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« MEDEA DI EURIPIDE (5/6)CLAUDIA D'IPPOLITO - PIANISTA »

MEDEA DI EURIPIDE (6/6)

Post n°81 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

Medèa:
Da un bel tratto gli eventi, amiche, attendo,
l'esito spio, qual ne sarà. Ma vedo
un dei famigli di Giasone giungere:
l'affannoso respir, ben mostra ch'egli
qualche nuova sciagura annunzierà.
NUNZIO:
O tu rea d'un iniquo orrido scempio,
fuggi, fuggi, Medèa: né carro nautico
né terrestre da te non sia negletto.
Medèa:
Per quale causa tanto urge ch'io fugga?
NUNZIO:
Fu spenta or or la giovine regina,
pei tuoi veleni, e il padre suo Creonte.
Medèa:
Dolcissime parole! E d'ora innanzi
benefattore e amico io ti considero.
NUNZIO:
Che dici? In te sei, donna, non sei folle?
Odi che il focolar dei nostri re
è distrutto, e t'allegri, e non sgomenti?
Medèa:
Bene io saprei parole onde ribattere
le tue; ma narra senza fretta, amico,
la loro morte: se fu crudelissima
morte, due volte lieta mi farai.
NUNZIO:
Poiché dei figli tuoi la coppia giunse
insiem col padre, e nella stanza entrò
della regina, ci allegrammo noi
servi, che pel tuo mal tristi eravamo;
e fu per il palagio un gran discorrere,
che con lo sposo tu composta avevi
l'antica lite. E chi la mano, e chi
il biondo capo dei fanciulli bacia.
E, pel piacere, anch'io, dietro ai fanciulli,
sino alle stanze delle donne entrai.
E la signora che onoriamo adesso
in vece tua, pria di veder la coppia
dei figli tuoi, lo sguardo affettuoso
a Giasone volgea. Ma, come entrarono,
velo si fece agli occhi, e volse altrove
la bianca guancia: ché n'avea disgusto.
Ed il tuo sposo, a mitigar lo sdegno
della fanciulla, sí parlò: «Non essere
nemica ai fig1i miei, placa lo sdegno,
qui volgi il capo, ed abbi cari quelli
che son cari al tuo sposo, e i doni accetta,
e implora il padre tuo che dall'esilio,
per grazia mia, questi fanciulli affranchi».
Ed ella, come e veste e vezzo vide,
non resisté, ma die' consenso a quanto
chiedea lo sposo. E, pria che dalla reggia
fossero lungi padre e figli, il peplo
varïopinto prese, e lo indossò,
e sopra i ricci la corona d'oro
posta, la chioma s'acconciò davanti
ad un lucido specchio; ed alla propria
inanimata immagine sorrise.
Poscia, dal trono surse, e traversò,
sul bianchissimo pie' molle incedendo,
la stanza; e tutto gaudio era pei doni;
e spesso e a lungo si mirò, levandosi
sugli apici dei pie', sino al tallone.
Ciò che poscia seguí, per chi lo vide,
fu spettacolo orrendo. Essa mutò
d'improvviso colore; e, tremebonda
per ogni membro, e indietreggiando obliqua,
sopra un seggio a cader pervenne, appena
che non piombasse a terra. E delle ancelle
una piú annosa immaginò che invasa
di Pan le furie o di qualche altro Dèmone
l'avessero; e gridò, sinché non vide
candida spuma dalla bocca scorrere,
e lei stravolger le pupille, e il sangue
dalla pelle sparito; e un urlo alzò,
ben differente, di cordoglio. E súbito
alla reggia del padre una volò,
un'altra al nuovo sposo, e la sventura
narrâr della fanciulla; e d'un accorrere
fitto, sonora fu tutta la casa.
E tanto tempo era già corso, in quanto
un veloce pedon, doppiando il braccio
d'una lizza di sei plettri, tornato
al termine sarebbe; e la tapina
dal muto e cieco stato si destò,
grida levando orribili: ché duplice
spasimo aveva le sue fibre invase:
dal serto d'oro al capo attorno cinto,
d'arcano fuoco un rivolo sprizzava
divoratore; ed il fin peplo, dono
dei figli tuoi, le carni divorava
dell'infelice. E, balzando dal trono,
s'avventa, in fiamme, squassando qua e là
e chioma e capo, per gittare il serto.
Ma dell'oro ben salda era la presa;
e il foco, quanto piú scotea la chioma,
tanto piú sfolgorava. E a terra cadde,
dallo spasimo affranta; e riconoscerla,
niun, tranne il padre suo, potuto avrebbe:
ché ben distinta la forma degli occhi
non era piú, né ben formato il viso;
e sangue giú dal vertice de capo,
misto a sangue, stillava, e, lungo l'ossa,
le carni, pari a lagrime di pino,
scorrevano. Guardarla, era un orrore;
e la salma toccar, tutti temevano:
ch'era stato l'evento a noi maestro.
Ma della sorte ignaro, il padre misero,
nella stanza improvviso irruppe; e súbito
leva un ululo, e piomba sul cadavere,
la salma abbraccia, la bacia, le volge
la parola cosí: «Figlia infelice,
quale dei Numi a cosí sconcia fine
t'addusse? Orbo di te, chi questo vecchio,
presso alla tomba rese? Ahimè, con te,
figlia mia, fossi morto!». E quando poi
dalle querele desisté, dai gemiti,
il vecchio volle sollevarsi; e stretto
ai fini pepli si sentí, com'ellera
a cespiti d'alloro. E cominciò
un'orribile lotta: egli il ginocchio
sollevare volea; ma lo stringeva
a sé la salma; e se traeva a forza,
la vecchia carne dall'ossa strappava.
Si spense infine, l'anima esalò,
ché piú non resse alla crudel tortura.
Or, la figliuola e il vecchio padre giacciono
spenti vicini, dolce esca alle lagrime.
Dei casi tuoi, parola dir non voglio:
il mal, su chi lo fa, lo sai, ricade.
Le cose umane, poi, non è la prima
volta ch'ombre le stimo, e non mi pèrito
d'affermare che quei che saggi e acuti
di parole maestri esser presumono,
affetti da follia son piú degli altri:
ché felice non è verun degli uomini.
Piú fortunato, quando abbia benessere,
può l'uno esser dell'altro; e niun felice.
(Parte)
CORO:
Sembra che molti in questo giorno il Dèmone
gravi malanni su Giasone avventi.
Ma quanto, o figlia di Creonte, o misera,
la tua sciagura compiangiam; ché scendi,
grazie alle nozze con Giason, nell'Ade!
Medèa:
Amiche, è fermo il mio disegno: i figli,
prima ch'io possa, uccidere, e lontano
fuggir da questa terra, e non concedere
che per l'indugio mio muoiano i figli
di piú nemica mano. è ch'essi muoiano
ferma necessità. Poiché bisogna,
io che li generai li ucciderò.
Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? è vile
non far ciò che bisogna, anche se orriblle.
Su, sciagurata mano mia, la spada,
stringi la spada, e muovi a questo truce
termin di vita, non esser codarda,
né dei fig1i pensar che d'ogni cosa
ti son piú cari, e che li desti a luce.
Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,
e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,
cari sono essi, e sciagurata io sono.
(Entra nella reggia)
CORO: Strofe prima
O Terra, o fulgidissimo
raggio del Sole, a questo suol volgetevi,
mirate questa sciagurata femmina,
prima che avventi l'impeto
della morte sanguinea
sui figli suoi. Dell'aurea progenie
tua son germoglio; ed uom che versi l'ícore
d'un Dio, dei Numi la vendetta pròvoca.
Ma tu reggila, frenala,
raggio divin: tu scaccia dalla casa
la sanguinaria Erinni, cui lo spirito
della vendetta invasa.

Antistrofe prima
Invano, dunque, i pargoli
generasti alla luce: spersi ed írriti
i travagli materni andaron, misera,
che l'inospite tramite
delle azzurre Simplègadi
abbandonasti. Or, che t'invade l'animo
cura sí grave? A che, furia d'eccidio
segue a furia d'eccidio? Il consanguineo
contagio infesto agli uomini,
pena al misfatto ugual sovressi i rei
desta, che su le lor case precipita,
per voler degli Dei.
(Dal di dentro si odono i disperati urli dei bambini)
CORO: Strofe seconda
Odi dei figli la querula voce?
Ahi, temeraria, ahimè, donna feroce!
FIGLIO A:
Ahi, dove sfuggo alla materna mano?
FIGLIO B:
Non so: perduti siamo, o mio germano.
CORO:
Bisogna i figli salvare da morte!
Varchiamo le porte!
FIGLIO A:
è questo il punto. Accorrete, accorrete!
FIGLIO B:
Già già del ferro ci avvince la rete!
CORO:
Ahi, scellerata, di ferro, di roccia
sei, che i tuoi figli, i tuoi stessi germogli,
con la tua mano di vita li togli?

Antistrofe seconda
Sola una donna dei tempi lontani
so, che sui figli avventasse le mani:
Ino, dai Numi resa folle, quando
dalla casa Era via la spinse in bando.
E giú nel mare, poi ch'ebbe trafitta
la prole, si gitta:
i suoi piedi spingeva oltre la riva,
e lei la morte e i due figli ghermiva.
Quali altri orrori seguire potrebbero?
O delle femmine nozze funeste,
quanti ai mortali già lutti adduceste!
(Giunge Giasone, in corsa affannosa)
GIASONE:
Donne che presso a questa casa state,
forse dentro è Medèa, che perpetrò
orridi scempî, e volse a fuga il piede?
Conviene che sotterra ella si asconda,
o che dell'ètra per gli abissi il corpo
innalzi a volo; o il fio pagar dei principi
alla reggia dovrà. Confida forse,
quando ella uccise della terra i principi
impunita fuggir da queste mura?
Ma non di lei mi dò pensiero, quanto
dei figli miei: ché a lei, chi male n'ebbe,
male darà; ma dei miei figli vengo
la vita a tutelar: ché l'empia strage
della lor madre a vendicar sovr'essi
dei signori i parenti non risolvano.
CORO:
Fra che mali ti trovi ignori, o misero
Giasone; o tu cosí non parleresti.
GIASONE:
Che avvenne? Anche me, forse, uccider vuole?
CORO:
Spenti fûr dalla madre i figli tuoi!
GIASONE:
Ahimè, che dici! Tu m'uccidi, o donna!
CORO:
Sappi che i fig1i tuoi piú non son vivi!
GIASONE:
Dove li uccise? Nella casa, o fuori?
CORO:
La porta schiudi, e ne vedrai la strage.
GIASONE:
I serrami allentate, o servi, prima
che sia, le spranghe liberate, ch'io
vegga il duplice male: i figli morti,
e la donna a cui morte infliggerò.
(Appare in aria Medèa, su un carro tratto da draghi
alati. Ai suoi fianchi, sono i cadaveri dei figli)
Medèa:
A che mai questa porta scuoti e scalzi,
e i morti cerchi, e me che uccisi? Tregua
poni al travaglio; e se d'uopo hai di me,
di' quel che vuoi. Ma non potrai toccarmi.
Il Sole, il padre di mio padre, un carro
mi die' che me degl'inimici salva.
GIASONE:
Donna esecrata, piú d'ogni altra a me
e ai Numi infesta, e a tutti quanti gli uomini,
che cuore avesti di vibrar la spada
sui fig1i tuoi, che partoristi, e me
orbo di figli e misero rendesti,
e dopo ciò, dopo compiuta un'opera
piú d'ogni altra esecranda, e Sole e Terra
guardare ardisci? L'esterminio a te!
Or fatto ho senno: allor senno non ebbi,
che dalla casa e dalla patria barbara
tua, nella patria mia t'addussi, in Ellade,
o traditrice di tuo padre, e della
terra, che ti nutriva, o gran flagello.
I Numi contro me spinsero il Dèmone
che te punir dovea: ché il tuo germano
al focolare presso ucciso avevi,
quando ascendesti il legno d'Argo bello.
Tale il principio fu. Poscia, a quest'uomo
fosti consorte, e generasti figli,
e sterminati li hai, per gelosia
dell'amplesso e del letto. Oh, niuna tanto
osato avrebbe delle donne ellène
da me neglette, che te scelsi a sposa,
te mia nemica, te rovina mia,
leonessa e non donna, e ch'hai natura
selvaggia piú della tirrena Scilla.
Ma morderti che val con mille e mille
oltraggi? è troppa l'impudenza tua.
Alla malora va', di turpitudini
operatrice, assassina dei figli!
A me non resta che gemer la sorte
mia: ché fruir delle novelle nozze
non potrò, non potrò parlare ai figli
che generai, nutrii, ma li ho perduti.
Medèa:
Alle parole tue lunga risposta
rivolta avrei, se non sapesse Giove
ciò che avesti da me, ciò che mi desti.
Ma non dovevi tu, poi che il mio talamo
vituperasti, gaiamente vivere,
ridendoti di me, né la regina;
né quei che a nozze t'istigò, Creonte,
a scorno via da questo suol bandirmi.
Come or ti piace, leonessa o Scilla
del tirren piano abitatrice chiamami:
il tuo cuor lanïai, com'era giusto.
GIASONE:
Te stessa strazi, e il male mio partecipi.
Medèa:
Il mio, purché non rida tu, si mitiga.
GIASONE:
Figli, che trista madre aveste in sorte!
Medèa:
Del padre il morbo vi distrugge, o figli.
GIASONE:
No: dalla mano mia spenti non furono.
Medèa:
M'erano oltraggio le tue nuove nozze.
GIASONE:
L'offeso letto a uccidere ti spinse?
Medèa:
Per una donna è poca doglia, immagini?
GIASONE:
Sí, purché savia; e tu sei trista tutta.
Medèa:
Questi son morti; e ciò ti morde il cuore.
GIASONE:
Duro castigo avrai dai loro spiriti.
Medèa:
Chi fu la prima causa, i Numi sanno.
GIASONE:
Sanno il cuor tuo, quant'è degno d'obbrobrio.
Medèa:
Odiami: aborro la tua voce amara.
GIASONE:
Ed io la tua; ma separarci è facile.
Medèa:
Come? Che devo fare? Anch'io lo agogno.
GIASONE:
Fa' che i miei figli io sepellisca e lagrimi.
Medèa:
No certo: seppellirli io stessa intendo,
con le mie mani. Nel sacrario d'Era,
Diva d'Ascrèa, li porterò, ché niuno
dei nemici l'insulti, e non profani
le tombe loro. E in questo suol di Sísifo
sacre istituirò feste, e cortei,
per espiare questa orrida strage.
Alla terra mi reco io d'Erettèo,
e con Egèo, figliuolo di Pandíone
abiterò: tu, com'è giusto, morte
farai da tristo, ché sei tristo: avranno
amaro fine le tue nuove nozze.
GIASONE:
Dei fanciulli l'Erinni ti stermini,
e Giustizia, l'ultrice del sangue.
Medèa:
E qual Genio, o spergiuro, t'udrà,
quale Iddio, traditore degli ospiti?
GIASONE:
Ahi, ahi, turpe assassina dei figli!
Medèa:
Entra: appresta alla sposa il sepolcro.
GIASONE:
Vado: orbato d'entrambi i miei figli.
Medèa:
Nulla è or: piangerai piú da vecchio.
GIASONE:
Figli cari...
Medèa:
alla madre: a te no.
GIASONE:
E perciò li uccidesti?
Medèa:
A crucciarti.
GIASONE:
O me misero! Io voglio le labbra
dei carissimi figli baciare.
Medèa:
Or li chiami, or soave a lor parli,
quando pria li scacciasti?
GIASONE:
Oh, ch'io tocchi
le lor tenere membra concedi!
Medèa:
Non sarà: sperdi invano i tuoi detti.
GIASONE:
Odi, o Giove, quale empia repulsa,
quale torto mi fa, questa oscena
leonessa, dei figli assassina!
Pure quanto m'è dato e possibile,
io li piango, e ai Celesti m'appello,
e i Dèmoni chiamo, che attestino
che, trafitti i figliuoli, mi nega
che a loro le mani
appressi, che a lor dia sepolcro.
Deh, mai non li avessi
generati, se uccisi vederli
dovevo da te!
(Il carro alato sparisce nell'aria)
CORO:
Molte cose in Olimpo sollecita
il Croníde; e i Celesti deludono
ben sovente ogni attesa. Molte opere
imperfette restaron, che al termine
parean giunte: parea che niun esito
altre avessero; e un Dio schiuse un tramite.

dal sito www.rodoni.ch 

 
 
 
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