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« MEDEA DI EURIPIDE (3/6)MEDEA DI EURIPIDE (5/6) »

MEDEA DI EURIPIDE (4/6)

Post n°79 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

CORO:
O donna infelice,
ahi, ahi, le tue doglie ti rendono
ben misera. Dove potrai
rivolgerti? In quale ospitale
o terra o magione,
rifugio dai mal' troverai?
In qual gorgo di mali, o Medèa,
invisibili, un Dio ti sospinse?
Medèa:
Il mal mi stringe da ogni parte: chi
potrà negarlo? Eppure, questo l'esito
non sarà degli eventi, oh, non crediatelo!
Nuovi cimenti i nuovi sposi attendono,
e non piccole angustie i loro suoceri.
Pensi tu che Creonte avrei blandito
senza vantaggio averne, o senza insidia?
Parlato non gli avrei, le sue ginocchia
non avrei strette. Ed egli è giunto a tale
stoltezza, che potea, da questa terra
scacciandomi, le mie trame deludere,
e invece consentí ch'io rimanessi
questo dí, ch'io tre miei nemici uccidere
voglio: il padre, la figlia, e il mio consorte.
E molti modi, o amiche, avrei d'ucciderli,
e non so bene a qual m'appigli prima:
se degli sposi arda la casa, o spinga
un ferro acuto a lor traverso il fegato,
entrando muta dov'è steso il talamo.
Ma un punto a me s'oppone: ove sorpresa
fossi mentre io varco la soglia, e tramo
l'arti mie, sarò morta, ai miei nemici
sarò di scherno oggetto. Oh, meglio assai
batter la via diritta, ov'io maestra
sono eccellente: coi veleni ucciderli.
Ahimè!
Ecco, son morti. E in qual città trovare
posso io rifugio? Quale ospite, offrendomi
terra d'asilo, e casa invïolabile,
la mia persona salverà? Nessuno.
Dunque, attendendo breve tempo ancora,
se per me qualche baluardo appaia,
perseguirò con frode e con silenzio
la loro strage; e, dove poi m'incalzino
senza uscita gli eventi, un ferro stretto,
a vïolenza aperta romperò,
li ucciderò, morir dovessi, io stessa.
Ché mai - lo giuro per la Dea che piú
di tutte l'altre venero, che all'opera
scelsi compagna, per Ecate, ch'abita
nei penetrali della casa mia -
niuno s'allegrerà che il cuor mio crucci.
Amare e luttuose io renderò
le nozze ad essi, amaro il parentado
e il bando mio da questa terra. Orsú,
non risparmiar delle tue trame alcuna,
Medèa, dell'arti tue: muovi all'orribile
punto: ché agone d'ardimento è questo.
Vedi il sopruso che patisci? Oggetto
di riso a nozze di Giasone, a nozze
di Sisifídi esser non devi tu,
che figlia sei d'un padre illustre, e vanti
avolo il Sole. Tu sei saggia. E poi,
donne nascemmo, al bene oprare inette,
ma d'ogni male insuperate artefici.
(Si trae da parte e rimane muta ed assorta)
CORO: Strofe prima
Ai fonti risalgono le sacre correnti dei fiumi:
con tutte le cose tramuta Giustizia.
Le menti degli uomini son piene di frode,
piú saldi non restano i giuri dei Numi:
la fama per essi tramutasi, e lode
partisce alla nostra progenie.
Onore avran le femmine: piú la donnesca vita
da trista fama non sarà colpita.

Antistrofe prima
Desister dai cantici vetusti dovranno le Muse,
che usavan cantare la nostra perfidia.
La lira ed il carme che ispiran gli Dei,
Apollo, dei suoni signor, non infuse
a noi nella mente: ché allor leverei
un inno alla stirpe degli uomini.
Il volgere dei secoli narrare agevol rende
nostre e d'uomini assai varie vicende.

Strofe seconda
Dalla casa paterna un naviglio
fra le gemine rupi del pelago
te, nel cuor delirante, rapiva.
Or sopra terra estranea
ti trovi, e sposo e talamo
hai perduto, e in esilio
vai bandita, meschina, e d'onor priva.

Antistrofe seconda
è vanito dei giuri l'ossequio,
e Pudor piú non regna ne l'Ellade,
ma per l'ètere a vol si perdé.
A te, non piú la reggia del padre offre ricovero:
t'occupa in casa una regina il talamo,
piú possente di te.
(Entra Giasone. Medèa si ricuote)
GIASONE:
Non or la prima volta, anzi sovente
vidi che mal senza rimedio sia
l'aspra ira. A te concesso era pur vivere
in questa terra, in questa casa, quando
tu di buon grado sopportato avessi
il valor dei piú forti; e adesso, a causa
di vane ciance, sei cacciata in bando.
E a me nulla ne importa; e non desistere
mai, tu, dal dire che Giasone è il piú
tristo fra tutti gli uomini. Ma quanto
a ciò che tu dicesti contro i principi,
stima fortuna grande esser punita
sol con l'esilio. Io mitigavo sempre
l'ire crucciose dei signori, e farti
rimanere volevo; e tu, deporre
la tua stoltezza non volevi, e sempre
dei principi sparlavi; e perciò sei
cacciata dalla terra. E tuttavia
io non manco agli amici; e sono qui
per provvedere alla tua sorte, o donna,
perché non vada coi tuoi figli in bando
senza sostanze, e nulla anzi ti manchi:
ché molti mali trae seco l'esilio.
Ché, pur se adesso tu m'aborri, a te
nemico non potrei volgere l'animo.
Medèa:
O tristo, o scellerato - altro non so
per la tua codardia maggiore oltraggio -
tu vieni a me, tu che odïoso piú
mi sei d'ogni altro? Ardire e forza d'animo
questa non è, fissare in viso i cari
tratti a rovina; è il piú funesto morbo
che fra gli uomini sia: spudoratezza.
Pure, a venir, bene facesti: ch'io
parlando, allevierò l'anima; e tu
ti roderai di tristo cruccio, udendomi.
E delle cose prima parlerò
che furon prima. Io ti salvai, lo sanno
gli Ellèni, quanti il legno d'Argo ascesero,
il dí che tu fosti inviato a Colco
perché col giogo dominassi i tauri
che spiravano fiamme, e seminassi
i mortiferi solchi. Il drago io spensi
che con l'intreccio delle fitte spire
stringendo il vello tutto d'oro, insonne
lo custodiva; e di salvezza il raggio
per te feci brillare. Ed io medesima,
tradito il padre mio, la casa mia,
a Iolco teco, sotto il Pèlio, venni,
innamorata piú che saggia, e morte
qual è piú dolorosa, a Pelia inflissi,
per man delle sue figlie, e t'affrancai
d'ogni timore. E tu, simili beni
da me riscossi, o il piú tristo degli uomini,
tradita m'hai, contratte hai nuove nozze,
pur figli avendo: ché, se privo tu
ne fossi stato, meritava scusa
desio di nuovo letto. Ora la fede
dei giuramenti è spersa; e non intendo
se tu creda che adesso piú non regnino
gli Dei d'allora, e che sancite siano
nuove leggi per gli uomini: ché tu
sei verso me spergiuro; e ben lo sai.
Ahi, destra mia, che tu spesso stringevi,
ginocchia mie, quanto fu van che un tristo
pur v'abbracciasse, o mia delusa speme!
Ma via, con te, quasi mi fossi amico,
favellerò - sebben, quale vantaggio
posso attender da te? pure, piú turpe
ti scopriran le mie dimande -: dove
rivolgermi potrò? Forse alla casa
del padre, che tradito ho, per seguirti
alla tua patria? O forse alle Pelíadi
misere? Oh, liete quelle accoglierebbero
chi le privò del padre! A questo io sono:
dei cari miei, della mia casa, fatta
nemica io sono; e quelli a cui far male
io non dovea, per compiacerti, infesti
contro me resi. E fortunata, in cambio
di tanto, tu m'hai resa adesso, agli occhi
di molte Ellène. Uno sposo ammirevole
ho in te, meschina, e degno ch'io lo veneri,
se dalla terra andar dovrò fuggiasca,
sola coi figli miei, priva d'amici!
Bel vanto, proprio, pel novello sposo,
ch'errin pitocchi i suoi figliuoli, ed io
che ti salvai! Deh, perché, Giove, un segno
certo agli uomini desti per distinguere
l'oro, quale sia falso, e niun sigillo
impresso invece è su le membra umane,
per chi debba un malvagio pur distinguere?
CORO:
è pur furia tremenda ed implacabile,
quando amici ed amici insiem contrastano.
GIASONE:
D'uopo è, sembra, che al dir fiacco io non sia,
ma, come scaltro guidator di nave,
gli estremi lembi delle vele schiusi
lasci soltanto, per salvarmi, o donna,
della tua ciancia dal doglioso morbo.
Or, poi che troppo i tuoi favori estolli,
Cípride sola io reputo, fra gli uomini
e fra i Numi, che sia la salvatrice
della naval mia gesta. Addurre prove
che solo Amor, coi dardi inevitabili
suoi ti astrinse a salvar la mia persona,
sottil sarebbe, ma odïoso; ed io
troppo non vo' su questo punto insistere.
Che mi salvassi, qual ne sia la causa,
male non fu; ma dalla mia salvezza
piú ricevesti che non desti; e adesso
te lo dimostrerò. Primo, ne l'Ellade
abiti adesso, e non in terra barbara;
e sai giustizia, e l'uso delle leggi,
e non l'arbitrio della forza; e tutti
gli Ellèni sanno che sei dotta, e sei
venuta in fama: se abitato agli ultimi
confini avessi della terra, niuno
fatto di te parola avrebbe. Ed oro
in casa avere non vorrei, né un canto
piú di quello d'Orfeo vago intonare,
se fama non dovessi averne in cambio.
Tanto delle mie gesta ho detto, quando
m'hai provocato a gara di parole.
Quanto alle nozze poi, che mi rimproveri
con la figlia del re, vo' dimostrarti
primo, che saggio fui, poi riflessivo,
poi grande amico ai miei figliuoli e a te.
Rimani calma. Poi che venni qui
dalla terra di Iolco, trascinandomi
dietro molte sciagure immedicabili,
quale potuto avrei sorte migliore
trovare, che sposar del re la figlia,
io fuggiasco? E non già per la ragione
onde ti struggi: perché tedio avessi
dell'amor tuo, perché di nuova sposa
fossi colpito dalla brama, né
di molti figli per desio: mi bastano
quelli che abbiamo, né di ciò mi lagno;
ma perché noi con ogni agio vivessimo,
senza penuria, ben sapendo ch'èvita,
se in lui s'imbatte, ognun l'amico povero;
per educare i figli in modo cònsono
al mio casato, e, generando ai figli
nati da te, fratelli, e quelli a questi
pareggiando, e la stirpe accomunandone,
fossi felice. E che bisogno hai tu
d'altri. figliuoli? A me convien coi figli
venturi avvantaggiar quelli che vivono.
Il mio consiglio errato fu? Neppure
tu lo diresti, se il rodío non fosse
del talamo: ché voi, femmine, a tanto
giungete: che vi sembra ogni fortuna
avere attinta, sin che salvo è il talamo;
ma se sventura a quello incoglie, cosa
non v'è, sia pur buonissima, bellissima,
che la piú infesta non vi sembri. Oh!, gli uomini
altronde generar figli dovrebbero,
donde che fosse, e non esister femmine.
Nessun malanno allora avrebber gli uomini.
CORO:
Giasone, adorno il tuo discorso fu;
ma, pur se debbo contraddirti, io penso
che nel tradir la sposa, ingiusto sei.
Medèa:
In molti punti, da molti degli uomini
io son diversa. Per me, quel ribaldo
che da natura ebbe facondia, merita
maggior castigo: l'ingiustizia rendere
bella ei presume con l'eloquio, e ardisce
ogni empietà. Ma povera saggezza
è infin la sua. Come ora tu. Garbato
non volere con me mostrarti, ed abile
favellatore: una parola sola
t'abbatterà. Se tu non fossi stato
un malvagio qual sei, sol dopo avermi
convinto, celebrar dovevi queste
nozze, non senza dir nulla ai tuoi cari.
GIASONE:
Bene, suppongo, secondato avresti
questo disegno, se svelato prima
l'avessi a te, quando neppure or sai
dal cuore tuo la grave ira sgombrare!
Medèa:
Non ciò ti tenne, ma le nozze barbare,
da vecchio poco onor fatto t'avrebbero.
GIASONE:
Sappilo bene: per amor di femmina
queste nozze regali io non ho strette,
ma pel tuo bene, come dissi già,
per procreare ai figli miei fratelli
re, che alla casa mia sostegno fossero.
Medèa:
Mai non divenga un uom turpe felice,
né mai beato chi mi strugge il cuore!
GIASONE:
Sai come i voti mutar devi, e puoi
saggia sembrare? Turpi non ti sembrino
le cose utili, mai; né pensar d'essere
misera, quando avventurata sei.
Medèa:
Oltraggiami: ché a te l'asil non manca,
ed io debbo partir soletta ed esule.
GIASONE:
Altri non incolpar: tu l'hai voluto.
Medèa:
Facendo che? Sposandoti e tradendoti?
GIASONE:
Empie lanciando imprecazioni ai principi.
Medèa:
La mia presenza anche ai tuoi Lari impreca.
GIASONE:
Basta: ch'io non vo' teco oltre contendere.
Se per l'esilio dei fanciulli e tuo
vuoi dalle mie sostanze alcun viatico,
dillo: con larga mano io pronto sono
ad offrirlo, a inviar tessere agli ospiti
miei, che benigni t'accorranno. Stolta,
se rifiutassi, tu saresti: avrai
maggior vantaggio, se deponi l'ira.
Medèa:
Trarre profitto io non potrei dagli ospiti
tuoi, né gradire checchessia di tuo,
e tu non offerirmelo: ché i doni
dei tristi, mai vantaggio non arrecano.
GIASONE:
Eppure, i Numi testimoni invoco
che sovvenire in tutto i figli e te
io bramerei. Ma il bene a te non piace;
e, per superbia, da te lungi scacci
gli amici: onde ancor piú dovrai crucciarti.
Medèa:
Va' via: ché brama della nuova sposa
t'invade, mentre dalla reggia fuori
qui ti trattieni. Celebra le nozze.
Pure, se vuole un Dio, saranno tali
nozze, che tu vorresti ben disdirle.
CORO: Strofe prima
Gli amori che trasmodano
per troppa furia, agli uomini
non consiglian virtú, non dànno fama.
Se con misura invece appressa Cípride,
Diva non v'è che lei pareggi in grazia.
Signora, e mai non sia che tu dall'aureo
arco vibri su me l'inevitabile
freccia intrisa di brama.

Antistrofe prima
Me tuteli, dei Superi
guiderdone bellissimo,
Saggezza; e mai, né garruli contrasti,
né risse insazïate, a me nell'animo
pel desiderio d'altrui letto susciti
la terribil Ciprigna. Io le pacifiche
nozze venero, eleggo delle femmine
sagge i talami casti.

Strofe seconda
O casa mia, mia patria,
deh, ch'io non resti priva
di mia città, fra i lacci inestricabili
di miseria io non viva!
Morte mi colga; morte, pria di giungere
a simil giorno! Vivere
dalla terra natale
esule, è mal che supera ogni male.

Antistrofe seconda
Ho visto, e non già memore
parlo d'altrui parola,
che niun amico i tuoi tormenti orribili,
niun cittadin consola.
Muoia l'ingrato che all'amico schiudere
nega del cuore gl'intimi
serrami, e non gli fa
onore: amico mio mai non sarà.
(Arriva Egèo vestito da viaggiatore)
Egèo:
Salve, Medèa! Ché a salutar gli amici
miglior proemio nessun mai trovò.
Medèa:
Anche a te salve, Egèo, figlio del saggio
Pandíone: a questo suol di dove giungi?
Egèo:
Di Febo or or lasciai l'antico oracolo.
Medèa:
Della terra isti all'umbilico? A che?
Egèo:
A chieder come seme avrò di figli.
Medèa:
Dunque, sin qui, di figli orbo vivesti?
Egèo:
Volle ch'io figli non avessi, un Dèmone.
Medèa:
Ed hai la sposa? O privo sei del talamo?
Egèo:
Del letto nuzïal conosco il giogo.
Medèa:
E che responso diede Febo a te?
Egèo:
Tal, che non basta umana mente a intenderlo.
Medèa:
E ch'io tale responso apprenda, è lecito?
Egèo:
Lecitissimo; e vuol mente sottile.
Medèa:
Dunque, se posso udir, parla. Che disse?
Egèo:
Ch'io dell'otre non sciolga il pie' sporgente...
Medèa:
Pria di far che, prima di giunger dove?
Egèo:
Prima che al patrio focolar non torni...
Medèa:
E allora, a questo suol perché tu navighi?
Egèo:
Un Pitèo v'è, signore di Trezene...
Medèa:
Figlio, dicon, piissimo di Pèlope.
Egèo:
A costui, vo' comunicar l'oracolo.
Medèa:
Saggio è quell'uomo, e di quest'arte pratico.
Egèo:
E tra i compagni d'arme a me carissimo.
Medèa:
Sii tu felice, e ciò che brami ottenga.
Egèo:
Perché l'occhio ed il viso hai sí distrutti?
Medèa:
Giason, mio sposo, è degli sposi il pessimo!
Egèo:
Che dici? Chiaro il tuo cordoglio spiegami.
Medèa:
Torto Giason mi fa', né pur l'offesi.
Egèo:
E quale torto? A me piú chiaro spiegalo.
Medèa:
Sposò, ché in casa dominasse, un'altra.
Egèo:
Compier poté quest'opera turpissima?
Medèa:
Certo: e spregiata, io prima cara, or sono.
Egèo:
Per nuovo amore? O il tuo talamo aborre?
Medèa:
Per grande amore; e ruppe fede ai suoi.
Egèo:
Gli avvenga mal, se tristo è quanto dici.
Medèa:
In cambio lor, nozze regali elesse.
Egèo:
Chi glie l'offerse? Il tuo discorso compi.
Medèa:
Creonte, re di questo suol corinzio.
Egèo:
Meriti scusa, se t'affliggi, o donna.
Medèa:
Son morta; e dalla terra anche mi scacciano.
Egèo:
Chi ti discaccia? Un nuovo mal m'annunzi.
Medèa:
Da Corinto m'esilia il re Creonte.
Egèo:
E Giasone acconsente? Oh, non lo lodo!
Medèa:
Non a parole: ma lo brama, e finge
di tollerarlo. Ora io, per il tuo mento,
per le ginocchia tue ti prego, e supplice
dinanzi a te mi prostro: abbi pietà,
abbi pietà di me misera, sola
cosí non mi lasciar, cosí raminga,
ma nel paese e nella casa tua,
all'ara presso accoglimi: cosí
appagata ti sia, mercè dei Numi,
la tua brama di figli. Oh, tu non sai
quale fortuna in me trovi: io farò
che tu generi figli, e non ne sia
piú privo: tal potere hanno i miei farmachi.
Egèo:
Per piú ragioni son pronto a concederti,
donna, questo favor. Prima, pei Numi;
poi, per i figli miei, di cui la nascita
m'annunzi tu: ché vòlto a questo è tutto
l'animo mio. Son questi i miei propositi.
E se tu giunga alla mia patria, o donna,
quivi ospitarti, come vuol giustizia,
io curerò. Ma da te muovi il passo
lungi da questa terra: ch'io desidero
scevro da colpe rimaner per gli ospiti.
Medèa:
E sia: di te solo a lodarmi avrei,
quando avessi di ciò fida promessa.
Egèo:
In me non hai tu fede? O che sospetti?
Medèa:
Ho fede in te; ma la casa di Pèlia
m'è nemica, e Creonte. Or, se volessero
strapparmi dalla tua lerra, permettere
non lo vorresti, se tu fossi stretto
da giuramenti; ma pel solo vincolo
delle parole, senza giuri, amico
potresti essermi forse, e al bando loro
non dare ascolto? Debole sono io:
essi han dovizie, essi han case regali.
Egèo:
Gran previdenza mostrano le tue
parole, o donna; e non rifiuto, quando
tu cosí brami. Piú sicuro io sono
quando ragioni ai tuoi nemici opporre
posso; e tu stessa, piú sarai sicura.
I Numi dimmi, nel cui nome io giuri.
Medèa:
Della Terra pel suol, pel Sole, padre
del padre mio, pei Numi tutti giura.
Egèo:
Di far che cosa, o di non fare? Parla
Medèa:
Di non cacciarmi dalla terra tua
tu stesso, mai; né, quando altri volesse,
qualcun dei miei nemici, indi strapparmi,
di buon grado, finché vivi, concederlo.
Egèo:
Per la Terra lo giuro, e per la fulgida
luce del Sole, e per i Numi tutti,
che ciò che tu mi chiedi io manterrò.
Medèa:
Basta. E che pena a te, se manchi, impetri?
Egèo:
Quella che suole cadere sugli empii.
Medèa:
Lieto prosegui il tuo cammino: tutto
ora va bene; ed alla tua città
ben presto io giungerò, quando compiuto
sia ciò che imprendo, e paga la mia brama.
(Egèo parte)
CORO:
Di Maia il figlio, signor che l'anime
guida, ai tuoi tetti
t'adduca, e tutto giunga a buon esito
ciò che tu brami, per cui t'affretti:
ché un generoso mi sembri, Egèo.
Medèa:
Giove, e di Giove tu figlia, Giustizia,
e tu, raggio del Sole, alta vittoria
or dei nemici nostri, amiche, avremo,
e siam già su la via: speranza nutro
or che i nemici miei la pena scontino,
poi che quest'uom, dal lato ove il periglio
era maggiore, come un porto apparve
dei miei divisamenti. Indi la gomena
da poppa legherò, come io di Pàllade
giunga alla rocca, alla città. Sin d'ora
tutti vi voglio esporre i miei propositi,
né voi crediate che per gioco io parli.
Dei miei famigli alcuno invierò
a Giasone, e ch'ei venga chiederò
al mio cospetto; e, come ei giunga, blande
parole gli dirò: ch'io son convinta,
che mi par giusto quanto accade; e i figli
miei chiederò che restino. Non già
che abbandonarli io voglia in terra estranea;
ma con la frode voglio morte infliggere
alla figlia del re. Li manderò,
che a lei rechino doni: un peplo fine
e, foggiato nell'oro, un serto; e, ov'essa
ne abbellisca le sue membra, morrà
d'orrenda morte, e chicchessia la tocchi:
di tal farmaco i doni intriderò.
Ma tronco qui le mie parole, e gemo
per l'opera che poi compier dovrò:
ché morte ai figli miei darò: nessuno
v'è che salvarli possa. E, poi che tutta
di Giasone sconvolta avrò la casa,
e compiuto lo scempio nefandissimo,
partirò da Corinto, e dei figliuoli
la strage fuggirò: ché dai nemici
esser derisa, amiche, io non lo tollero.
Su via, la vita a lor che giova? Io patria
non ho, né casa, né rifugio ai mali.
Bene errai, quando le paterne case
abbandonai, credendo alle parole
d'un ellèno che il fio mi pagherà,
con l'aiuto d'un Dio: ché i fig1i nati
da me, piú vivi non vedrà, né prole
dalla sua nuova sposa avrà: ché deve
per i tossici miei morir la trista,
di trista morte. Me dappoco e fiacca
non creda, o rassegnata: anzi, al contrario,
per gli amici benigna, e pei nemici
funesta: a gloria cosí giungon gli uomini.
CORO:
Poiché tale discorso a noi partecipi,
per brama di giovarti, e per difendere
le leggi, da tal opra io ti sconsiglio.
Medèa:
Essere altro non può; ma scusa meriti
se cosí dici: ché il mio mal non soffri.
CORO:
Oserai, donna, i tuoi figliuoli uccidere?
Medèa:
Nulla il mio sposo piú morder potrebbe.
CORO:
Né sarebbe di te donna piú misera.
Medèa:
Su via, ché son superflue parole
quante indugiare fan l'opera. Su,
muovi, e chiama Giason: ché dove occorre
fiducia, ivi io t'adopero; e dei miei
disegni, nulla tu svelar, se pure
ami i signori, se pur donna sei.

(segue)

 
 
 
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