Togliatti, un discorso così dotto che il capo comunista ammirato sentenziò: “se tanto mi dà tanto questo farà strada”. Secondo una versione apocrifa riportata da Edmondo Berselli avrebbe anche detto: “Ma quello non è un bambino, quello è un nano”. Intendendo “enfant prodige”.

In effetti fu un leader precoce. Purtroppo però c’è sempre qualche intoppo che impedisce al mondo di riconoscerlo per quello che è (o almeno giudica equanimemente di essere): un vero gigante del pensiero (politico). Che impartisce lezioni pure a Condoleeza Rice.

La natura introversa di questo statista “dei due mondi” causa la sua proverbiale ruvidità. Pur con i suoi modi bruschi però non perde occasione per regalare all’umanità il pane della sapienza (politica) che in effetti mastica assai. Ma la gente, si sa, è ingrata. Invece di mostrare riconoscenza per il fatto di venire maltrattata da cotanto ingegno (pedagogico), i più prendono cappello e lo scansano come antipatico strafottente. Lui che invece è solo sincero. Anche i suoi gesti di amicizia vengono spesso fraintesi. Per esempio al tempo del primo governo Prodi, dopo un forum all’Espresso, uno scherzoso D’Alema disse a Rinaldi e a Pansa: “Vedi, Pansa è un bravissimo giornalista, solo che di politica non capisce un cazzo, peggio di lui c’è solo Prodi”. Il premier non la prese benissimo. Un’altra volta, al telefono, parlando sempre con Pansa e con Rinaldi, definì affabilmente Veltroni e Prodi come “i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi”. Ma aggiunse: “se lo scrivete smentirò”. Infatti appena lo scrissero lui smentì, intuendo quanto è facile che una gioviale espressione d’amicizia venga fraintesa o strumentalizzata dai maligni.

Certo, D’Alema va interpretato. Non è facile cogliere in un ceffone un attestato di stima. Eppure quando definisce Giulio Tremonti “un pensatore neoconservatore, peraltro modesto”, non dà solo prova di una solida “autostima” (come ritiene Berselli), ma – paradossalmente – anche di notevole invidia intellettuale, riconoscimento che riserva a pochissimi. La cosa dovrebbe inorgoglire il ministro dell’Economia. Peccato che i sentimenti di D’Alema non siano di immediata comprensione.

Se ci si ferma all’apparenza si può scambiare una sua nota battuta (“capotavola è dove mi siedo io”), per un segno di arroganza. E’ chiarissima invece, seppur lieve, l’autoironia e l’incertezza esistenziale, quella che in una delle sue rare confessioni personali gli faceva indicare in “Lezioni di piano” il film della sua vita (una sorprendente predilezione che rivela un animo molto sensibile alla bellezza e al mistero).

Il disincanto sulle umane sorti lo induce a giudizi autoirnici che sfiorano la spietatezza: “La sinistra è un male che solo la presenza della destra rende sopportabile”. Queste considerazioni sono alla base della sua notevole disinvoltura tattica. E’ capace di stabilire le alleanze più impensabili. Anche se il tipo è solidamente fedele alle proprie idee. Sebbene passi alla storia per le polemiche sulla barca a vela o sulle scarpe, è uno dei pochi che ha osato sfidare di persona, a viso aperto, in un auditorium fiorentino, una rumorosa platea di nemici girotondini senza arretrare di un passo. Mostrando una stoffa da leader che pochi hanno (anche se – va detto – come premier non ebbe lo stesso coraggio politico e deluse).

Da quel fronte giacobino fu bersagliato di critiche anche quando presenziò alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, in piazza San Pietro. Sulle colonne del “Paìs” lo scrittore Antonio Tabucchi lo attaccò per le sue dichiarazioni, in quanto D’Alema aveva riconosciuto “la forza della fede di ramificarsi che ha la Chiesa in tutte le sue espressioni, nei suoi movimenti, nei suoi uomini, nelle sue donne”.

Altri attacchi gli toccarono quando, da presidente del Consiglio, fece visita papa in Vaticano a papa Wojtyla, con famiglia al seguito. Perciò sorprende che oggi lo stesso D’Alema diffidi la Chiesa dall’avvicinarsi al governo. A suo dire cederebbe “alla tentazione del potere” facendo sì che “il peso politico dei cattolici si indirizzi da una parte per ottenere in cambio la tutela giuridica di principi e valori, come aborto o fecondazione, perché diventino leggi imposte a tutti colpendo la laicità dello stato”. Che significa leggi imposte? Una legge approvata dalla maggioranza dal Parlamento è imposta? E che faceva D’Alema quando come premier visitava il Papa o presenziava alla suddetta canonizzazione? Cercava Dio o un rapporto politico? O forse entrambi? E quando, nel 1990, andò in piazza San Pietro con Veltroni e Formigoni ad ascoltare l’Angelus, grato per la sua opposizione alla prima Guerra del Golfo?

Sembra che la Chiesa debba e possa occuparsi di politica solo se fa comodo alla Sinistra. Questo sì che è asservirla. Naturalmente in ciò che D’Alema ha detto ieri c’è pure del giusto, anche quando presume di impartire una lezione al Papa dicendo: “La tentazione del potere è demoniaca e sempre, nella storia della Chiesa, è stata all’origine di misfatti”. Penso che Benedetto XVI concordi. Sennonché il pulpito non è dei migliori, essendo stato D’Alema un dirigente del Pci, parte di quel movimento comunista internazionale che sulla natura demoniaca del potere la sa lunga. Così è anche curioso che D’Alema rinfacci i “misfatti” della Chiesa “di cui Giovanni Paolo II ha dovuto chiedere perdono”, venendo da quel comunismo internazionale che non ha chiesto perdono di nessuno dei misfatti compiuti (specialmente contro la Chiesa).

E’ strana questa sinistra. Domenica sull’Unità, il giornale più anticristiano su piazza, è apparso un alto lamento di Vincenzo Cerami intitolato “Cristianesimo”. Denunciava la fine della solidarietà nella nostra società. Diceva: “Il cristianesimo in Italia è al lumicino. E’ ormai palese. Oggi qui da noi con l’aria che tira metterebbero san Francesco in galera… L’Italia ha dimenticato che Gesù è stato inchiodato alla croce proprio perché aveva scelto i poveri in spirito”.

Ma chi ha cancellato Cristo dall’anima del Paese? Recentemente la Sinistra ha pure osannato il suo Piergiorgio Odifreddi per il libello “Perché non possiamo essere cristiani”, dove si legge che il cristianesimo è “una religione per letterali cretini” ed “è indegno della razionalità e dell’intelligenza dell’uomo”. E poi si lamentano che è scomparso il cristianesimo? Non dicevate che è un bene che scompaia? D’Alema che ne dice?

Antonio Socci


Da Libero 27 maggio 2008

  

 
 
 

Post N° 219

Post n°219 pubblicato il 06 Giugno 2008 da Antologia1

   

DAVVERO  

INTERESSANTIS-

SIMO ... !!

   

  

 

  Cardinale G. Biffi:   Sarebbe onesto riconoscere che ciascuno ha i suoi dogmatismi, e li ritiene indiscutibili, mentre biasima fieramente quelli degli altri...

 

 

  È innegabile che l'odierno momento culturale sia connotato dalla complessità; una complessità che sarà magari preziosa e feconda, ma che a noi, uomini comuni capitati nella nostra epoca, appare più spesso traumatica e disorientante.

  

A ben guardare, il nostro disagio nasce dal fatto che non solo di complessità molte volte si tratta, ma anche di eterogeneità: le voci che risuonano nei moderni areopaghi sono spesso del tutto estranee tra loro e incomunicabili, sicché il dialogo - da tutti invocato - quando non è superficiale e retorico, è senza approdi gratificanti.

 

È notevole che si tratta, per così dire, di una "eterogeneità soddisfatta". È una confusione delle lingue dove tutti sono benvenuti. Quanto più eterogeneo è il multiloquio, tanto più appare esaltato e si radica nelle coscienze il solo assioma che nessuno oggi contesta - una specie di verità di fede senza Rivelazione - e cioè la "relatività assoluta" (per così dire) di ogni affermazione e la certezza dell'impossibilità a raggiungere delle vere certezze.

 

In questo affollato circolo culturale - dove più gente entra più lo spettacolo si fa agli occhi di molti piacevole e interessante - i soli a non essere graditi e a venire guardati con sufficienza, perché ritenuti intolleranti e dogmatici (e quindi impresentabili nella società moderna e postmoderna), sono quelli che contestano la "verità di fede" di cui si parlava e rifiutano l'indiscutibilità delle premesse relativistiche e scettiche.

 

Quanto ai dogmatismi, sarebbe onesto riconoscere che ciascuno ha i suoi, e li ritiene indiscutibili, mentre biasima fieramente quelli degli altri. In realtà, senza qualche certezza preliminare e fondante, non si può dire alcunché, neppure la tavola pitagorica; non si può scrivere neppure il sillabario; non si può pensare a nulla, neppure dove si andrà a passare le ferie.

 

Una differenza sostanziale però c'è tra i così detti dogmatismi: ci sono certezze che, appoggiate sul niente, avviano l'uomo al niente; e ci sono certezze che provengono dall'Essere che si manifesta, e guidano verso la vita eterna.

 

 

CONTINUA .....

 

  

 
 
 

Post N° 218

Post n°218 pubblicato il 06 Giugno 2008 da Antologia1

   

DAVVERO  

INTERESSANTIS-

SIMO ... !!

   

  

 

  Cardinale G. Biffi:   Sarebbe onesto riconoscere che ciascuno ha i suoi dogmatismi, e li ritiene indiscutibili, mentre biasima fieramente quelli degli altri...

 

 

  È innegabile che l'odierno momento culturale sia connotato dalla complessità; una complessità che sarà magari preziosa e feconda, ma che a noi, uomini comuni capitati nella nostra epoca, appare più spesso traumatica e disorientante.

  

A ben guardare, il nostro disagio nasce dal fatto che non solo di complessità molte volte si tratta, ma anche di eterogeneità: le voci che risuonano nei moderni areopaghi sono spesso del tutto estranee tra loro e incomunicabili, sicché il dialogo - da tutti invocato - quando non è superficiale e retorico, è senza approdi gratificanti.

 

È notevole che si tratta, per così dire, di una "eterogeneità soddisfatta". È una confusione delle lingue dove tutti sono benvenuti. Quanto più eterogeneo è il multiloquio, tanto più appare esaltato e si radica nelle coscienze il solo assioma che nessuno oggi contesta - una specie di verità di fede senza Rivelazione - e cioè la "relatività assoluta" (per così dire) di ogni affermazione e la certezza dell'impossibilità a raggiungere delle vere certezze.

 

In questo affollato circolo culturale - dove più gente entra più lo spettacolo si fa agli occhi di molti piacevole e interessante - i soli a non essere graditi e a venire guardati con sufficienza, perché ritenuti intolleranti e dogmatici (e quindi impresentabili nella società moderna e postmoderna), sono quelli che contestano la "verità di fede" di cui si parlava e rifiutano l'indiscutibilità delle premesse relativistiche e scettiche.

 

Quanto ai dogmatismi, sarebbe onesto riconoscere che ciascuno ha i suoi, e li ritiene indiscutibili, mentre biasima fieramente quelli degli altri. In realtà, senza qualche certezza preliminare e fondante, non si può dire alcunché, neppure la tavola pitagorica; non si può scrivere neppure il sillabario; non si può pensare a nulla, neppure dove si andrà a passare le ferie.

 

Una differenza sostanziale però c'è tra i così detti dogmatismi: ci sono certezze che, appoggiate sul niente, avviano l'uomo al niente; e ci sono certezze che provengono dall'Essere che si manifesta, e guidano verso la vita eterna.

 

 

CONTINUA .....

 

  

 
 
 

 - LINK -

Post n°217 pubblicato il 05 Maggio 2008 da Antologia1

        
       
      
      
  
  1carinodolce  LINK   musica belliisssssima, travolgente!!  *************************       
      
      
       
        

         

 
 
 

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Post n°216 pubblicato il 05 Maggio 2008 da Antologia1

     

    

     

      

         

      

       

        

          

 
 
 
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