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MEDEA DI EURIPIDE (5/6)

Post n°80 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

CORO: Strofe prima
Erettídi, dagli evi remoti
felici, progenie di Numi
beati, cresciuti dal suolo
inespugnabile, sacro,
che ognor vi nutrite d'eletta
saggezza, e movete con morbido incesso
per l'ètere tutto fulgore,
dove una volta, si narra, le nove
Muse Armonia generò.

Antistrofe prima
Anche narran che Cípride attinse
dai flutti del puro Cefíso,
ed aure di venti spirò
sopra la terra, con tempra
soave, e le chiome velando
con fiori, con serti di rose fragranti,
mandò, ché a saggezza vicini
seggan, gli Amori, che sempre partecipi
siano dell'opere tutte.

Strofe seconda
E come sui sacri suoi rivi,
Atène potrà, come accoglierti
potranno gli amici, quando empia
sarai fra le genti, i tuoi parvoli
di vita per te saran privi?
Pensa a che strage t'appigli!
No, per le tue ginocchia,
ti prego, t'invoco, ti supplico,
no, non uccidere i figli!

Antistrofe seconda
E dove di mano dominio
attinger potrai, dove d'animo,
che avventi la strage terribile
al cuor dei tuoi pargoli? L'occhio
volgendo su lor, l'esterminio
compier potrai senza lagrime?
Quando con supplici grida
dinanzi essi ti cadano,
tu non potrai con saldo animo
tinger la mano omicida.
(Arriva Giasone)
GIASONE:
M'hai chiamato, e son qui: sebben nemica
mi sei, rifiuto non opposi; e udrò
ciò che di nuovo, o donna, da me vuoi.
Medèa:
Io ti chiedo, Giason, che tu perdono
di ciò ch'io dissi mi conceda. è giusto
che tu condoni il mio furore, quando
molte dolcezze insieme avemmo. Ora, io
fra me e me considerando venni,
e rampogne mi volsi: «O temeraria,
ché furïando io vado, ed osteggiando
quelli che bene avvisano, ed infesta
contro i signori della terra insorgo,
e contro il mio signor, che quello fa
che a noi piú giova, quando una regina
sposa, ed ai figli miei fratelli genera?
Non deporrò quest'ira mia? Che faccio,
quando gli Dei mi danno il bene? Figli
forse non ho? Non so che siam banditi
dalla Tessaglia, e siam privi d'amici?»
A ciò pensando, vidi bene ch'ero
mal consigliata, e m'adiravo a torto.
Dunque, or t'approvo, e mi sembra che tu
sia l'assennato, quando a noi procuri
simile parentado, ed io la stolta,
che di tali disegni esser partecipe
avrei dovuto, e favorirli, e assistere
alle tue nozze, ed alla sposa tua
le mie cure prestare, e andarne lieta.
Ma siamo ciò che siam: non dico danno,
dico donne; e per te non conveniva
che ti rendessi pari a sciocche simili,
contrapponendo stoltezza a stoltezza.
Ma ora cedo, e riconosco ch'io
prima sbagliavo, ed a miglior partito
m'appiglio adesso. O figli, o figli, qui,
la casa abbandonate, uscite fuori,
il padre vostro salutate, ch'egli
è qui con voi, volgetegli parole,
e desistete, come fa la madre,
dall'odïar gli amici, or che fra noi
fatta è la pace, e in oblio posta l'ira.
(Dalla casa escono i figli)
La destra a lui stringete. - Ahi, le sciagure
nascoste, come nella mente ho impresse! -
O figli miei, sempre cosí le braccia
tenderete, se pur vivrete a lungo?
Misera me, come son pronta al pianto,
e piena di terror! Ma, poiché, dopo
tanto, troncai la lite mia col padre,
il molle viso mio pieno è di lagrime.
CORO:
Ed anche a me giú dalle ciglia erompono
lagrime impetuose. Oh, non proceda,
piú grave d'ora non divenga il male.
GIASONE:
Ciò ch'ora dici, o donna, io lodo; e ciò
che pria dicevi, non biasimo. Quando
lo sposo fa di nuove nozze acquisto,
diritto è ben che la femminea stirpe
di sdegno avvampi. Ma il tuo cuore è volto
adesso al meglio, ed il migliore avviso
hai conosciuto, sebben tardi: è questo
tratto di donna saggia. O figli, il padre
per voi non prese a cuor leggero tale
provvedimento; i Numi lo assisterono:
ché primi spero di vedervi in questa
corinzia terra, coi germani vostri.
Or voi crescete. Il padre, e qual benevolo
è a voi dei Numi, il resto compierà.
Deh, vedervi possa io, di chi ben v'educhi
sotto la guida, al fior di giovinezza,
dei miei nemici trionfando, giungere.
Perché gli occhi, Medèa, d'ardenti lagrime
bagni, e smorta la guancia altrove giri,
e senza gioia ciò ch'io dico ascolti?
Medèa:
Per nulla: a questi figli miei pensavo.
GIASONE:
Per i tuoi figli piangi? E perché, misera?
Medèa:
Li ho partoriti; e al tuo voto che vivano,
ansia mi colse, se ciò mai sarà.
GIASONE:
Fa' cuor: ch'io bene a ciò provvederò.
Medèa:
Farò cuore: non vo' fede negarti;
ma debole è la donna; e nacque a piangere.
Ma delle cose onde venisti a udirmi,
parte fu detta: il resto or ti dirò.
Poi che bandirmi vogliono i signori
da questa terra - ed è, lo riconosco,
meglio per me, non rimanere ai principi
e a te d'impaccio, ché nemica io sembro
di questa casa - e sia, fuggiasca andrò
da questo suol; ma che fuggir non debbano
i figli miei, che qui cresciuti siano
dalle tue mani, da Creonte impètrami.
GIASONE:
Ignoro se potrò; ma vo' tentare.
Medèa:
Prega la sposa che suo padre implori
perché non vadano esuli i miei figli.
GIASONE:
Lo farò certo; e spero ben convincerla,
sebbene è donna, all'altre donne simili.
Medèa:
Di tal prova io sarò teco partecipe:
i miei figliuoli invierò, che rechino
a lei presenti, quali piú fra gli uomini
sono pregiati, un sottil peplo, e un serto
lavorato nell'oro. Or, quanto prima,
convien che alcuna delle ancelle questo
adornamento rechi. E non per mia
cagion la sposa, anzi per mille e mille
sarà beata: ché compagno al talamo
il migliore degli uomini ebbe in te,
ed un monile avrà, che un giorno il Sole,
padre del padre mio, diede ai suoi figli.
Questi doni prendete, e del signore
alla sposa beata, o figli, offriteli.
Non saranno per lei doni da poco.
GIASONE:
Perché vuotare le tue mani, o stolta?
Credi tu che penuria abbia di pepli,
penuria d'oro, la casa del re?
Conservali, non far doni: ché, se
trova alcun pregio in me la sposa mia,
vorrà, son certo, preferirmi ai doni.
Medèa:
Non dirmi questo. I doni persuadono
- è comun detto - anche i Celesti. L'oro
può fra i mortali ciò che non potrebbero
mille e mille discorsi. Adesso, prospera
volge la sorte a lei, la sua fortuna
un Nume accresce, ora è nuova regina.
E non solo con l'oro, anzi con l'anima
riscatterei dei figli miei l'esilio.
Su, dunque, figli, della nuova sposa
del padre vostro, della mia signora
alla reggia opulenta ora movete,
pregatela, imploratela, che in bando
ir non dobbiate, porgetele i doni,
ché questo importa piú di tutto: ch'ella
di propria mano i doni accolga. Andate
presto, compiete ben l'opera; e nunzi
di ciò ch'ella desia, siate alla madre.
CORO: Strofe prima
Piú non ho speme che vivano i pargoli,
non piú: ché già verso la morte muovono.
Riceverà, riceverà la misera
sposa, dono fatal, l'auree bende.
Già per cingere il funebre
ornamento alla sua bionda cesarie,
la mano ella protende.

Antistrofe prima
Essa vaghezza certo avrà di cingere
gli ambrosii raggi che dai pepli fulgono
e dall'aurea corona; e già per gl'Inferi
si fa bella: in tal rete ella cadrà,
in tale fato, o misera,
esizïale: ché sfuggire all'ultima
rovina non potrà.

Strofe seconda
E tu, tristo sposo, di principi perfido genero,
ignaro, conduci a sterminio
la vita dei figli, ed orribile
alla sposa prepari una morte.
O misero, male prevedi la sorte!

Antistrofe seconda
Ed ora te, madre infelice, compiango, che ai pargoli
la morte darai. Ne fu causa
il letto di nozze: ché l'empio
tuo sposo, che t'ebbe tradita,
ora ha con un'altra comune la vita.
(Entra l'aio coi due bambini)
AIO:
Sono dal bando liberi, o signora,
questi fanciulli: di sua mano accolse
la regia sposa i doni, e si compiacque.
Pace, da questa parte, hanno i tuoi figli.
Medèa:
Ahimè!
AIO:
La ventura t'arride, e sei sconvolta?
Medèa:
Ahimè!
AIO:
Con le mie nuove il tuo lagno discorda.
Medèa:
Anche una volta, ahimè!
AIO:
Qualche sciagura,
senza saperlo, t'annunciai? Fu falsa
l'idea che un buon messaggio io ti recassi?
Medèa:
Fu quel che fu, l'annuncio: io non lo biasimo.
AIO:
Ché dunque il volto abbassi, e versi lagrime?
Medèa:
Non mi posso frenar, vecchio: tal danno
i Numi, ed a me stessa io stessa macchino.
AIO:
Fa' cuor: qui tornerai, grazie ai tuoi figli.
Medèa:
Ma saprò far che prima altri ne partano.
AIO:
Non sei la sola tu, che separarsi
debba dai figli: chi mortale nacque,
in pace sopportar deve gli affanni.
Medèa:
Cosí farò. Tu entra, e ai figli appresta
quanto per oggi ad essi occorre. O figli,
o figli, a voi non manca né città
né casa, dove, della madre orbati,
abiterete eternamente; ed io
andrò fuggiasca ad altra terra, prima
ch'abbia di voi gioito, abbia la vostra
felicità veduta, ad una sposa
v'abbia congiunti, e il talamo di nozze
adornato, e levate alte le fiaccole.
Ahi, tristo frutto dell'orgoglio mio!
Invano, o figli, v'ho nutriti, invano
in fatiche mi strussi, e m'affannai,
doglie crudeli soffrendo nei parti.
Misera! E un dí tanto sperai che voi
curata avreste la vecchiezza mia,
che con le vostre man' curato avreste
il mio corpo defunto, ch'è tra gli uomini
invidïato ufficio. Adesso, è spenta
la soave speranza; e, di voi priva,
trista sarà per me, sarà dogliosa
tutta la vita. E gli occhi vostri piú
la madre, o figli, non vedranno: ad altra
forma di vita passerete. Ahi, ahi!
Le pupille su me perché levate?
Perché ridete il vostro ultimo riso?
Ahi, che farò? Mi manca il cuore, o donne,
se fisso gli occhi dei miei figli fulgidi.
No, ch'io mai non potrò! Vadano spersi
tutti i disegni di poc'anzi: i figli
miei, condurrò lontan da questa terra.
Per dare cruccio al padre lor, dovrei
procacciare a me stessa un danno duplice?
No, certo: spersi i miei disegni vadano.
Eppure, no: che faccio? I miei nemici
impuniti lasciar devo, ed oggetto
essere a lor di riso? Ardire occorre.
Oh mia viltà, che profferisce detti
degni d'un cuore imbelle. Entrate in casa,
o figli miei. Se assistere al mio scempio
sembra iniquo a talun, quei non v'assista:
non perciò fiacca la mia man sarà.
Ahimè!
No, no, cuor mio, non compiere lo scempio!
Lasciali, o trista, i figli non uccidere.
Forse laggiú, con me vivendo, gioia
darmi potranno? Oh, per le Furie inferne
d'Averno, non sarà che i figli lasci
dei nemici all'oltraggio. Inevitabile
destino è questo, e sfuggirgli non posso.
Già cinta al capo ha la ghirlanda, già
chiusa nel peplo, ben lo so, la sposa
regal perisce. E, poi ch'io per miserrimo
tramite i pie' volgere devo, i figli
salutar bramo. O figli miei, porgete
la vostra mano, alla madre porgetela,
in tenero commiato. O dilettissima
mano, o sembiante, o capo dilettissimo
dei figli, o nobil volto, a voi sorrida
fortuna; ma laggiú: ché tutto il padre
quassú v'ha tolto. O abbracci soavissimi,
morbida cute, ed alito soave
dei figli! Andate, andate! Io non ho forza
di piú guardarvi, e son vinta dai mali.
Intendo ben che scempio son per compiere;
ma piú che il senno può la passione,
che di gran mali pei mortali è causa.
CORO:
M'addentrai fra sottili argomenti
bene spesso, fra dispute gravi,
piú di quanto convien che ne cerchi
donnesca progenie.
Ché abbiamo una Musa anche noi,
che vive con noi, che c'ispira
saggezza. Non tutte; ma pure
talune (forse una fra molte
trovarne potresti)
non sono di senno inesperte.
Ora, affermo, che quanti degli uomini
son di pargoli ignari, né mai
procrearono figli, son molto
piú felici di quelli che n'ebbero.
Quei che prole non ebbero, e ignorano
se cosa dogliosa o soave
sian per gli uomini i pargoli, quando
non n'ebbero, vivono scevri
di molte sciagure.
Quelli invece che dolci germogli
in casa han di figli,
li vedo che giorno per giorno
nei pensieri si struggono. Primo,
di bene allevarli; poi, d'onde
lasceranno sostanza ai figliuoli.
Oltre a ciò, se per buoni o per tristi
si spendan le loro fatiche,
nessuno lo sa.
E un male soggiungo, l'estremo
fra tutti, per gli uomini tutti.
Trovarono agevole copia
di vita, sia pure, pervennero
le membra dei figli a fiorente
gioventú, buoni crebbero. Ma,
se tale è il destino,
la Morte, lontano, nell'Ade
i corpi dei figli trascina.
A che giova dunque, che i Superi
sopra l'altre sciagure, ai mortali
addossino questa
dei figli, acerbissima?
(Giunge, esterrefatto, un messo)

(segue)

 
 
 
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