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LUCA MANNI - RACCONTI 2

Post n°68 pubblicato il 10 Gennaio 2010 da Margherita281028

L'unico che mi è rimasto accanto

Ormai non ho una donna, se si esclude la deliziosa signora che quasi ogni giorno mi allunga qualche spicciolo fuori dalla chiesa. Non ho più un lavoro, a parte raccattare le bottiglie per strada e portarle al chiosco di Miguel per il riciclo. Naturalmente non ho neanche una casa, a meno che non si vogliano chiamare così il giardinetto della stazione o il mio vecchio sacco a pelo. Tutto ciò che mi rimane al mondo è l'ebbrezza che sa regalarmi il mio inseparabile Don Simón rosso, che ultimamente è l'unico vino che le mie quattro monete quotidiane riescono a comprare. Posso rinunciare a mangiare e a dormire, ma non posso stare più di dieci minuti senza bere un sorso dal mio cartone. Lo stomaco e il fegato hanno rinunciato da un pezzo a combattere l'alcol etilico che ingerisco continuamente e ogni tanto mi vengono dei dolori lancinanti alla pancia e vomito sangue, anche se non so bene per quale motivo. Poco male, ormai non mi aspetto più niente dalla vita se non che si levi di mezzo al più presto, così non dovrò più svegliarmi la mattina, alzarmi e cominciare a vagare per il quartiere come un morto vivente. Vorrei solo poter portare con me nell'aldilà il mio amato compagno di avventure, l'unico che mi è rimasto accanto tutta la vita senza mai tradirmi o abbandonarmi, silenzioso e fedele come un buon cane, inebriante ed eccitante come la passione per una donna, comprensivo e disponibile come il migliore degli amici, più saggio e profondo di tutti i filosofi. Lui sa darmi sempre il consiglio giusto, ma non mi rimprovera mai e se deve contraddirmi lo fa sussurrando alla mia coscienza, in modo che io abbia la sensazione di arrivarci da solo.
La prima volta che l'ho assaggiato avrò avuto dieci o dodici anni, ero in vacanza con mio padre, da qualche parte sull'Appennino tosco-emiliano. Eravamo a cena nella trattoria del campeggio, il nostro tavolo era di fianco a una grande finestra che dava sulla piscina, più in basso di qualche metro, mentre il sole si approssimava alla linea dell'orizzonte. Erano giornate faticose, papà non mi concedeva un momento di pausa, andavamo in continuazione su e giù per i boschi e i paesetti della zona, per questo la sera ero sempre distrutto. Stanco sì, ma soprattutto soddisfatto e contento di dimostrare a mio padre che poteva essere orgoglioso di me. Spronato dal clima disteso e per me un po' esotico e sicuro di meritare un piccolo premio per il mio buon comportamento di quei giorni, afferrai la brocca del vino e, cogliendo lo sguardo di approvazione di papà, me lo versai nel bicchiere, finché lui mi fermò con un gesto dolce dicendo: -Basta così-. Mi sentivo grande in quel momento, come quando mi fu concesso di stare sul sedile davanti della macchina o quella volta che riuscii a leggere tutto La storia infinita nonostante le maestre sostenessero che non ce l'avrei mai fatta. Presi in mano il bicchiere e annusai con emozione quella leggendaria bevanda violacea che così spesso avevo ammirato come simbolo dell'"essere grandi", ma di cui ancora ignoravo il sapore. Da sempre i miei genitori bevevano vino durante i pasti, ma fino ad allora, finché il contesto era rimasto quello di casa, non mi era mai passato per la testa di chiedere se potevo provarlo, era semplicemente fuori dalla mia portata e la questione non si poneva neanche. Ma ora era diverso, percepivo la complicità tra me e mio padre, volevo sentirmi uomo anch'io e colsi al volo l'occasione. Brindammo e bevvi il primo piccolo sorso. Ricordo il piacevole calore che scese dalla gola allo stomaco facendomi rabbrividire e quel sapore caratteristico, così diverso da come l'avevo immaginato! Continuai a bere, sempre più rapidamente, mi piaceva parecchio, così ci vollero solo pochi minuti perché quella nuova sostanza mi salisse al cervello e ne alterasse il funzionamento: cominciai a ridere sommessamente, avevo la sensazione che all'improvviso tutto quello che mi circondava fosse estremamente divertente, le parole mi uscivano dalla bocca da sole, a raffica, senza che potessi controllarle, mi pervadeva una gioia profonda, ero semplicemente felice, come poche altre volte in seguito mi è capitato di essere. Poi le mie risa si fecero più forti e anche papà cominciò a ridere di gusto, contagiato dal mio irrefrenabile impeto. Cercai di versarmi altro vino ma lui me lo impedì e io non protestai, anche perché non mi rendevo perfettamente conto di quello che facevo o dicevo, né di ciò che mi capitava intorno. Quell'episodio fece scattare la scintilla che più avanti avrebbe reso il vino la mia più grande passione. In particolare, ricalcando la mia modesta estrazione sociale, o magari proprio per questa, sono sempre stato attratto dai vini da tavola delle osterie e delle bettole, quelli rozzi e acidi che allappano la bocca, più che da quelli rinomati e, per me, troppo costosi, forse appunto perché non me li sono mai potuti permettere, ed ecco perché ora non mi crea problemi trangugiare a litri quel Don Simón che molti chiamano "aceto".
Tra i servizi più apprezzabili che il vino sa offrire c'è l'arginamento della timidezza, il suo smussamento, e non l'eliminazione, che causerebbe un'irreale trasfigurazione della personalità, ma il mantenerla evidente pur impedendole di essere un ostacolo. In pratica il vino tira fuori quello che per pudore o vergogna da sobrii si tende, più o meno inconsciamente, a nascondere. La sua complicità in questo senso è stata essenziale la prima volta che ho fatto l'amore e tante altre successive. Sara veniva alle medie con me, frequentavamo entrambi la terza ma in classi diverse, fu la mia prima storia d'amore e forse la più sincera perché priva di quella malizia che crescendo si impara a indossare come una corazza. Parlavamo spesso di sesso, naturalmente come possono parlarne due ragazzini che ne hanno solo una vaga idea indotta dalla TV e da poco altro. Avevamo deciso di farlo, ma non era facile trovare l'occasione giusta. Lei voleva che fosse il mio regalo di compleanno e proprio alla mia festa le circostanze favorevoli si presentarono. Immerso in quel clima allegro e spensierato, ebbi la brillante idea di rubare una bottiglia di Verdicchio dalla scorta dei miei e, un po' per il gusto della trasgressione, un po' per farmi grande ai suoi occhi, la portai a Sara e ci nascondemmo in camera mia per bere. Dopo due sorsi a lei girava già la testa e io cominciavo a sentirmi euforico. La baciai con ardore e ci stendemmo sul letto avvinghiati, diedi l'ultimo lungo sorso e iniziammo a spogliarci. Se non fosse stato per il Verdicchio che mi circolava nel sangue credo che non sarei mai riuscito a disinteressarmi completamente di tutti i miei amici in giro per la casa cercandomi, o delle conseguenze che poteva avere quel nostro gesto un po' sconsiderato, una su tutte le lenzuola macchiate che mia madre avrebbe dovuto lavare. Grazie al vino il nostro amore poté esprimersi nella più completa libertà e nell'assenza di qualunque pensiero oscuro o preoccupazione. Fu il più bel regalo di compleanno che potessi ricevere. Il giorno dopo i miei genitori si resero perfettamente conto di tutto ma, essendo sempre state persone molto aperte e tranquille, non mi dissero nulla, anzi, ripensandoci più avanti negli anni, forse mi sarebbe piaciuto che l'avessero fatto.
Questa panchina sul porto è la mia preferita, nelle giornate di sole la luce del tardo pomeriggio che accarezza le calme onde della baia emana riflessi incantevoli, mi piace immaginarli come benevoli sorrisi di un mondo che, compassionevole, accompagna me e il mio dolce nettare verso la fine.


Nel purgatorio

Mi trovavo in quella stanza quasi per caso, ero a disagio, avevo una penna in mano, non so bene per quale motivo. La luce era quella calda di un antico ed elegante lampadario e dalla finestra aperta entrava una brezza estiva piuttosto piacevole. Mi guardavo intorno circospetto, ma riuscivo a convincermi che non avevo motivo di preoccuparmi, che nulla poteva turbare il mio equilibrio. Non ero più a disagio, anche se un senso di incompletezza continuava a campeggiarmi dentro nascosto tra le pieghe della coscienza. Ogni cosa non poteva essere più tranquilla e silenziosa, mentre non smettevo di ammirare l'arte dei mobili e la raffinatezza dello stile della camera che così nobilmente mi ospitava. Ero ora quasi estasiato al pensiero di quanti anni separavano quello stesso momento e la nascita degli oggetti e della costruzione che mi circondavano. La mia mente vagava leggiadra tra i meandri della storia, immaginando e fantasticando sulle sue meraviglie, ingenuo...
Con un forte sobbalzo ricaddi nella grezza realtà (che è in vero tutto quello che abbiamo), e una pazza scatenata spalancò violentemente la porta che mi separava dal trambusto della casa. Sbraitando qualcosa che mi rifiutai di comprendere, corse, quella pazza, a serrare la finestra e, sempre imprecando, iniziò a riordinare le carte che stavano sparse sulla parte opposta del tavolo a cui sedevo. L'isterica creatura si rivolgeva a me senza guardarmi, fintamente indaffarata coi suoi fogli imbrattati.
Respiravo lentamente e la mia calma deve averla irritata al punto che le urla si fecero più feroci e mi parve di afferrare qualche bestemmia nel suo concitato monologo. Poi tacque: l'ira furibonda che leggevo nella sua espressione mi lasciò indifferente, quasi mi divertiva, a dispetto di una condizione umana che ancora (ma per fortuna solo in parte) rappresentavo. Mia moglie uscì in preda ad un cieco furore e la pace tornò a regnare nella stanza.

 

Cronaca di una partenza (da Bologna verso Almeria)
Vera cronaca del viaggio compiuto nel 2007 per effettuare, presso l'Università di Almerìa, un periodo di studio nell'ambito del progetto ERASMUS

Alle 19 e rotti del 20 settembre mi chiudo alle spalle la porta di casa e apro la parentesi di un viaggio che si prospetta quantomeno estenuante. In realtà, quasi 24 ore più tardi, mi renderò conto del fatto che la lingua italiana non mette a disposizione un termine che possa descrivere l'agonia di detto trasferimento.
Entro nella stazione con buon anticipo su quello che sono convinto sarà l'orario di partenza dell'Intercity per Milano Centrale. Il mio stato d'animo è neutro, l'unico pensiero è quello di arrivare ad Almerìa col minor dispendio possibile di energia e denaro. In realtà, nonostante la mia pace interiore, ben presto mi sale la botta di stanchezza tipica dei momenti che precedono un evento che mette alla prova la mia emotività (ad esempio un mio concerto). Mi prende un terribile sonno psicologico dovuto alla tensione latente. Poco male, penso che nelle due ore scarse di treno mi ripiglierò senza problemi. Peccato che l'Intercity che sto aspettando abbia un'ora e qualcosa di ritardo, dettaglio che sarebbe trascurabile se non si traducesse nella sventura di perdere il pullman per Malpensa. Bestemmie a denti stretti. Dentro di me inveisco contro la sfiga, poi più concretamente contro le Ferrovie dello Stato. Dopo qualche minuto di silenziose imprecazioni, realizzo che potrei prendere l'Eurostar, sperando che sia possibile cambiare il biglietto già obliterato. È possibile. Ho la sensazione che quei 5 euro per l'integrazione del costo del biglietto mi stiano venendo estorti, ma l'aver scongiurato il pericolo di arrivare tardi a Milano seda la mia rabbia. Per pochi secondi. Alzo lo sguardo al tabellone delle partenze e leggo "30 m" nella colonna "ritardi" in corrispondenza del mio treno. Il mio cervello si blocca a metà tra la disperazione e la sensazione di essere preso per il culo. Rimango impietrito in mezzo all'atrio con un groppo in gola, sto per mettermi a piangere. Ma la mia razionalità, coadiuvata da un fatalismo che mi fa pensare "oh, io faccio il possibile, poi sarà quel che sarà", si mette in moto e facendo un breve calcolo capisco che con un po' di profumo della vita (Gianni, l'ottimismo..) dovrei arrivare esattamente all'ora della partenza del pullman. Non mi resta che aspettare. Aspetto. Parecchio.
Arriva sto cazzo di treno, con un ritardo che neanche a dirlo è superiore a quello annunciato.
In effetti l'Eurostar è una figata. Il capotreno, con una voce da doppiatore di film sentimentali, ti dà un caldo benvenuto dagli altoparlanti, ti racconta un po' di menate e ti lecca un po' il culo come per dare un senso a quei 5 euro in più che le ferrovie ti chiedono per arrivare comunque in ritardo, ma un po' meno che con l'Intercity. Alla fine, quando ti dice che il treno ha accumulato 80 minuti di ritardo per un problema di tensione sulla linea, ti viene comunque da mandarlo a cagare, ma un po' meno. A questo punto, per quanto ne so, sono cazzi acidi. Ho perso l'ultimo pullman per Malpensa e da quello che mi ricordo il primo della mattina è comunque troppo tardi per arrivare in tempo al check-in. Esco dalla stazione, altro momento di annebbiamento del cervello, la mia espressione sta urlando: "e adesso che cazzo faccio?". Tra l'altro mi rendo conto che mi sopravvalutavo quando pensavo che avrei trasportato agevolmente il borsone da basket strapieno di vestiti: questi 15 kg scarsi non sono un peso inumano, ma diventano parecchio molesti se li devi portare in giro tipo borsa della spesa. Per non farlo sbattere contro il ginocchio, cosa che se non evitata, oltre a farmi assumere l'andatura di uno storpio ubriaco, potrebbe causarmi danni irreversibili al pacchetto* rotula-menisco, devo tenere il braccio un po' sollevato. Per cui ciao tricipite, ciao bicipite, ciao clavicola, ecc. Come se non bastasse le maniglie sono state progettate con lo scopo di mandarti a culo le mani, che infatti ben presto saranno gonfie, paonazze e spellate e mi bruceranno da paura per 2 giorni. Maledico il giorno in cui l'uomo ha inventato la ruota che mi fa schiattare d'invidia quando vedo quei comodissimi trolley da 30 chili trasportati con un dito (ma tu si n'ashtronauta!). Mia mamma mi aveva detto: -Vuoi che prendiamo un trolleyno?- (lei mette il diminutivo a tutte le parole per sembrare più discreta) e io naturalmente avevo risposto: -Macchè trolley..-, convinto che fosse una cosa da fighetti borghesi..
Tutto questo anche per dire che la mia mobilità è piuttosto limitata e prima di prendere la decisione di spostarmi, devo davvero essere convinto di quello che sto per fare. Dopo questa pausa di pseudo-riflessione/riposo, mi dirigo verso la fermata dove il pullman da Malpensa sta vomitando turisti e milanesi assonnati. Un tassista provolone mi apostrofa: -Non parte più il pullman-. Io da una parte so che ha ragione, ma dall'altra voglio ancora illudermi che non sia vero e allora, cagando poco il tassista, chiedo all'autista del pullman se riparte. C'è un'altra corsa, sì, alle 4.35, vale a dire 5 ore dopo. Arriva un altro tassista che mi attacca una gran pezza, cercando di convincermi che passare la notte in stazione è pericolosissimo, anzi mi dice che all'una chiude e che quindi dovrei stare all'aperto, in balìa di assassini e pederasti (i miei preferiti!). Più tardi mi verrà da chiedermi perché nessuno pensa mai che io possa essere un assassino o un pederasta, o almeno uno squallido ladruncolo. Forse perché ho la pelle chiara, non ho né tatuaggi né piercing, sono pulito e sorrido? Bah, questi pregiudizi..
Il tassista continua ad insistere, dice che se siamo in tre (c'è una coppia di vecchi nella mia situazione) può farci sui 30 euro a testa. A parte che il taxi è una cosa da fighetti borghesi, ma poi io dovrei sganciare 30 fottutissimi euro a un tassista balordo per colpa di trenitalia (la minuscola è voluta)? Non credo. Giro i tacchi, alzo il mio borsone, e barcollando me ne torno in stazione, chiedendomi cosa sarà di me nelle prossime ore. Mi accomodo su una panca nell'atrio e un barbone sdentato, dopo avermi chiesto dei soldi ed essersi bullato dei suoi 55 anni portati beniFFFimo, mi regala un biglietto del treno col quale, sostiene, potrò passare la notte in stazione. Questa storia del biglietto mi lascia un po' perplesso anche perché è datato novembre 2005, ma mi ritengo comunque fortunato perché coi biglietti del treno si fanno dei filtri perfetti.
È vero che la stazione chiude all'una, ma è anche vero che se devi prendere il treno la mattina dopo puoi passare la notte in sala d'attesa e io, col mio aspetto da bravo ragazzo, ricevo le attenzioni di una poliziotta che, compresa la mia situazione, mi raccomanda personalmente al guardiano della sala d'attesa. (Poco dopo la stessa poliziotta urlerà a un povero negro di tirare giù i piedi dalla panca, mentre la metà della gente in sala li sta tenendo tranquillamente sopra)
Comincia l'attesa. Per ingannarla rileggo tutti i 150 messaggi che ho sul cellulare e li cancello uno a uno, mi faccio una paglia, aspetto, leggo qualche pagina di Terzani, ascolto una compilation di musica africana, mi guardo intorno, leggo ancora un po', aspetto, mi guardo intorno, ascolto un disco dei Flogging Molly, aspetto, mi faccio una paglia..
Quattro ore da solo, nella sala d'attesa di una stazione, di notte, senza poter dormire per sorvegliare i bagagli, un'esperienza quasi mistica.

*: odio questa parola..

 
 
 
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